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domenica 8 gennaio 2023

Domani il discorso del Papa ai diplomatici. Ecco come lo vorrei

Come ogni anno, salvo qualche eccezione, il primo lunedì dopo l’Epifania il Papa tiene il consueto discorso di inizio anno al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Il discorso rappresenta anche una bussola dell’attività diplomatica della Santa Sede nel mondo, nonché una indicazione chiara di quali siano le priorità del Papa per l’anno che viene. Dopo aver seguito costantemente e sistematicamente la diplomazia pontificia per ormai dieci anni, ho deciso di fare un gioco, e scrivere io stesso il discorso che vorrei sentire dal Papa. Solo un gioco, per raccontare anche un po’ del lavoro che ho fatto in questi anni. Alcuni toni non sono propriamente diplomatici. Ma è questo il bello dei giochi.

Signori ambasciatori,

 

Sono lieto di potervi incontrare anche quest’anno, e ringrazio il Signor Decano per le sue parole di introduzione.

 

Lungi dall’essere un appuntamento formale, questo incontro di inizio anno tra il Papa e il Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede rappresenta per me l’occasione di aver un confronto diretto con ciascuno di voi. Il vostro lavoro è cruciale per la Santa Sede e per le vostre nazioni. I nostri non sono solo rapporti bilaterali.

 

Dato che la Santa Sede non ha interessi economici o politici, ma solo il supremo interesse delle anime, i nostri confronti non coinvolgono solo due Stati, ma mettono in causa i popoli. Abbiamo, noi come Santa Sede e voi come ambasciatori accreditati qui, una responsabilità grande agli occhi del mondo. Questo è importante anche quando, nei nostri colloqui, affrontiamo legittime rivendicazioni nazionali. Da qui, dall’Urbe, si lancia un messaggio a tutto il mondo. E vorrei dire che il mio messaggio urbi et orbi vorrei fosse interpretato come il nostro messaggio urbi et orbi. Solo lavorando insieme potremmo davvero lavorare per il bene comune.

 

La missione della Chiesa

 

L’anno che è appena passato ha portato con sé diverse sfide. Abbiamo sotto gli occhi la guerra in Ucraina, scoppiata con l’aggressione russa il 24 febbraio 2022, ed è una guerra che colpisce, perché si combatte nel cuore dell’Europa. Questa guerra ha portato con sé diversi squilibri economici, politici, internazionali non solo sul continente europeo, ma su scala globale. I miei continui appelli per la cessazione delle ostilità testimoniano come la Santa Sede segua con attenzione la situazione.

 

Ma gli effetti della guerra in Ucraina sono effetti di tutte le guerre. Come ho avuto modo di sottolineare più volte, “tutto è connesso”. La Santa Sede non può non guardare con preoccupazione, allora, a tutti gli altri conflitti nel mondo. Dalla guerra in Siria a quella nello Yemen, dalla difficile situazione dell’amato Libano a quella del Myamar, dalle tensioni nel Corno d’Africa a quelle dell’Africa sub-sahariana, fino ad arrivare alla difficile situazione dell’America Latina.

 

Quello che però voglio fare qui non è una semplice disanima geopolitica. La rete diplomatica della Santa Sede è sempre attiva in ogni fronte, scambia informazioni, si avvale del contributo straordinario dei missionari. In ogni nazione, poi, la Chiesa Cattolica costruisce opere di misericordia, che contribuiscono al bene comune della nazione.

 

I numeri, che vengono dalle tabelle pubblicate in occasione della Giornata Missionaria Mondiale, sono eloquenti:  la Chiesa Cattolica gestisce nel mondo 72.785 scuole materne frequentate da 7.510.632 alunni; 99.668 scuole primarie per 34.614.488 alunni; 49.437 istituti secondari per 19.252.704 alunni. Inoltre segue 2.403.787 alunni delle scuole superiori e 3.771.946 studenti universitari.

E ancora, nel campo della sanità, la Chiesa gestisce: 5.322 ospedali, 14.415 dispensari, 534 lebbrosari, 15.204 case per anziani, malati cronici ed handicappati, 9.230 orfanotrofi, 10.441 giardini d’infanzia, 10.362 consultori matrimoniali, 3.137 centri di educazione o rieducazione sociale e 34.291 istituzioni di altro tipo.

