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domenica 2 aprile 2023

Giovanni Paolo II, e una idea di vaticanismo che compie 18 anni

Non avevo mai pensato di scrivere di Vaticano, prima di quell’ultima settimana di Giovanni Paolo II. E non pensavo che quella possibilità sarebbe diventata la mia professione. Eppure, a diciotto anni dalla morte di colui che per anni è stato “il mio Papa”, perché eletto prima che fossi nato, vale forse la pena riavvolgere il nastro della memoria, per comprendere come sono arrivato a fare quello che faccio adesso.

Il 2 aprile 2005, il giorno in cui Giovanni Paolo II muore è il giorno in cui scrivo, per La Sicilia, il mio primo articolo che parla di Vaticano. Ero andato a Santo Spirito in Sassia, a vedere come si preparavano i fedeli alla festa della Divina Misericordia, che era poi anche una preparazione alla morte di Giovanni Paolo II. Qualcuno dice che sia già andato, qualcuno pensa che non vada ancora, c’è molta commozione. Ma Giovanni Paolo II muore quella sera, e così il pezzo viene aggiornato con due righe in fondo.

 

Io ero arrivato a scrivere quel pezzo perché avevo chiesto, magari, di cominciare a raccontare qualcosa di quello che vedevo. Studiavo alla LUMSA, che è in un angolo di via della Conciliazione, erano giorni che vedevo pellegrini arrivare, e anche io, appena potevo, andavo in piazza, per testare la situazione. E poi leggevo i giornali, ascoltavo i giornalisti, passavo su e giù dalla Sala Stampa della Santa Sede, cui non ero accreditato, parlando un po’ con il corrispondente del Times, Richard Owen, che ora è in pensione e che mi aveva un po’ preso sotto la sua ala. Non mi spiegava il Vaticano, mi spiegava come fare il corrispondente, mi faceva capire come lavorare ai contatti.

 

Scrivevo per la redazione romana, facevamo soprattutto politica, e io mi occupavo da un po’ di quelli che sarebbero diventati i miei temi. Da Catania, mi coordinava Giuseppe Di Fazio, che mi lasciava molta libertà, mi chiedeva idee, mi faceva scrivere di tutto. A Roma, c’era Gino Corigliano (ne ho parlato qui) che era per me un maestro, ma anche un nonno, e che aveva deciso di darmi una occasione e una occasione grande. Mi volevano bene. Io avevo 23 anni, facevo il giornalista da tre, e non capivo assolutamente nulla del mondo. Ma, allora come oggi, mi facevo guidare, quando vedevo che non comprendevo. Se c’era qualcuno che vedeva qualcosa in me, cercavo di vederla anche io.

 

Dopo il primo articolo, c’era da seguire anche i funerali, e ovviamente io non rientravo tra quanti avrebbero scritto analisi, cronache, commenti. Ma ebbi il mio spazio, quello piccolo della gavetta, quello in cui ti viene permesso di raccontare le persone e cominciare ad avere una idea sul mondo. Mi piaceva, mi veniva facile. Dissi, un po’ casualmente, che me ne sarei voluto occupare.

 

Corigliano ascoltò, e poi mi chiamò a fianco a lui, per una delle chiacchierate che aveva con tutti noi nella redazione romana. E mi disse: “Tu vuoi scrivere di Vaticano, e fai bene, perché è una religione che viene messa ai margini, e quando le cose sono messe ai margini, hanno bisogno di lottare e hanno tante cose da dire”.

 

Non sapevo quanto era azzeccata quella previsione, anche perché, di fatto, sembrava che non si facesse altro che di parlare di cattolicesimo, i giornali non facevano altro che mettere in luce l’influenza della Chiesa in politica, e la morte di Giovanni Paolo II aveva rimesso la Chiesa al centro della scena mondiale.

 

Eppure, mi fidai. Come faccio per ogni cosa, cominciai ad informarmi. Ricordo che arrivai a Termini e vidi in bella vista la riedizione de L’altro Wojttyla, di Giancarlo Zizola. Lo comprai, lo lessi avidamente, lo portavo con me ovunque. E cominciai così la parabola strana che fanno tutti i giovani.

 

Fui appassionato di anti-Chiesa e anti-istituzionalità, contestatore per pregiudizio di Ratzinger, e pronto a puntare il dito contro gli scandali nella Chiesa. Poi, cominciai a conoscere le persone, a leggere, ad approfondire. Volli cercare di conoscere più vaticanisti possibile, e presi un caffè con molti di loro. Alcuni cercarono di scoraggiarmi, mi dissero che ci sarebbero voluti anni perché avessi una notizia mia. Era vero, ma non era cosa che mi avrebbe fatto desistere.

