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giovedì 9 aprile 2020

Dietrich Bonhoeffer, e il dibattito sull’Etsi Deus Non Daretur

Settantacinque anni fa, il 9 aprile 1945, il teologo protestante Dietrich Bonheffer veniva impiccato nel campo di concentramento di Flossemberg. Si era a pochi giorni dalla liberazione del campo e del suicidio di Hitler. La riflessione di Bonhoeffer è oggetto di continuo studio e di dibattito. È un pensiero innovativo, impegnato, forte. Che include anche una provocazione: quella di vivere “Etsi Deus non daretur”, “come se Dio non fosse dato”.

Una formula che fu in realtà coniata dal filosofo olandese Grozio nel XVI secolo, e che  poi ebbe una straordinaria popolarità quando Joseph Ratzinger la rovesciò: bisogna vivere “Etsi Deus daretur”, come se Dio fosse dato. All’idea di Bonhoeffer di vivere prescindendo dall’ipotesi di Dio, Benedetto XVI contrapponeva un punto di vista totalmente differente, ovvero quello di vivere prendendo proprio in considerazione quei valori assoluti che sono alla base di ogni religione.

Ma cosa voleva dire realmente Bonhoeffer con quell’espressione? La spiegazione si trova nella lettera del 30 aprile 1944 al suo amico Bethge.

Bonhoeffer parla di un mondo ormai diventato adulto, in cui le scienze, le filosofie, il diritto e la politica si sono sganciate dall’idea di Dio. Insomma, l’uomo basta a se stesso, e sembra cavarsela, e così Dio “viene sempre più respinto fuori dalla vita e perde terreno”.

A questa visione, il cristianesimo – nota Bonhoeffer – contrappone le “questioni ultime”, quelle cui non ci si può dare una spiegazione senza l’esistenza di Dio. Ma sono questioni, per Bonhoeffer, destinate a rimanere in sottofondo, che prima o poi potrebbero essere risolte dalla scienza.

Ed è in questo contesto che intervengono “gli epigoni secolarizzati della teologia cristiana, cioè i filosofi esistenzialisti e gli psicoterapeuti, e dimostrano all’uomo sicuro, soddisfatto, felice, che in realtà è infelice e disperato, solo che non vuole riconoscere di trovarsi in una situazione sventurata, di cui non sapeva nulla e da cui solo loro possono salvarlo”.

Il risultato è quello di un “Dio tappabuchi”, che sembra approfittare delle condizioni di insicurezza dell’uomo per insinuarsi nel mondo, e infatti – nota Bonhoeffer – “le persone religiose parlano di Dio quando la conoscenza umana è arrivata alla fine o quando le forze umane vengono a mancare”.

Ed è qui la sfida di Bonhoeffer. Quella di parlare di Dio “non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo”. Perché “la Chiesa non sta lì dove vengono meno le capacità umane, ai limiti, ma sta al centro del villaggio”.

Ed è da qui che viene l’idea che il cristianesimo si deve liberare dalla religione, perché questa è legata ai limiti umani, all’apologetica, che è proprio quello che Bonhoeffer vuole evitare.

La proposta è invece quella  di mettere al centro di Gesù Cristo, che ha assaporato la vita terrena fino in fondo. E questo è chiamato a fare il cristiano, a vivere fino in fondo, perché solo vivendo Gesù è morto e risorto, e solo  vivendo il  cristiano potrà aspirare alla Resurrezione. La “speranza della Resurrezione” va così oltre “i miti della Resurrezione”, perché pone l’uomo al centro della vita. E quindi Bonheffer propone un cristianesimo molto umano, calato nella terra e nell’uomo, totalizzante.

Una teologia profondamente incarnata, concreta, basata sul fatto che Gesù ha chiamato fuori gli uomini dai peccati e si è preso cura di emarginati, di poveri, di prostitute e pubblicane, e non ha nemmeno messo in questione salute e felicità.

Allora cosa distingue il cristiano dagli altri? Per Bonhoeffer, essere cristiano “non significa essere religioso in un determinato modo, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d’uomo, ma un uomo”.

