San Francesco di Sales aveva fatto dell’informazione il suo cavallo di battaglia. Non era ancora il tempo in cui (sono parole di Leone XIII) la storia era diventata un complotto contro la verità, ma questo non significa che non fosse già così. Di fronte ai venti della riforma che arrivavano a negare anche ai cattolici le chiese che avevano abitato, l’ultimo vescovo di Ginevra rispose con la catechesi diretta, su fogli distribuiti casa per casa, in cui in linguaggio semplice si spiegava la fede cristiana.
È per questa sua attività che San Francesco di Sales è patrono dei giornalisti. Ma la domanda che viene da farci, oggi, è cosa significa essere giornalisti.
San Francesco di Sales poteva essere credibile nel suo lavoro di formazione e informazione perché aveva una formazione teologica profonda, ma soprattutto una grande vita spirituale. Aveva la dimensione della profondità, la capacità di andare a fondo, come testimoniano le varie lettere ricordate da Papa Francesco nella lettera apostolica Totum Amoris Est. Perché il criterio ultimo, per San Francesco di Sales, era l’amore.
Quale è invece il criterio ultimo dell’informazione oggi?
Le recenti scelte editoriali lasciano pensare che il giornalismo si stia trasformando sempre più in attivismo. I media scelgono il loro campo e il loro pubblico di riferimento, lavorano all’interno della loro bolla, rispondono alle loro logiche. Non è più solo un decidere a chi dare voce, ma piuttosto l’essere portavoce di interessi di parte.
Non che l’informazione non sia mai stata megafono di qualcosa. Anzi, è sempre stata utilizzata per questo scopo. Le narrative non hanno solo fatto vincere le guerre, ma hanno ricreato la storia, la hanno riscritta ad uso e consumo dei vincitori, hanno manipolato la realtà con l’idea di dare un unico punto di vista, di dire alle persone cosa si dovesse pensare.
Eppure, era rimasta una idea romantica del giornalismo come servizio alla verità. Anzi, di fronte alle varie narrative, si era costituita una idea di giornalismo cattolico che dovesse proprio rispondere alla logica delle narrative, e riportare la verità al centro. Sarebbe facile dire che si tratta anche in quel caso della verità di una parte. Sarebbe più importante, invece, riuscire a distaccarsi, e a guardare la realtà fuori dalle lenti con cui siamo abituati a guardarla.
Se non può esistere un giornalismo davvero oggettivo, esiste infatti un sano distacco dalla realtà, che si concretizza anche nell’ascoltare – e dare voce – a tutti i punti di vista. Si diceva una volta che i fatti dovessero essere staccati dalle opinioni. È un esercizio praticamente impossibile. Ma leggere i fatti dicendo subito da quale angolatura li si legge, con onestà, è tuttavia possibile.
Nel tentativo di superare questa aporia, che è generalmente umana, i media hanno dovuto fare anche i conti con il mercato. Oggi ci riempiamo la bocca di dati come “pubblico di riferimento”, “Lettore medio” e così via, non consapevoli che alla fine la decisione di dare il livello della profondità è decisiva.
Se il padrone è il lettore, il giornalismo non può essere altro che marketing. Non può essere informazione, perché non ha la vocazione di informare. Da qui, nascono i grandi gruppi editoriali, i cui veri padroni sono spesso non identificabili, che decidono a priori quale sia la realtà di cui informare, e tutto il resto semplicemente non esiste. Da qui nasce l’idea che i direttori dell’informazione, o perlomeno quelli che coordinano tutta le rete informativa delle aziende, possano non essere giornalisti né editori, ma piuttosto lobbysti, esperti dell’advocacy, giuristi.
Il giornalismo diventa campagna, con battaglie ideologiche che coinvolgono i lettori nella loro pancia, ma che non rispondono alla richiesta di fare informazione, di creare lettori formati. Di conseguenza, il mondo si adegua. Se il giornalismo è percepito come un potere, anche gli attivisti devono diventare comunicatori e trovare il modo di attirare l’attenzione. Così, troviamo grandi reti di advocacy impegnate non tanto a fare il lavoro cui sono chiamate, ma a rendere noto quel lavoro, specie in casi di successo.
Come si risolvono queste grandi contraddizioni? Investendo sul capitale umano. Quando mi chiedono, dalle Ong o da altre grandi organizzazioni, come poter penetrare dei media, io dico sempre che non sono loro a dover semplificare, spiegare, comunicare, né il loro ufficio stampa. Loro devono trovare il giornalista, la persona, in grado di comprendere quella sfida per cui stanno combattendo e di spiegarla. Devono trovare chi prende le carte di un processo e le sa leggere senza pregiudizi e le sa rendere al lettore. Non è il lavoro che devono fare loro. Lo deve fare il giornalista.
Lo stesso vale per i media. Si deve investire sul capitale umano, per avere professionisti dell’informazione che sappiano essere, sì, veloci e precisi, ma anche profondi. Si deve accettare anche di stare un passo indietro, a volte, con l’obiettivo però di essere più onesti, giusti, precisi.
Per il giornalismo cattolico è una sfida ulteriore. Alla dimensione della profondità, devono aggiungere la dimensione della comprensione cristiana della realtà. Prevede formazione, discernimento, conoscenza. Prevede anche non avere un pregiudizio negativo nei confronti della storia della Chiesa, di saper leggere la realtà da punti di vista diversi dal mainstream.
È raro trovare giornalisti di questo tipo, e l’obiezione sarà sempre che poi il lettore non apprezzerà, che si deve stare nel mercato, che alla fine una impresa editoriale si deve reggere in piedi. Tutto vero. Eppure l’esperienza che io ho è che i lettori cercano anche punti di vista diverse. Che, se il lavoro è profondo e fatto bene, quel lavoro paga, perché le persone lo comprenderanno.
Si deve uscire dalla logica dei grandi numeri, dell’attivismo, del populismo informativo che porta i giornalisti a teatro, a fare spettacoli densi di loro opinioni ma senza analisi profonda, o crea il mostro informe dell’opinionista, ben remunerato per dire quello che pensa, che poi significa dire alle persone cosa devono pensare.
E invece la sfida è dare alle persone gli strumenti per comprendere, in-formare nel senso più puro del termine. Era quello che faceva San Francesco di Sales, ed è quello cui è chiamato il mondo dell’informazione cattolica. Ma cui è chiamato, direi, tutto il mondo dell’informazione.
Auguri, giornalisti!
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