Mi ero ripromesso di non parlarne, perché parlarne aumenta la pubblicità. Eppure ci sarebbero due o tre cose da dire su don Alberto Ravagnani, il prete social che più social non c’è, che ha deciso di usare il suo spazio per fare una pubblicità ad una marca di integratori.
Ravagnani la spiega così, e parafraso un po’: la Chiesa, spesso, ha fatto raccolta fondi, e anche lui in questo modo raccoglie fondi per le sue attività pastorali. Insomma, che sarà mai un po’ di pubblicità, non è peccato, e anzi aiuta la Chiesa nella sua missione. Che poi – e parafraso anche qui – lui parla ad una “Chiesa in uscita”, deve andare a parlare in un contesto secolarizzato, ed è per questo che usa i social, ed è per questo che cerca di parlare la lingua dei giovani, anche iper-semplificando. Anzi, necessariamente iper-semplificando, perché è così che si arriva ai giovani.
Ora, questo ragionamento porta con sé una serie di problematiche che non riguardano solo don Ravagnani. Riguardano il modo in cui la Chiesa è auto-percepita, in cui i sacerdoti percepiscono il loro lavoro e la loro missione, e il modo in cui i sacerdoti conoscono davvero la storia.
Parliamoci chiaro: il problema non è usare i social per diffondere il messaggio del Vangelo, e non è nemmeno il tipo di linguaggio che si usa, fintanto che questo è rispettoso con la tradizione e la dottrina della Chiesa. In fondo, ognuno predica come sa e come gli viene meglio, e non è forse il web un grande pulpito digitale.
Vero anche che spesso dal pulpito si rendono note delle iniziative pastorali, e si invitano le persone a partecipare ad una raccolta di fondi per sostenerle. E non c’è niente di male, perché la Chiesa è delle persone. D’altronde, le grandi cattedrali del Medioevo furono il frutto di una grande operazione di crowdfunding. Ad autotassarsi erano tra l’altro i poveri, ansiosi di avere qualcosa di davvero bello e sacro per le loro celebrazioni.
Lo spot, però, è qualcosa di diverso. È come se il prete dal pulpito dicesse: “Comprate lo swiffer di questa marca che ha reso così pulita la nostra chiesa”, e ci prendesse una percentuale per averlo detto. Non è un autofinanziamento. È un lavoro promozionale. È un qualcosa di diverso.
Ma don Ravagnani, nella sua difesa, non percepisce la differenza, e anzi riduce tutto a questioni pratiche e alla necessità di essere “Chiesa in uscita”. Ed è qui il problema.
La Chiesa è naturalmente in uscita, nel senso che il Vangelo si annuncia, e che la vita di un cristiano deve essere sempre trasparente e riflettere questa fede. Ma l’utilizzo dell’espressione “Chiesa in uscita” in senso para-sociologico ha creato vari problemi di percezione.
Per fare un esempio pratico: a me spesso è stato chiesto in che modo si potesse parlare perché i media comprendessero il linguaggio e soprattutto dessero spazio ad una notizia. Me lo hanno chiesto uomini di Chiesa, me lo hanno chiesto attivisti e professionisti. Per tutti, il punto è come parlare, è come cercare di diventare notiziabili.
Io però non credo che sia così. Lavorare per essere notiziabili, per allargare l’audience, per farsi capire porta necessariamente a snaturarsi. Perché l’obiettivo non è raccontare quello che si ha dentro, ma è piuttosto quello di allargare la base di consenso.
Cosa rispondo allora? Io rispondo che i professionisti devono fare i professionisti e parlare da professionisti, e che devono trovare non un ufficio stampa, ma dei comunicatori nei media che sappiano comprenderli e sappiano rendere al meglio quello che succede. Non è importante che il Papa parli in modo notiziabile. È importante che chi ascolta il Papa sappia tagliare il discorso nel modo corretto, mettendo in luce la notizia ma anche tutte le sfumature. Il comunicatore deve fare il comunicatore, il professionista fare il professionista. Se si confondo i piani, si confonde tutto.
Insomma, se il tema è solo tecnico, e riguarda solo la bravura nel creare contenuti, allora le cose non funzionano. Perché poi tutto diventa un qualcosa di pratico, e per quanto la vita sia pratica, si deve pragmaticamente sapere che se non c’è una idea di fondo e un modo di mostrarla, allora non si riesce a comunicare niente.
Ci si chiede, ultimamente, del perché del grande successo del movimento tradizionalista, anche in località che sembrerebbero lontane dal tradizionalismo, come la Francia. Questo successo ritengo che derivi dall’autenticità, dalla volontà di rimanere pervicacemente se stessi, e di chiedere a chi partecipa non una scelta semplice, ma una scelta cristiana, radicale.
Ci si chiede, ultimamente, del perché delle chiese vuote, e del calo di frequentazione dei giovani, e io ritengo che molto dipenda anche dal fatto che i giovani non hanno bisogno di chi scimmiotta il loro linguaggio, hanno bisogno di qualcosa a cui tendere.
Questo non toglie che il lavoro dei cosiddetti influencer di Dio ha molto di buono e di bello. Ma resta il problema dell’utilizzo dei codici. Il codice “social” porta a semplificare tutto, a perdere di vista il vero obiettivo. Alla fine, i tik tok non sono altro che video in cui qualcuno pontifica su quello che pensa o che vuole far vedere, e un po’ fa così anche don Ravagnani.
Ma si arriva così ai dibattiti superficiali, quasi adolescenziali, in cui viene detto che “è importante pregare, ma anche fare le opere” in un modo così apodittico che sembra quasi che pregare faccia schifo; in cui viene detto che “la Chiesa ha fatto molto e deve ancora fare, ma è sempre bella”; in cui, insomma, si dà spazio ai luoghi comuni positivi per riempire un vuoto di conoscenza della storia e della profondità della Chiesa stessa.
Colpisce che questo succeda anche con dei sacerdoti, che, alla fine, avrebbero dovuto studiare e comprendere tutto questo prima di mettersi sui social a dare i propri punti di vista, e sottolineando che si tratta di vera evangelizzazione.
Alla fine, l’evangelizzazione è un’altra cosa. E i social, per quanto possano diventare pervasivi, sono solo un mezzo, ma non il mezzo dell’evangelizzazione. Di certo, gli influencer di Dio non saranno salvati da una pubblicità, sebbene remunerativa. Si salveranno se riusciranno a vivere il Vangelo. Si salveranno se gli influencer non saranno influenzati dal mondo.
La popolarità dei sacerdoti è cosa molto bella. Ma quando la popolarità diventa anche commercio, allora si rischia di diventare come i mercanti del tempio.
Mi dispiace se queste parole sono piuttosto dure. Non hanno intenzione di attaccare nessuno personalmente. Quella che io vedo è una deriva della società in cui tutto diventa comunicazione, tutto diventa uscita, e quindi non conta più quello che si comunica ma aderire ai canoni della comunicazione. È un percorso pieno di rischi. È un percorso che si supera solo con la cultura.
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