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domenica 12 luglio 2020

Santa Sofia torna moschea. È il fallimento delle religioni?

Con le sue parole all’Angelus del 12 luglio, Papa Francesco ha unito la sua voce a quella dei leader di quasi tutte le confessioni cristiane, dicendosi “addolorato” per la decisione di riconvertire Santa Sofia di Istanbul a moschea. La domanda di fondo è però una: non è che in questo dibattito siano andate a perdere tutte le religioni?

Santa Sofia nasce come cattedrale cristiana, diventa moschea con la presa ottomana del 1453 e solo nel 1935 Kemal Ataturk, il padre della Turchia moderna, decide di convertirla in un museo. Una scelta che ha una motivazione politica precisa: la Turchia è uno Stato laico, e non può, né vuole, permettersi che le religioni rivendichino uno spazio sacro.

Una decisione in cui si può intravedere la teoria di fondo che le religioni sono causa di violenza, e che un mondo senza religioni è meglio. E, in fondo, non è stata convertita in un Museo anche la cattedrale di Santa Sofia di Kiev, sottratta in questo modo alle rivendicazioni di ortodossi e greco cattolici?

Ma, ed è questo il punto, la decisione di rendere Santa Sofia un museo è stata comunemente accettata. Le confessioni cristiane hanno visto nella scelta, un male minore, che tra l’altro permetteva di riscoprire l’antico splendore della cattedrale, perché con la conversione a museo si andarono a liberare i mosaici che erano stati coperti per permettere il culto musulmano.

I musulmani, d’altro canto, avevano altri luoghi di culto, vivevano in una nazione islamica, potevano concedere un museo in nome della costruzione dello Stato.

Eppure, era rimasto qualcosa di non detto, qualcosa di non stabilito. Tanto è vero che le richieste di riconvertire Santa Sofia in moschea sono state avanzate, a più riprese, da varie associazioni musulmane, spesso bollate semplicemente come estremiste. Sarà, ma la presenza di queste richiesta racconta un sentimento che non può essere sottovalutato.

E non lo ha sottovalutato Recep Tayip Erdogan, da sindaco di Istanbul, da primo ministro e ora da presidente. Erdogan ha compreso che si può avere uno Stato, ma non una nazione, perché questa si costruisce su una identità. E se l’identità è religiosa è tanto meglio.

È un tema che molti populismi cavalcano oggi, ed è facile notarlo nell’uso continuo di simboli religiosi. Ma è un tema vincente, perché le persone, in fondo, cercano una fede, un punto di riferimento.

Il punto è che questa fede non è più una religione. È fideismo. È pietà popolare. È qualcosa che va al di là della ragione, ma è piuttosto mossa da un sentimento. Il fideismo, in fondo, può essere sfruttato dai politici. La fede no.

Questa esplosione del fideismo non è una cosa nuova. Si avvertiva da tempo, se ne notavano gli sviluppi. La pietà popolare che diventava superstizione, le sette evangelical che prendevano sempre più piede con la loro visione avventista, le nuove comunità di destino che si creavano intorno a credenze collettive.

La religione ha, mano a mano, perso posizioni nell’ambito del dibattito, e ha perso posizioni proprio per la sua incapacità di parlare ai cuori delle persone.

In molti pensano che una religione debba andare incontro alle istanze del mondo, ma non è quello il punto. Altrimenti, come si spiegherebbe, ad esempio, il disastroso crollo dei fedeli in Germania?

Altri pensano che, in fondo, la religione si debba rinnovare, ma nemmeno quello è il punto. La religione ha, e deve dare, un forte sistema di valori. Deve andare al di là della pietà popolare, che ne è una espressione, ma non è tutto. Deve dare una ragione di vita che sia ragionevole per gli uomini.