La Chiesa Cattolica è presente, viva e in missione, e con le sue strutture e opere vuole aiutare tutte le nazioni a creare strutture di bene comune. L’obiettivo deve essere il “vivere insieme, con e per gli altri, all’interno di istituzioni giuste” (Paul Ricoeur).

 

Proprio su questo si vuole articolare la mia riflessione quest’anno.

 

Le istituzioni giuste

 

Le notizie che abbiamo dai media riguardano spesso le conseguenze di un male più grande. Le grandi ondate migratorie, derivate da povertà, guerre, anche effetti del cambiamento climatico, sono conseguenza di istituzioni formate su “strutture di peccato” e da nazioni costruite su queste strutture di peccato. La cultura dello scarto è una conseguenza di un male più grande, che è un male che riguarda la cultura stessa di quanti sono chiamati a guidare le sorti della nazione.

 

Il nostro mondo vuole dare soluzioni pratiche, materialiste e concrete, e gli incontri dei politici sono incentrati sul cercare soluzioni ed equilibri, così come le analisi degli economisti. Il rischio, però, è di dare alla competenza tecnica una predominanza sull’aspetto umano. E il pericolo della tecnocrazia, denunciato da Benedetto XVI nella Caritas in Veritate, che abbiamo visto in azione in maniera sempre più forte in occasione dello scoppio della pandemia del COVID 19.

 

Il messaggio che ho inviato per la Giornata Mondiale per la Pace di quest’anno, intitolato “Nessuno si salva da solo”, è dedicato proprio a trovare una via di uscita dalla pandemia. Ma, oserei dire, abbiamo bisogno anche di fare un passo in più. Non dobbiamo solo renderci conto che non possiamo salvarci da soli, dobbiamo comprendere in che modo possiamo salvarci.

 

La Chiesa Cattolica da sempre ha cercato la risposta alle domande profonde dell’essere umano. Crediamo in un Dio salvatore, che si presenta nella storia come vero uomo, che permette a tutti di essere chiamati “fratelli” perché tutti figli dello stesso Padre, e che per questo considera ogni essere umano con una dignità inerente. Essere umano, senza distinzioni tra uomini e donne, tra bianchi o neri, tra religiosi o non religiosi, e nemmeno distinzioni per preferenze sessuali.

 

Noi crediamo che non ci possano essere istituzioni giuste senza che queste partano dalla dignità inerente dell’essere umano, e che questa dignità inerente sia data proprio dalla comune appartenenza a Dio. Non si tratta, banalmente, di non lasciare nessuno indietro, o del dovere di proteggere. Si tratta di una fratellanza vera, che si fonda però su un dato concreto.

 

La venuta di Cristo sulla terra, che abbiamo appena celebrato con il Natale, è fonte anche della nostra dottrina sociale.

 

Tutto l’impegno dei cristiani nella costruzione del mondo secondo il piano di Dio per la salvezza dell’uomo trova motivazione teologica e sostegno di grazia proprio nel sacramento eucaristico e da tutti i sacramenti.

 

Per questo, ad esempio, la Chiesa sostiene il matrimonio come sacramento, perché senza matrimonio non abbiamo né famiglia, né società, ma un insieme di relazioni individuali variamente intrecciate e prive di un ordine. Come cattolici, poi, crediamo nell’importanza del sacramento, perché solo il sacramento può creare lo stato di grazia.

 

La Chiesa, insomma, cerca di rispondere alla domanda sull’uomo. Formare istituzioni giuste significa formare coloro che potranno creare queste istituzioni giuste, educarli alla scuola del bene comune, mostrare loro come questo riconoscimento della dignità inerente dell’essere umano, vissuta da un punto di vista metafisico prima che concreto, sia davvero un aiuto per costruire un mondo migliore.

 

Tutto questo va al di là delle molte e pur lodevoli iniziative di solidarietà o di pace, semplicemente perché ha un linguaggio diverso. È un linguaggio che va oltre la politica, oltre le contingenze, e punta piuttosto a dare a tutti gli esseri umani la possibilità di vivere secondo la loro piena dignità.

