In quel paragrafo, il Papa sottolinea di essere a volte rattristato dal fatto che “pur dotata di tali motivazioni, la Chiesa ha avuto bisogno di tanto tempo per condannare con forza la schiavitù e diverse forme di violenza”. Ma oggi – aggiunge Papa Francesco – “con lo sviluppo della spiritualità e della teologia, non abbiamo scuse. Tuttavia, ci sono ancora coloro che ritengono di sentirsi incoraggiati o almeno autorizzati dalla loro fede a sostenere varie forme di nazionalismo chiuso e violento, atteggiamenti xenofobi, disprezzo e persino maltrattamenti verso coloro che sono diversi”.
Si parte da un presupposto: l’insegnamento di Gesù non è l’insegnamento per formare una nuova società, ma per formare una nuova umanità. Questa è chiamata a far nascere una nuova civiltà. Non c’è il desiderio di prendere il potere con lo scopo di eliminare il male dalla terra, ed è qui la più grande differenza con le rivoluzioni secolari.
Ed è per questo che, dopo Gesù, i cristiani vissero nel sistema della schiavitù e non la combatterono frontalmente. Sarebbe stato persino dannoso per il messaggio cristiano, perché nessuno avrebbe pensato al Vangelo, ma solo a combattere quanti si opponevano ad un sistema che, alla fine, reggeva buona parte dell’economia dell’impero.
Il cristianesimo, tuttavia, pur accettando la presenza dalla schiavitù come istituzione sociale, cominciò a sviluppare la nozione che anche lo schiavo è un essere umano. Il motivo per cui non si opposero direttamente era che non avevano il potere di cambiare l’ordine sociale. Ma potevano raccomandare che gli schiavi fossero trattati bene. Anche San Paolo scrisse di libertà soprattutto in termini di libertà interiore, chiese che gli schiavi fossero trattati come fratelli, e continuamente si riferisce agli schiavi, lasciando intendere che possono contribuire allo splendore della vita cristiana.
Nel IV secolo, San Gregorio di Nissa disse pubblicamente che la schiavitù è contraria alla legge di Dio, Sant’Ambrogio chiese di liberare gli schiavi, San Giovanni Crisostomo smontò le basi economiche della schiavitù ed esortò i padroni ad insegnare agli schiavi un lavoro, Sant’Agostino si oppose fermamente alla schiavitù.
Ci sono stati due Papi, Pio I e Calisto I, che sono stati schiavi. Nel VII secolo, la schiave britannica Bathilde fu canonizzata.
Certo, nemmeno gli imperatori cristiani hanno abolito la schiavitù. Eppure, Costantino aveva l’obiettivo di liberare più cristiani possibile, mentre Giustiniano affermò che la schiavitù era “contro il diritto naturale”.
A questo si aggiungono innumerevoli concili che hanno affrontato il tema. I Concili di Orange, Orleans ed Epone stabilirono che è uno schiavo rifugiato in Chiesa va protetto; il Concilio di Verberie e Compiegne stabilì che il matrimonio tra un “libero” e uno schiavo è valido se contratto con pieno consenso; i Concili di Auxerre, Rouen, Wessex e Berghamsted chiesero per gli schiavi il riposo domenicale; il Concilio di Chalon-sur-Saone chiese la soppressione del traffico di schiavi, il Concilio di Clichy proibì la riduzione di un uomo libero in schiavitù.
Nell’Europa Medievale, la Chiesa estese tutti i suoi sacramenti a tutti gli schiavi, fino a proibirla per i cristiani, divenendo di fatto una abolizione universale. Gregorio XVI, nel documento “In Supremo”, denunciò con forza il traffico di schiavi e i cristiani che ne avevano approfittato.
E poi ci sono altri documenti papali: la “Sicut Dudum” di Papa Eugenio IV, che condannava la schiavitù nelle calerie, nel 1435; la Sublimis Deus di Paolo III che condannava la schiavitù. E ancora: nel 1462 Pio II dichiarò la schiavitù un grande crimine, nel 1639 Papa Urbano VIII la proibì, e lo stesso fece Benedetto XIV nel 1741, mentre nel 1888 Leone XIII, parlando ai vescovi brasiliani, diede loro il mandato di estirpare dalla nazione i residui di schiavitù e canonizzò poi Pietro Claver, gesuita, uno dei più illustri avversari della schiavitù, mettendo in luce “l’enorme villania dei mercanti di schiavi”.
Di fronte a tutte queste evidenze storiche, mi sembra difficile comprendere perché il Papa si lamenti di una condanna che secondo lui non c’è stata. Perché mai la Chiesa è stata a favore della schiavitù. Possono esserci stati uomini di Chiesa che la hanno appoggiata, ma sono stati casi.
Alla fine, il problema mi sembra essere quello di tutta la Chiesa oggi, e in generale del mondo. Si misurano le circostanze sulla base di un qui ed ora. La Chiesa non poteva subito urlare ad alta voce contro l’istituzione della schiavitù, ma ha portato avanti una battaglia a lungo termine: ha cambiato la mentalità, ha mostrato che tutti potevano essere uguali, ha creato un mondo dove la schiavitù è arrivata ad essere considerata come inaccettabile. Sulla base, tra l’altro, dell’idea che siamo tutti figli dello stesso Padre, e dunque “tutti fratelli”, come recita il titolo dell’enciclica.
Ma questa logica si applica a molte delle situazioni attuali della Chiesa. Si cerca di fare giustizia subito, di parlare subito, di condannare subito, senza però guardare ai contesti più ampi. Più che combattere la mentalità corrotta, e formarne di conseguenza una nuova, si combattono direttamente i corrotti, cosa che crea una dialettica che non sembra mai avere fine.
