Abbiamo ancora negli occhi Tor Vergata di nuovo piena di giovani, il buongiorno ai giovani di Papa Leone, e l’entusiasmo generale per quello che si chiamava “Giubileo dei giovani”, ma era in realtà una sorta di edizione allargata della Giornata Mondiale della Gioventù.
Ci si è lamentati che questo non sia andato molto nelle notizie, che si sia sottovalutato il fatto che almeno un milione di giovani fosse arrivato a Roma per un ideale, un qualcosa di più grande, un qualcosa di trascendente, in un mondo (quello occidentale) che il trascendente però non lo vuole vedere.
Ma io credo che tuttavia la più grande notizia trascurata non sia stata l’arrivo vociante, e in qualche modo atteso, dei giovani, quanto il fatto che non sia stata fatta abbastanza notizia del fatto che questo milione di giovani, di fronte al Santissimo, si è raccolto in un silenzio irreale.
L’adorazione eucaristica alla vigilia della giornata finale fu introdotta da Benedetto XVI. Io ero a Colonia, a Marienfeld, quando Benedetto prese in mano il Santissimo Sacramento, diede una benedizione silenziosa ai giovani e se ne andò senza disturbare il flusso della preghiera. Era un modo di rimettere Cristo al centro potentissimo, che lasciò quasi sbigottiti. Eppure, fu accolto. Eppure, fu amato, Eppure, è un qualcosa che è rimasto, e che è diventato parte delle tradizioni degli incontri della gioventù.
Viene allora da domandarsi se davvero questi incontri possano reggere la prova della storia. Se, insomma, la presenza dei giovani è dovuta alla loro fede o al carisma di una Chiesa che chiama. In realtà, ci si riempie molto la bocca di come parlare ai giovani. Evangelizzare, si dice, necessita di un nuovo linguaggio. I giovani devono essere attratti da qualcosa nel quale si riconoscano. Non viviamo più in un mondo cristiano, dove tutto è scontato.
Oggi, questi discorsi vanno per la maggiore anche quando si parla di evangelizzare lo spazio digitale, e in particolare quando si parla dei problemi dell’intelligenza artificiale. Non è un caso che, per la prima volta, il Giubileo dei giovani sia stato preceduto da un giubileo degli influencer e degli evangelizzatori digitali.
Anche qui, il tema resta quello del linguaggio. Ci si esalta per l’influencer cattolico che fa 25 milioni di follower, il prete social che usa un linguaggio fresco e attira i giovani, e così via. E non c’è niente di nuovo sotto il sole. Quando non c’era internet, si parlava moltissimo, ad esempio, dei preti DJ.
Il problema, però, è che non tutto può essere ammantato di giovanilismo. Che un linguaggio accattivante può attrarre, ma non basta per evangelizzare. Non basta per raccontare la Verità. Non basta per andare a fondo su questioni che rischiano di essere banalizzate.
Ne ho parlato in un podcast su Il Messaggero (qui se volete sentire la puntata: https://www.ilmessaggero.it/podcast/decoder/decoder_vaticano_influencer_messaggeri_di_dio-8990839.html) e mentre parlavo ho pensato a molte cose, che cerco di riassumere qui.
1. Il Vangelo è sempre il miglior linguaggio. I giovani vengono attratti da scelte radicali, e il Vangelo è un qualcosa di radicale, puro, trasparente, vero. Il Vangelo è storia e Storia allo stesso tempo. Quando si va al cuore del Vangelo, la comunicazione non può fallire. Può non portare risultati, ma raggiunge il suo obietivo primario, che è quello, appunto, di spiegarsi e rendersi viva.
2. Se il Vangelo è cuore, l’Eucarestia è qualcosa di concreto cui fare riferimento. E infatti anche il fenomeno dei battesimi adulti in Francia e della crescita del mondo tradizionalista nel Paese si concentra su questa ricerca di spiritualità concreta che si trova solo nell’adorazione e nell’incontro con Cristo. Chiediamoci perché il momento dell’adorazione è diventato uno dei più attesi delle GMG.
3. La vera grande sfida oggi non è trovare il linguaggio giusto. C’è un linguaggio per ciascuno, non un linguaggio giusto, e ci sono vari carismi di comunicazione. Se si pensasse al linguaggio, Padre Pio o il Curato di Ars non avrebbero avuto chances. Invece, tutti li ricordiamo. La vera sfida è oggi creare una cultura cattolica, in un mondo che non è più cristiano, e nemmeno post-cristiano. Si tratta di ricristianizzare il linguaggio, per comprenderlo meglio. Si tratta di tornare ai veri significati, anche se farlo significa essere anacronistici.
4. La vera grande sfida, dunque, è oggi la conoscenza. Si parla molto dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi. Ma il grande punto è proprio riempire di informazioni corrette il web, in modo che le chat bots possano pescare da informazioni corrette e dare risposte corrette.
5. L’Evangelizzatore digitale non è, dunque, solo il tik toker che ti commenta il Vangelo. È anche il Carlo Acutis che fa un sito sui miracoli eucaristici, per fare un esempio noto. Anzi, è soprattutto il Carlo Acutis che fa questo. Evangelizzare non significa più solo raccontare. Significa dominare l’informazione.
6. Siamo pronti a questa sfida? Probabilmente no. C’è ancora molta strada da fare, e soprattutto si tratta di liberarsi dal dibattito sterile sul linguaggio giusto per raggiungere tutti (non si troverà mai) ed entrare in un’evangelizzazione pragmatica, concreta eppure aleatoria quanto lo è un algoritmo, un codice binario, una chat bot.
7. Il tema di domani sarà come traghettare i giovani in un mondo non cristiano mantenendo la fede cristiana. E, soprattutto, come traghettare il cristianesimo nel mondo dell’informazione e dei bit.
Insomma, si deve evangelizzare l’intelligenza, prima di evangelizzare l’intelligenza artificiale. Per come la vedo io, nel mondo digitale, non ci vuole semplificazione. Ci vuole più cultura. Ci vuole più complessità.
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