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lunedì 15 giugno 2020

Quel clima da “1984” che ha portato alla dittatura del pensiero unico

Quest’anno si sono celebrati i cento anni dell’enciclica sulla pace di Benedetto XV Pacem Dei Munus Pulcherrimum. E rileggere i documenti serve sempre per comprendere qualcosa in più di quello che siamo oggi e che abbiamo dimenticato.

Di quell’enciclica, mi ha colpito più di tutti questo passaggio:
Sappiamo dalla storia che, da quando la Chiesa pervase del suo spirito le antiche e barbariche genti d’Europa, cessarono un po’ alla volta le varie e profonde contese che le dividevano, e federandosi col tempo in una unica società omogenea, diedero origine all’Europa cristiana, la quale, sotto la guida e l’auspicio della Chiesa, mentre conservò a ciascuna nazione la propria caratteristica, culminò in una unità, fautrice di prosperità e di grandezza.
 Si tratta, forse, della più bella dichiarazione sulle radici cristiane d’Europa che sia stata mai scritta, e colpisce che, nel grande dibattito che ci fu sul tema quando poi l’Europa rifiutò di includere le radici giudaico-cristiane nel progetto di Costituzione Europea.

Quello che colpisce di più, però, è la descrizione di come la società cristiana abbia pervaso la società europea. Non con la conquista, ma federando, conservando a ciascuna nazione la propria caratteristica, per arrivare ad una unità “fautrice di prosperità e grandezza”.

È probabilmente il merito più disconosciuto della civiltà cristiana. La civiltà cristiana non riscrive la storia, non cancella il passato. Entra nella storia e la porta ad unità. La civiltà cristiana non ha cancellato le vestigia di quello che è stato, né ha preteso di entrare nella storia in maniera violenta. Ha piuttosto preferito cambiare il corso della storia, facendo leva sulla rivelazione di Gesù Cristo.

Tutta la storia della Chiesa va letta in questa chiave. Non che non ci siano stati errori, né letture delle situazioni che oggi ci potrebbero sembrare inaccettabili. Ma questo vale per ogni cosa degli esseri umani. Niente può essere giudicato con gli occhi del presente. Ma gli occhi del presente possono contribuire a cambiare il futuro rendendosi conto degli errori passati.

Questo mi veniva da pensare guardando al dibattito che ha fatto seguito all’uccisione di George Floyd negli Stati Uniti. Ci sono state manifestazioni giuste contro il razzismo, che hanno messo in luce un problema americano che, in fondo, non è nato con Trump e con Trump mai finirà. Ma c’è stata anche una strumentalizzazione politica della vicenda, l’utilizzo di piattaforme che partivano dai temi giusti della lotta al razzismo per poi arrivare a proporre visioni del mondo precise, e persino un chiaro contrasto a quanti questa visione del mondo non condividevano.

Una buona contro-narrativa è stata fatta dal settimanale Tempi, che ha messo in luce – unico in Italia, almeno per quanto ho visto io – come la questione razziale sia diventata presto la dittatura del pensiero unico.

E l’esempio chiaro è successo quando due giornalisti sono stati “epurati” dai loro giornali, tra l’altro entrambi “bibbie” del pensiero liberal, perché avevano osato presentare opinioni eterodossse sulle manifestaizoni.

I due giornalisti erano Stan Wischnowski, caporedattore del Philadelphia Inquirer e James Bennet, direttore della sezione opinioni del New York Times. I due si sono dovuti dimettere per aver lasciato passare idee critiche sulle rivolte scoppiate in diverse città degli Stati Uniti dopo l’uccisione di George Floyd.

In particolare, Bennet ha autorizzato la pubblicazione di un commento del senatore repubblicano Tom Cotton a favore dell’intervento dell’esercito per sedare le rivolte, ed è un paradosso considerando che il New York Times si è sempre vantato di avere una straordinaria apertura al dibattito, anche con quanti non la pensano in maniera esatta.

Il tema delle loro dimissioni, avvenute dopo una rivolta interna delle stesse redazioni, è stato affrontato da un editoriale del Wall Street Journal in cui è emersa la preoccupazione per il dilagare dell’intolleranza degli anti-razzisti. Le dimissioni, si legge nel WSJ, “sono un’altra pietra miliare nella marcia della politica identitaria e della cultura della cancellazione attraverso le nostre istituzioni liberali, e l’informazione e la democrazia americane ne usciranno peggiorate”.

Il WSJ denuncia un irrigidimento ideologico della sinistra, che però non deve lasciar contenti a destra. L’analisi del Wall Street Journal è impietoso.

“Tutto questo – scrive il quotidiano economico USA - mostra fino a che punto il giornalismo in America è ora dominato dalle stesse condanne morali, pretese di “spazi sicuri” e dogmatiche dottrine identitarie iniziate nelle università. I promotori di questa linea politica ora dettano legge in quasi tutte le principali istituzioni culturali americane: musei, organizzazioni filantropiche, Hollywood, case editrici, perfino i talk-show della notte”.

Concludeva il WSJ: “Su questioni ritenute sacrosante – e l’idea che l’America sia razzista fino al midollo oggi è una di queste – non c’è spazio per il dibattito. Devi ammettere di non essere stato capace di apprezzare l’ortodossia e fare penitenza, altrimenti non sopravvivrai in questo lavoro”.

Il punto è che questo non vale solamente per la questione razziale. C’è un irrigidimento di posizioni, tra destra e sinistra, che riguarda i più svariati campi. Il problema della polarizzazione nasce, in fondo, proprio con la questione identitaria, nella necessità di creare un “noi” e un “loro” invece di cercare la comunione.