Il futuro della Chiesa, per Bonhoeffer, è quello di una Chiesa che “esiste per gli altri”, arrivando a “donare ogni suo avere agli indigenti”, con i pastori che vivono “esclusivamente dei contributi volontari della comunità, eventualmente devono esercitare una professione laica”.

C’è, in queste parole, l’eco di molti dibattiti dell’oggi. Ma manca, in Bonhoeffer, la prospettiva cattolica. Manca il senso dell’istituzione “Chiesa”, e la necessità per la Chiesa di essere nel mondo in un certo modo. Resta il profilo individuale  dei pastori, l’impegno personale, la necessità di vivere dei contributi della comunità o del proprio lavoro. Ma questa dimensione “incarnata” della persona va, paradossalmente, a “disincarnare” l’istituzione.

Cosa c’è di più concreto, invece, di lavorare tra le istituzioni per formare una società più giusta? Cosa c’è di più concreto che essere nel mondo anche con un impegno istituzionale, e non solo individuale?

Nel pensiero di Bonhoeffer si trova quella necessità di liberarsi dalle sovrastrutture che è tipica di un certo misticismo. Meister Eckhart, già nel Medioevo, diceva provocatoriamente: “Prego Dio che mi liberi da Dio”. Ma allo stesso tempo si trovano i prodromi di una Chiesa che diventa ininfluente nel mondo proprio perché rinuncia a parlare come “corpo”, si disincarna e lascia tutto all’iniziativa individuale dei pastori.

Anche il cristianesimo senza religione porta in sé delle insidie. Scrivendo alla Pontificia Università Urbaniana in occasione dell’intitolazione dell'Aula Magna a lui, il Papa emerito Benedetto XVI definì come “inaccettabile” l’idea di un cristianesimo senza religione.

E argomentò: “Ai suoi inizi, la missione cristiana percepì in modo molto forte soprattutto gli elementi negativi delle religioni pagane nelle quali s’imbatté. Per questa ragione, l’annuncio cristiano fu in un primo momento estremamente critico della religione. Solo superando le loro tradizioni che in parte considerava pure demoniache, la fede poté sviluppare la sua forza rinnovatrice”.

Così, “sulla base di elementi di questo genere, il teologo evangelico Karl Barth mise in contrapposizione religione e fede, giudicando la prima in modo assolutamente negativo quale comportamento arbitrario dell’uomo che tenta, a partire da se stesso, di afferrare Dio. Dietrich Bonhoeffer ha ripreso questa impostazione pronunciandosi a favore di un cristianesimo ‘senza religione’. Si tratta senza dubbio di una visione unilaterale che non può essere accettata”.

Quello che proponeva Benedetto XVI era piuttosto una religione che, “per rimanere nel giusto, deve anche sempre essere critica della religione”.

E concludeva: “Per noi cristiani Gesù Cristo è il Logos di Dio, la luce che ci aiuta a distinguere tra la natura della religione e la sua distorsione”.

Da qui, l’idea di vivere “etsi deus daretur”, come se Dio ci fosse. Perché vivere come se Dio non ci fosse rende in fondo l’uomo “umano, troppo umano”. La vita nel pieno potenziale non sembra essere una vita destinata a cose più grandi, ma una vita che resta concreta.

È il dibattito di oggi. C’è una Chiesa che predica attività forte nella politica, nel sociale, arrivando ad impegnarsi fino in fondo. Ma è una Chiesa che rischia di diventare mera attività sociale. Di perdere, appunto, quella spinta che porta l’uomo a non essere solo un uomo, ma a cercare di andare oltre i propri limiti.

Quello che risulta dal pensiero di Bonhoeffer mi sembra paradossalmente essere un uomo solo. E per questo, un uomo più controllabile. Non sorprende che in molti ne abbiano ripreso il pensiero, scollegandolo poi in molti casi da quello che lo animava: una profonda fede in Dio, e una onestà intellettuale che lo portò ad impegnarsi senza compromessi fino alla morte.

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