Funziona per il tema della schiavitù, ma funziona allo stesso modo per gli scandali di natura finanziaria, o per quelli morali. C’è bisogno di dare un giudizio, di esprimere una parola forte, di essere parte di quella rivoluzione che il mondo pensa che la Chiesa debba avere. C’è troppa fretta, forse, in una Chiesa che invece ha sempre pensato in termini di eternità.
Non solo. Si perde anche il senso stesso della Chiesa. Papa Francesco ama parlare di una Chiesa “ospedale da campo”. Ottima similitudine. Quando arriva un ferito all’ospedale da campo, cosa si fa? Lo si cura o prima si fa la lista di tutti i suoi errori e si controlla quanto è corrotto e, nel caso, lo si caccia?
Se si entra in questo ragionamento, si possono comprendere molte cose della Chiesa. Si può capire che molti errori che sono stati fatti vadano letti in un’altra luce. La Chiesa non condanna, ma permette a tutti i suoi figli di redimersi. Senza processi sommari, ma con l’idea di creare una nuova civiltà.
Non significa, si badi bene, che non si debba amministrare la giustizia. Anzi, la giustizia è una grandissima forma di carità. Ma questa giustizia deve essere anche considerata nel contesto. A volte, una condanna netta può essere buona per i titoli dei giornali, ma di certo non aiuta una istituzione che avrà molte mele marce, ma ha anche un mondo nascosto che fa del bene e ci crede davvero, e va protetto. Tutto questo “Vaticano nascosto” deve essere messo a rischio dalla condanna di alcuni? Anche qui, è il principio della Chiesa ospedale da campo che sembra venire meno.
Le parole di Papa Francesco, però, dimostrano anche un cambiamento di paradigma in cui la Chiesa si percepisce. Non più in funzione di eternità, ma in funzione contingente. Conta la condanna, non conta la strada e la resurrezione. Questo è il messaggio che sembra passare.
Con questo, passa anche un altro messaggio: che il Papa scrive i suoi documenti partendo direttamente dal suo punto di vista personale, ma senza allargare davvero lo sguardo. È un dato che colpisce. Le encicliche dovrebbero essere documenti di portata universale, non legati alle situazioni del momento. Vero che le situazioni del momento un po’ richiedono altri tipi di sguardo – la pubblicazione della Caritas In Veritate fu tardata proprio per vedere gli effetti della crisi economica, ad esempio. Ma è anche vero che serve, piuttosto, una visione universale, di insieme, di sintesi. Si punta all’eternità, non alle risposte ai problemi concreti, al qui ed ora.
È stata sempre questa la strada della Chiesa. Ed è per questo che la Chiesa non ha mai ceduto ai poteri secolari, ma è sempre andata avanti per la sua strada.
E si viene all’oggi. Perché quando Giuliano Ferrara, riferendosi alla situazione che si è creata con gli scandali finanziari vaticani, scrive che un Papa “il repulisti lo fa a modo suo invece di eseguire maldestramente i mandati investigativi della Guardia di Finanza”; quando Mattia Feltri nota che “è il Vaticano ma sembra la Procura di Trani”; quando, insomma, campioni del pensiero liberale, atei devoti o non devoti notano la secolarizzazione della Chiesa; allora si è annullato lo scarto tra una Chiesa che ha la dimensione di eternità e una Chiesa che invece misura le reazioni in minuti, come fa il secolo.
La posizione di Papa Francesco sulla schiavitù racconta di una nuova autopercezione della Chiesa, paradossalmente più mondana proprio nel tentativo di renderla meno mondana. Ed è qui che si comprende anche come la comunicazione sulla Chiesa abbia fallito.
Ci siamo preoccupati di andare a guardare i dettagli dei dibattiti conciliari e post conciliari o semplicemente pseudo-intellettuali, di dividere il mondo in progressisti e conservatori, e non abbiamo visto, invece, una Chiesa che doveva lottare per mantenere la sua identità e difendere la sua storia. Anzi. Ogni volta che si è provato a difendere l’identità della Chiesa, chi ci ha provato è stato tacciato di conservatorismo. Provate a chiedere a Paolo VI e al lavoro che fece con l’Humanae Vitae.
Si è passati da un Benedetto XV che nella Pacem Dei Munus Pulcherrimum rivendicava il modo in cui la Chiesa aveva portato la pace in Europa federando le popolazioni, ma mantenendo a ciascuna le proprie caratteristiche, ad una Fratelli Tutti in cui la storia della Chiesa sembra passare in secondo piano.
Non è colpa di Papa Francesco, e non è che questo renda l’enciclica non cattolica, o il Papa scismatico. Non voglio essere frainteso su questo. Ma quel paragrafo dell’enciclica mi ha detto di un mondo che è cambiato, e questo è un dato che deve far riflettere. Non merita la gioia smisurata che si nota in ambito progressista, contenti di un punto di vista vicino, e quasi amico. Ma non merita nemmeno indifferenza. Perché i cattolici devono essere consapevoli della loro storia, anche andando in direzione ostinata e contraria.
E no, non c’entra poi il nazionalismo xenofobo, la Chiesa non ha mai giustificato nemmeno questo. Forse si deve cominciare a comprendere prima di tutto cosa significa essere cattolici. E forse dovrebbero cominciare a farlo proprio quei mezzi di comunicazione che si dicono cattolici, ma che in fondo restano nella dimensione unica del presente. Senza mai considerare che il cattolico ha quattro dimensioni: il presente che vive, il passato che lo sorregge, il futuro che gli dà speranza e la vita eterna che gli dà la certezza. Non può cedere, dunque, al complotto contro la verità (copyright di Pio IX) che sembra essere diventata la storia.
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