 

Un nuovo concetto di realismo

 

Per questo, quando parliamo della necessità di riformare le istituzioni del mondo, non parliamo in termini tecnici e concreti. Quelli verranno, e saranno necessari. Ma il nostro approccio è ancora diverso.

 

Nel 2008, nella meditazione di apertura del Sinodo dei vescovi, Benedetto XVI notò che “sulla sabbia costruisce chi costruisce solo sulle cose visibili e tangibili, sul successo, sulla carriera, sui soldi. Apparentemente queste sono le vere realtà. Ma tutto questo un giorno passerà. Lo vediamo adesso nel crollo delle grandi banche: questi soldi scompaiono, sono niente. E così tutte queste cose, che sembrano la vera realtà sulla quale contare, sono realtà di secondo ordine”.

 

Benedetto XVI notava poi che “solo la Parola di Dio è fondamento di tutta la realtà, è stabile come il cielo e più che il cielo, è la realtà. Quindi dobbiamo cambiare il nostro concetto di realismo. Realista è chi riconosce nella Parola di Dio, in questa realtà apparentemente così debole, il fondamento di tutto. Realista è chi costruisce la sua vita su questo fondamento che rimane in permanenza”.

 

Alla realpolitik, pur necessaria in diversi ambiti – perché la vita è fatta di mediazioni – contrapponiamo dunque questo nuovo concetto di realismo cristiano. A partire dalla parola di Dio, possiamo davvero trovare una via concreta per creare un mondo nuovo, fatto di istituzioni giusti. Lo possiamo fare anche se non siamo credenti, partendo dal presupposto che l’idea di Dio, lungi dall’essere stata a detrimento della società, ha invece contribuito a costruire le civiltà.

 

Lo dobbiamo ricordare oggi, in momenti in cui la cancel culture sembra voler cancellare ciò che c’è stato per creare una nuova storia. Si tratta, ancora, della volontà di costruire le istituzioni sulla sabbia, a partire  da narrazioni e non dalla verità dell’uomo, a partire da “storie” e non dalla Storia.

 

Già il mio venerato predecessore Pio IX sottolineava che la storia sembrava essere diventata “un complotto contro la verità”. È necessario, invece, che rileggiamo la storia senza pregiudizi, scevri da ideologie, cercando di trovare il buono che c’è stato senza cancellare il brutto che ci ha permesso comunque di comprendere i nostri errori e di andare avanti.

 

In tutto questo, è necessario riconoscere lo straordinario ruolo che ha avuto il cristianesimo nella storia dell’uomo. Lo dico perché il mancato riconoscimento del suo contributo nella storia ha portato, allo stesso modo, ad una delegittimazione di tutte le fedi, facendo della religione un dato politico e manipolabile.

 

Con questo discorso, mi appello alle nunziature di tutto il mondo: fate cultura, raccogliete i documenti della storia della Chiesa e del contributo che i cristiani hanno dato alla società, aiutate a diffonderli e a conoscerli.

 

E mi appello anche a voi, signori ambasciatori, affinché siate portatori verso i vostri Stati di un sentimento non pregiudiziale nei confronti della Chiesa cattolica. La Chiesa non chiede altro che poter contribuire al bene comune, e in ultima istanza al bene dell’uomo. Ascoltare senza pregiudizi è il primo passo per raggiungere questi obiettivi.

 

La neo lingua

 

Oggi è quanto mai necessario costruire istituzioni di pace e di perseguire obiettivi comuni.

 

Nel messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2012, Benedetto XVI sottolinea che un rinnovamento dell'annuncio di Cristo è il primo e fondamentale fattore di pace; e afferma che un nuovo impegno e una nuova etica possono nascere soprattutto dall'incontro delle persone con Dio. E a causa di quell'incontro, la gerarchia dei criteri che governano il mondo di oggi può essere capovolta. A causa di quell'incontro, lì il potere e il profitto non prevalgono più su tutto il resto, e si correggono scopi e mezzi. Solo in Cristo gli operatori di pace possono affrontare le sfide che li attendono.

 

Venti anni fa, Giovanni Paolo II pubblicava l’esortazione post-sinodale Ecclesia In Europa, in cui veniva sottolineato che “Cristo è speranza dell’Europa”. A venti anni da quell’esortazione, possiamo sottolineare che Cristo è la speranza del mondo.