Non è solo il destino del giornalismo. Il giornalismo, in questo, rispecchia le situazioni del mondo. In fondo, le contrapposizioni hanno sempre portato alle rivolte, le sintesi alla pace sociale. La cultura, la civiltà non ha mai portato a un reale conflitto. Ma, con la nascita delle “nuove culture” o delle controculture, tutto è diventato un conflitto, una lotta per riscrivere la storia.

È un mondo formato alla scuola della Rivoluzione Francese, che nella sua follia iconoclasta andava persino a cambiare i mesi dell’anno, e cancellava dalla storia e dalla tradizione tutto ciò che si opponeva alla sua narrativa.

Ogni volta che ci penso, mi vengono alla mente le parole di un altro Papa, Benedetto XVI, il quale, omaggiando Leone XIII a Carpineto Romano il 5 settembre 2010, andava a vedere quale era la situazione europea al tempo di Papa Pecci.

 Dobbiamo ora domandarci: qual era il contesto in cui nacque, due secoli fa, colui che sarebbe diventato, 68 anni dopo, il Papa Leone XIII? L’Europa risentiva allora della grande tempesta Napoleonica, seguita alla Rivoluzione Francese. La Chiesa e numerose espressioni della cultura cristiana erano messe radicalmente in discussione (si pensi, ad esempio, al fatto di contare gli anni non più dalla nascita di Cristo, ma dall’inizio della nuova era rivoluzionaria, o di togliere i nomi dei Santi dal calendario, dalle vie, dai villaggi…). Le popolazioni delle campagne non erano certo favorevoli a questi stravolgimenti, e rimanevano legate alle tradizioni religiose. La vita quotidiana era dura e difficile: le condizioni sanitarie e alimentari molto carenti. Intanto, si andava sviluppando l’industria e con essa il movimento operaio, sempre più organizzato politicamente. Il magistero della Chiesa, al suo livello più alto, fu sospinto e aiutato dalle riflessioni e dalle esperienze locali ad elaborare una lettura complessiva e prospettica della nuova società e del suo bene comune. Così, quando, nel 1878, fu eletto al soglio pontificio, Leone XIII si sentì chiamato a portarla a compimento, alla luce delle sue ampie conoscenze di respiro internazionale, ma anche di tante iniziative realizzate “sul campo” da parte di comunità cristiane e uomini e donne della Chiesa.

È la storia nascosta della Rivoluzione, che cancella la storia e crea un mondo nuovo, in cui l’uomo è però solo, perché sradicato. Un mondo nuovo che si è acuito dopo la Prima Guerra Mondiale, con il crollo degli imperi e la nascita di Stati che non corrispondevano alle nazioni. Popoli interi privati di storia, di lingua, di identità, spostati da un confine all’altro  o persino vittime di genocidio.

C’è una violenza della narrativa che porta a piegare la storia alle esigenze narrative, e non viceversa. Pio IX, nel pieno della crisi risorgimentale, denunciava la congiura contro la verità. Il Concilio Vaticano I era, in fondo, un tentativo di ritornare proprio alla storia, quella vera.

Scrive la storica Angela Pellicciari nel suo Una storia della Chiesa”: “Nell’imminenza della conquista di Roma, Pio IX convoca il Concilio Vaticano I. Dopo millecinquecento anni, torna al potere una visione pagana della vita che sconvolge in profondità le abitudini e le istituzioni della popolazione cattolica: il popolo non è solo impoverito, è scioccato, sconfortato, amareggiato”.

E il  dibattito sulla Chiesa? Il dibattito sulla Chiesa ha preso la stessa piega. Benedetto XVI già denunciava “un concilio dei media” e un “concilio reale”, ma la verità è che gli stessi uomini di Chiesa sono spesso caduti nella trappola. Il dibattito sulla Chiesa è fatto di contrapposizioni, più che della ricerca di comunione. La storia viene riscritta moltissime volte, e tutto viene spesso presentato come nuovo, staccato dalla storia.

Ecco, quello che è mancato in questo dibattito è stata proprio la voce controcorrente della Chiesa. Una voce in grado di guardare da un punto di vista diverso alle cose, di non omologarsi, di prendere il grande tema della dignità dell’essere umano. Una voce che potesse chiarirsi anche dalle accuse di aver appoggiato la schiavitù, perché anche quella storia andrebbe rivista – e sempre Angela Pellicciari lo ha fatto raccontando l’evangelizzazione dell’America Latina nel suo Una Storia Unica.

È brutto dirlo, ma è mancata una visione realmente cristiana sul mondo. E se ne sente fortissimamente la mancanza. Non ci sono intellettuali cristiani che sembrano in grado di mettersi contro il pensiero corrente, e quelli che lo sono o si riducono al ruolo di polemisti, o sono ai margini, con una voce troppo complessa perché possa essere ascoltata.

Ed è così che tutti si trovano nella terribile profezia di George Orwell in 1984, con una storia continuamente riscritta fino a dimenticare quale sia stato il passato reale. Un po’ come quei negozi che guardiamo distrattamente passando nella strada verso casa. A un certo punto, sappiamo che c’è un negozio nuovo, lo notiamo, ma non riusciamo dannatamente a ricordare cosa ci fosse prima.

In un mondo senza memoria, l’unica soluzione è quella di condannare chi una memoria ce la ha,  o ha anche un punto di vista diverso. Niente è vero, niente è reale. In fondo, la Chiesa invece permette di andare incontro alla memoria, anche dolorosa, con la grande verità dell’Eucarestia. Lo ha spiegato Papa Francesco nella sua omelia per il Corpus Domini.

Il fatto è che poi è difficile metterlo in pratica. Siamo una società non più cristiana, e si vede. Perché con il cristianesimo abbiamo perso anche il gusto della libertà.  

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