 

Altri mi fecero vedere più facce della medaglia, mi aprirono generosamente le porte dei loro ricordi. Mi mandarono ad intervistare Arcangelo Paglialunga, storico vaticanista e amico di Ratzinger, quando Benedetto XVI fu nominato. E lui mi cominciò a raccontare un altro aspetto di Joseph Ratzinger, ne mise in luce il tratto umano, mi diede altre chiavi di lettura.

 

Corigliano mi mandò da Benny Lai, il decano dei vaticanisti e suo amico di una vita, e Benny mi introdusse in sala stampa (qui tutte le volte che ho parlato di Benny Lai sul mio blog: https://vaticanreporting.blogspot.com/search?q=%22benny+lai%22) e mi insegnò un’altra prospettiva, un altro modo di vedere le cose: quello del disincanto.

 

Poi conobbi la passione di Gianfranco Svidercoschi, che pure nella sua focosità rimaneva equilibrato, preciso, e mi diede nuovi punti di vista su Giovanni Paolo II, che avevo cominciato invece a vedere con l’occhio critico di chi legge soprattutto certa stampa di opposizione.

 

La verità è che, alla fine, parlando con tutti mi trovavo di fronte alla scelta di scegliere una sfumatura o comprenderle tutte. Diventava una scelta di linguaggio. Alla fine, Internet mi ha permesso di prediligere i dossier ai pezzi semplici, le grandi spiegazioni agli articoli brevi. Ma, anche quando scrivevo per i giornali, lavorare a puntate era la cosa che amavo di più, e La Sicilia era un grande laboratorio, che mi permise di scrivere una inchiesta in otto parti sui cattolici in politica, una in 12 parti sulla Sindrome di Down e il modo  in cui veniva trattata, una in quattro parti sul pensiero complesso.

 

Questo grande clima di libertà mi permetteva di formarmi, e di formarmi bene. Il modo di fare vaticano è stata una conseguenza. La scelta di farlo prendendo la prospettiva del giornalismo cattolico una questione di onestà. Per essere veramente in mezzo, infatti, non si può prescindere dal dire quale è il proprio punto di partenza, cosa si pensa realmente. Ma l’affermare chi si è non alimenta i pregiudizi. Li toglie, perché permette di accettare i propri limiti.

 

Insomma, il vaticanismo ha bussato alla mia porta in maniera strana, quasi irruenta, ma decisamente casuale, e mi ha portato anche ad avere una visione diversa del mondo, più disincantata, a volte necessariamente cinica, ma più mia.

 

E di questo devo ringraziare Giovanni Paolo II. Io lo andavo a vedere ogni volta che potevo, e quello che mi colpiva era il modo in cui sapeva stare tra la gente, anche nella malattia. Ricordo, in particolare, le mani. E poi vedevo i giovani che erano venuti a salutarlo mentre stava per tornare al Signore. E ricordo i colleghi, che lo raccontavano con distacco, ma anche con il pensiero di dover fare una storia.

 

Ecco, io credevo che la storia ci fosse, ma fosse diversa, e che non aveva bisogno per forza di un titolo. Io volevo scrivere quello che vedevo, e lo volevo fare senza ipocrisia, senza accattivarmi la simpatia del lettore, ma piuttosto cercando di comprendere e raccontare il momento per quello che era. Ed era, prima di tutto, un grande e strano momento di fede.

 

Così, la morte di Giovanni Paolo II alla fine rappresentò per me la possibilità di aprirmi ad un mondo nuovo, diverso, che mi ha permesso di guardare il mondo da un’altra prospettiva.

 

Sono ancora in cammino, ci sono tante cose che devo comprendere ancora, ma posso dire che quella sera ha dato un indirizzo preciso a tutto quello che sarebbe stato dopo. E oggi, dopo anni, ho persino riscoperto Giovanni Paolo II, ne ho rivisto il magistero europeo, e sto imparando a raccontarlo (ma di questo ci saranno altre novità). Ogni storia, in fondo, non è mai finita, ma infinita. Funziona per i racconti, funziona per la realtà, dove sono i dettagli che fanno la differenza. Ma ogni dettaglio cambia il quadro, e allora la capacità sta nel guardare a distanza, avendo l’idea della grande immagine, e non del puntino fuori posto.

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