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martedì 31 gennaio 2023

Benedetto XVI, un mese dopo

Sono passati 30 giorni dalla morte di Benedetto XVI, e il mondo sembra già essere allo stesso tempo uguale e diverso. Uguale, perché è un mondo che continua nel suo ritmo, perché è sempre così, perché non ci si ferma mai. E diverso, perché alla fine eravamo abituati alla presenza di Benedetto XVI lì, sul monte, con la sua preghiera di intercessione, con la sua presenza a rassicurarci che, no, la Chiesa non sarebbe crollata.

Trenta giorni dopo, però, viene anche da pensare che Benedetto XVI ha costruito questa sicurezza della presenza. Lo ha fatto giorno dopo giorno, con l’umiltà di chi nulla vuole ottenere e tutto vuole dare. Lo ha fatto mettendo sempre e comunque in prima fila Gesù Cristo. Lo ha fatto con la sola fede, quella fede che gli ha permesso di superare anche gli ostacoli insormontabili della timidezza. E lo ha fatto con il puro amore per l’altro, quell’amore che lo portava a cercare di stupire sempre i suoi studenti, perché finché prendevano appunti, raccontava, andava tutto bene, ma quando staccavano la penna dal foglio e guardavano erano davvero stupiti.

 

Cosa ha dato Benedetto XVI alla comunicazione religiosa? In che modo il suo pontificato e il suo pontificato emerito hanno dato forma ad un nuovo tipo di giornalismo religioso? Sono domande importanti, cui, per ora, si possono dare solo risposte parziali. Ecco le mie.

 

1.     Benedetto XVI ha cambiato il giornalismo religioso perché ha costretto i giornalisti ad andare al di là dei semplici discorsi. I suoi discorsi, le sue omelie, semplicemente aggiungevano una quarta dimensione, quella della profondità. Ma era una dimensione così connaturata con le altre tre, al punto c che sintetizzare quello che diceva era difficile, se non quasi impossibile. Perché, lo scrivo da sempre, Benedetto XVI scriveva i discorsi come si costruivano le cattedrali, e tutto era connesso e allo stesso tempo logico. Per questo, per essere in grado di fare una sintesi, si era costretti ad allargare lo sguardo.

2.     Allargare lo sguardo, però, non era per tutti. Benedetto XVI ha costretto i giornalisti a uscire dalla loro zona di conforto. Era più difficile per quanti non erano d’accordo con lui smontare i suoi ragionamenti, era ardo per quanti lo sostenevano non banalizzare i suoi ragionamenti. Per amore o per odio, ci si doveva elevare verso qualcosa di più grande, verso un altro ragionamento di insieme. Benedetto XVI era sincero, e dunque non era permessa l’ipocrisia. Anzi questa era facilmente smascherabile. Anche perché, in fondo, si nota subito se uno crede in quello che scrive.

3.     Con la sua autenticità, Benedetto XVI costringeva tutti ad essere autentici. Non è banale. L’autenticità di un pensiero, di una posizione, di una scelta nascono anche dalla ponderazione profonda, e da una decisione trasparente e lineare. Ma le decisioni spesso non sono trasparenti e linear, prendono strade scoscese e tortuose. Non sempre lo si vuole ammettere. Eppure, seguire Benedetto XVI costringeva ad ammetterlo.

4.     Costringeva ad ammetterlo perché Benedetto XVI non solo era autentico, ma non si curava dell’opinione pubblica. Il suo unico pensiero era per la Chiesa, e, con questo pensiero, era capace di mettere da parte se stesso, di farsi piccolo e umile e lasciare parlare Cristo, il Vangelo, la teologia. Nel suo essere sempre un passo indietro, era due passi avanti. Nel suo mettere la Chiesa al primo posto, è stato un rivoluzionario. Eppure veniva chiamato conservatore. Eppure veniva chiamato “pastore tedesco”. Ma era un animo così puro che era refrattario ad ogni etichetta. Una persona come Benedetto XVI era rara.

5.     Era rara perché Benedetto XVI era generalmente in buona fede. Non che fosse superficiale, ma in alcuni casi si stupiva che i suoi errori potessero in qualche modo essere manipolati, che ci fossero persone che potevano approfittare della sua vicinanza. Benedetto XVI amava le persone, checché se ne dica. Amava le persone perché amava Dio. Le due cose non potevano essere divise.