Nel corso degli anni, le religioni tradizionali si sono sempre più secolarizzate. Hanno perso di vista il loro linguaggio per prendere il linguaggio del mondo. Ci portiamo dietro gli strascichi di questo problema quando si parla di dibattito teologico in termini politici, quando ancora si descrive il Concilio Vaticano II in termini di progressisti e conservatori, quando tutto viene ridotto a qualcosa di umano, troppo umano, e viene fatto soprattutto dagli uomini di Chiesa.

Non c’è religione se questa non è nutrita dalla ragione. Perché una religione senza ragione è una religione che non ha niente da dire al mondo. Benedetto XVI non si è mai stancato di dirlo, anche a costo di creare dibattiti e controversie. Ma la religione serve a questo: a leggere il mondo con occhiali nuovi, a guardare il mondo da una prospettiva diversa, più vera, forse più umana, ma nel senso divino del termine.

Nel dibattito, ormai, non c’è più quel senso di religione ragionevole. La crisi del coronavirus lo ha reso evidente. La scienza e la politica erano i linguaggi prediletti, quelli che sapevano mostrare credibilità, mentre gli uomini religiosi erano marginalizzati, seguivano il dibattito ma non lo suscitavano.

La crisi del coronavirus ha posto le basi per una dittatura tecnocratica, in cui i beni materiali in fondo contano più dei beni spirituali, tanto che i governi hanno persino in alcuni casi deciso di riaprire i pub, ma non le chiese – è successo in Australia, dove i vescovi hanno poi avuto il coraggio di ribellarsi, appellarsi e vincere.

La crisi del coronavirus ha così certificato il fallimento delle religioni. Ma ha anche certificato un ritorno del fideismo, e quindi l’avvento di un uomo che può essere soggetto a qualunque propaganda. Un uomo che crede senza sapere perché credere, che si fa poche domande, che pensa basti pregare per risolvere i problemi. Un uomo che resterà sempre in balia degli eventi, incapace di leggerli.

La storia dimostra che gli uomini di religione sono sempre stati grandi uomini di scienza, e basta semplicemente guardare con onestà per ammetterlo. Chi ricorda, ad esempio, che Mendel, il padre della genetica, era un monaco agostiniano?

Ma la storia di oggi ci mostra che quello sguardo di raccordo tra scienza e fede si è perso, e che dunque qualunque dittatore potrà sfruttare il senso religioso per costruire identità, e così rafforzare il proprio potere. E lo potrà fare anche perché si è così schiavi del pensiero mainstream che in pochi li si potranno opporre.

La riconversione di Santa Sofia in moschea si inserisce in questo contesto, che poi va ampliato. Si collega alla distruzione delle statue di religiosi come San Junipero Serra, e anche all’incapacità del mondo della religione di opporsi alla dittatura del relativismo mentre una serie di intellettuali di sinistra è capace persino di contestarlo con un manifesto contro la cancel culture.

È tutto un mondo che mostra l’assenza di religione. Non si tratta di essere guerrieri culturali, ma piuttosto di nutrire la propria fede con la cultura. Ed è questa la sfida più grande oggi.

Non basta, dunque, essere “addolorati” per la decisione del governo turco, o addirittura palesare una minaccia contro la cristianità. Le religioni, tutte, devono fare un esame di coscienza per comprendere il perché si sono rese così irrilevanti. Così tanto che prima venivano marginalizzate per limitarne la vivacità. Oggi, sono le religioni che si limitano a farsi da parte, quasi senza coraggio.

Non è vero che la religione ha in sé tutti i mali. Ma è vero che la religione trattata come se fosse una forza secolare non è più religione. E la fede trattata attraverso il filtro della pietà popolare non è più fede.

Sono tutti temi su cui riflettere. Sono tutti temi che dovrebbero far tornare alla necessità di una fede nutrita con la ragione, che vada al di là del dibattito sterile. In fondo, Santa Sofia era stata desacralizzata, dacché era un luogo sacro. E quanti sono i luoghi sacri che vengono oggi desacralizzati senza colpo ferire?

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