 

Lo diciamo in un momento in cui non solo il messaggio cristiano, ma quello religioso sembra essere messo da parte, nelle pieghe di un linguaggio politico. Delle religioni si fa uso, ma le religioni non sono soggetti nella società.

 

Il mio appello a tutte le religioni è di sviluppare un pensiero che vada al di là delle contingenze degli Stati. Ho più volte sottolineato che non si può fare la guerra in nome di Dio. Aggiungo che ci sono anche guerre subdole che vengono combattute in nome di Dio, ideologie sostenute per convenienza o per paura, compromessi con poteri politici che non possono certamente aiutare alla costruzione di un mondo di pace.

 

Comprendendo le contingenze particolari e la necessità per tutti di difendere i fedeli, vogliamo qui dire a tutti i nostri partner nel dialogo, sia esso ecumenico che interreligioso, che la Chiesa Cattolica è al vostro fianco e vi sostiene nel tentativo di scrollarvi di dosso i legami secolari e alla ricerca di un modo di vivere la fede nel mondo, ma senza essere del mondo. La vostra sfida è la nostra sfida. Fintanto che questa sfida rispetterà l’essere umano nella sua inalienabile dignità, noi saremo al vostro fianco.

 

Ma vorrei anche mettere in luce come il cristianesimo sia diventato una delle religioni più perseguitate al mondo, se non “LA” religione più perseguitata al mondo. Non c’è solo la persecuzione manifesta, che avviene ed è documentata. C’è anche una persecuzione subdola, che si insinua nelle istituzioni e che, di fatto, impedisce di professare liberamente la propria fede, e persino le proprie opinioni.

 

A questo proposito, non posso non essere preoccupato dalla risoluzione sulla persecuzione delle minoranze sulla base del credo e della religione votata lo scorso 3 maggio al Parlamento Europeo

 

Al punto 22, si legge che il Parlamento “esprime profonda preoccupazione riguardo il cattivo uso e la strumentalizzazione del credo e della religione di imporre politiche discriminatorie, leggi o restrizioni che contraddicono o minano i diritti delle persone LGBTIQ, e restringano l’accesso a servizi base, come l’educazione e la salute, inclusi i diritti sessuali riproduttivi, la criminalizzazione dell’aborto in tutti i casi, la criminalizzazione dell’aborto”.

 

In questo modo, è come se venisse stabilita una nuova “religione dei diritti umani”, che non può essere contestata, e soprattutto non può essere contestata a partire da un discorso religioso.

 

Ma questa risoluzione non viene dal nulla. Le istituzioni mondiali hanno prima “cambiato il vocabolario”, cambiando di fatto il modo di pensare. La “neo lingua” secolare si è impossessata del mondo, a partire con la rivoluzione sessuale del 1968 e imponendosi dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. La fine del mondo bipolare ha, infatti, fatto sì che le istituzioni internazionali si sentissero come investite della missione di promuovere priorità pratiche per portare a un mondo più giusto e più libero.

 

Le parole chiave di questo nuovo vocabolario sono: globalizzazione umana, sviluppo sostenibile, buon governo, etica del mondo, diversità culturale, dialogo tra le civiltà, qualità della vita, genere, parità opportunità, omofobia, orientamento sessuale, aborto sicuro, diritti delle generazioni future, organizzazione non governativa, partnership, società civile, democrazia partecipativa, reti transnazionali, costruzione del consenso, approccio inclusivo, agente-attore della trasformazione sociale, buone pratiche, diritti sessuali e riproduttivi , diritto di scelta, commercio uguale, diverse forme di famiglia.

 

Tutte parole “neutre”, che rendono anche il mistero della vita e della nascita un qualcosa di burocratico, estraneo all’essere umano. Questo nuovo vocabolario forma monadi, e rompe le comunità. La Chiesa, invece, è comunità di credenti. E questa comunità è impossibile da controllare con le logiche del mondo. È libera, perché nasce nella libertà dei figli di Dio.