6.     In questo senso, si è avuto a che fare con un pontificato che era un gigantesco sforzo di catechesi, a partire dall’omelia di inizio pontificato, tutta incentrata sul significato del pallio e dei simboli del pontificato. La catechesi, però, porta un altro problema ai comunicatori. La catechesi parla con i simboli. I simboli vanno studiati e spiegati. Ancora, quella dimensione della profondità, così difficile oggi.

7.     Perché la profondità prevede studio e tempo, e – in una epoca così veloce, con media nuovi e velocissimi – impiegare studio e tempo significa avere amore per quello che si fa. Ecco, con Benedetto XVI si era costretti ad amare la Chiesa, o, perlomeno, ad amare raccontarla. Si doveva studiare perché il libro era la sua forma di comunicazione preferita, e il libro va letto nella sua interezza, contestualizzato, compreso. Si doveva sapere ascoltare perché, come c’è bisogno di orecchio musicale per comprendere davvero un brano, così c’è bisogno di orecchio culturale per comprendere Benedetto davvero. I ragionamenti che Benedetto XVI faceva sulla musica andrebbero, alla fine, riletti e applicati ai suoi studi e libri. Si rimarrebbe sorpresi dalle assonanze.

8.     Per ascoltare, si deve rallentare. Benedetto XVI chiedeva lentezza, chiedeva anche un “anticipo di simpatia” nel leggere quello che diceva, pensava, scriveva, perché voleva che tutto fosse aperto in un discorso non polemico, ma in un dibattito sano. Non c’era logica dello scontro, ma solo voglia di sapere. E questo rappresentava per i giornalisti una lezione e una frustrazione. Non c’erano scandali, non c’erano litigi, ma c’erano dibattiti.

9.     C’erano dibattiti anche perché Benedetto XVI non aveva mai voluto creare una scuola, ma aveva preferito invece che i suoi studenti lavorassero insieme. Il Ratzinger Schulerkreis si era creato spontaneamente intorno a lui, e il maestro di quel circolo non ha mai imposto idee ai suoi colleghi. Ratzinger è stato maestro di vita proprio perché maestro di vita non voleva essere. Sottraeva, invece di aggiungere. E, quando aggiungeva, lo faceva pregando e per pregare.

10.  In sintesi, l’informazione religiosa con Benedetto XVI è cambiata profondamente. Ha smesso le narrazioni da “fine del mondo” o “fine del pontificato” che avevano costellato la malattia di Giovanni Paolo II, ha cercato di delegittimare il Papa da più parti. Non c’è riuscita. Nel frattempo, cambiava il modo di leggere i discorsi, di interpretare le sue parole, di comprendere i suoi gesti. Benedetto XVI ha comunicato se stesso con autenticità, e questo ha mandato in crisi tutti gli schemi. A volte ha fatto errori di governo, ma ha sempre ammesso che quello non era il suo forte. E ha incredibilmente attirato persone, catechizzato, avuto amore. Un qualcosa di inspiegabile se visto con le logiche del tempo presente.

 

Alla fine, Benedetto XVI ha insegnato, con la sua vita, che i pregiudizi sono solo pregiudizi, e i giudizi sono sempre sbagliati se fatti con cattiveria. Ha costretto tutti a ricredersi, ha mostrato che ogni essere umano è tante cose, e che Benedetto XVI era moltissime cose, e nessuna etichettabile con i luoghi comuni.

 

Oggi, dopo Benedetto XVI, ci sono forse due categorie di giornalisti di informazione religiosa: quelli che si sono abbeverati al pensiero di Benedetto, e hanno compreso che niente nella Chiesa nasce per caso o dal niente; e quelli che sono andati oltre, e vorrebbero una Chiesa più umana, più presente nel dibattito pubblico, ma meno divina.

 

Eppure, come disse Joseph Ratzinger, non abbiamo bisogno di una Chiesa più umana, ma di una Chiesa più divina. Se il giornalismo cattolico imparerà un giorno a rovesciare davvero lo prospettive, e abbandonerà quell’approccio di tipo marketing che lo sembra oggi dominare, allora potrà davvero essere un giornalismo profetico. Benedetto XVI ha delineato la strada. Sta a noi percorrerla.

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