 

Costruire la pace

 

Parlo di tutto questo partendo dall’idea di una Chiesa missionaria, come ho detto sin dall’inizio del mio pontificato. Proprio questa missione mi impone di annunciare il Vangelo, certo di non essere solo “un prestatore di speranza”, come possono essere le istituzioni del mondo”, ma piuttosto di essere un “portatore di speranza”, perché nutrito nella certezza della resurrezione.

 

Per questo, ci tengo a sottolineare che la pace può avvenire solo nel rapporto con Dio, nel comprendere perché esiste fraternità tra gli uomini, impegnandoci nel perseguimento del bene comune. Non c'è pace se regna il relativismo. Ci può essere pace solo con la comunione. La comunione conduce al superamento delle disuguaglianze e orienta l'agenda dello sviluppo umano integrale.

 

Dobbiamo affrontare le crisi che abbiamo nel mondo a partire da questa consapevolezza. La crisi alimentare va affrontata in spirito di solidarietà, consentendo agli agricoltori di svolgere le loro attività in modo dignitoso e sostenibile, a partire dai più piccoli.

 

La crescita economica non può essere perseguita a scapito delle responsabilità sociali degli Stati e delle reti di solidarietà civile.

 

C’è bisogno di una nuova evangelizzazione sociale, partendo dal presupposto che i veri operatori di pace difendono e promuovono la vita umana in tutte le dimensioni.

 

Il sostegno della liberalizzazione dell’aborto valorizza in modo insufficiente la vita umana, così come il sostegno all’eutanasia. Dobbiamo creare operatori di pace che sappiano che la vita è sempre degna di essere vissuta, e che costruiscano le istituzioni a partire da questo dato.

 

Ci vuole una pedagogia degli operatori di pace, che è fatta anche di vita interiore, di riferimenti morali chiari e validi, di atteggiamenti e stili di vita adeguati.

 

La pace non è una utopia. È qualcosa di raggiungibile. Ma lo si può fare solo con una vera conversione dei cuori. Altrimenti nessuna mediazione, nessun accordo potrà mai essere davvero forte. Giovanni XXIII, nella Pacem In Terris sottolineava che la pace non è solo l’assenza di guerra. Lo stesso Papa, nella Mater Et Magistra, metteva in luce come andassero superati gli squilibri che erano presenti nel mondo.

 

Quelle analisi sono ancora incredibilmente attuali. Andrebbero riletti, oggi, e invito tutti a farlo, partendo dal presupposto di un altro mio predecessore, Paolo VI, che sottolineò nella Populorum Progressio: “Il mondo soffre per la mancanza di pensiero”.

 

In conclusione

 

Lo scorso anno è terminato con la morte del Papa emerito Benedetto XVI, il cui insegnamento resterà nella storia della Chiesa. Lo stesso Benedetto XVI, nell’ultimo libro di Peter Seewald “Una vita”, metteva in luce come la vera minaccia per il ministero petrino sta “nella dittatura mondiale delle ideologie apparentemente umanistiche, contraddicendo le quali si resta esclusi dal consenso sociale di fondo”.

 

Spiegava Benedetto XVI che “cento anni fa qualcuno avrebbe pensato che fosse assurdo parlare di matrimonio omosessuale. Oggi coloro che vi oppongono sono socialmente scomunicati. Lo stesso vale per l’aborto e la produzione di persone in laboratorio. La società moderna è in procinto di formulare un credo anticristiano e se uno si oppone è colpito dalla scomunica”.

 

Sono parole che mi hanno profondamente ispirato in questo discorso. So che vi aspettavate una disamina più puntuale della situazioni geopolitiche e dell’interesse dalla Santa Sede in alcune situazioni. Ma ho preferito spiegare perché noi siamo qui, con la nostra rete diplomatica. Siamo qui in ultima istanza per difendere l’essere umano e la sua dignità, per difendere la sua libertà religiosa e per aiutare a costruire istituzioni giuste che rispettino l’essere umano.

 

Siamo qui perché il messaggio di Cristo non può essere taciuto, se la Chiesa vuole smettere di essere autoreferenziale e andare nelle periferie. Siamo qui perché vogliamo creare una civiltà dell’amore. È quella la nostra vocazione. E spero che vi farete portatori di questo messaggio ai vostri Stati e che i vostri Stati daranno il loro sostegno.

 

Buon anno!

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