C’è un prima e un dopo l’11 febbraio 2013, anche per il giornalismo di informazione religiosa. E non è un prima e un dopo che riguarda la personalità dei Papi – più riflessivo Benedetto XVI, più gestuale Papa Francesco – ma proprio il modo di trattare il fenomeno religioso. Non è solo cambiato il mondo. È cambiato anche il modo in cui si percepisce la Chiesa.
Sono passati dieci anni dall’annuncio della rinuncia di Benedetto XVI. Tutti noi giornalisti ricordiamo cosa stessimo facendo in quel momento, in che modo rimanemmo sorpresi, chi ci diede la notizia. A me, personalmente, la notizia la diede Salvatore Mazza, un vaticanista che è scomparso da poco, e io nemmeno volevo crederci. Invece era vero.
Già quel giorno le cose cominciarono a cambiare. Cerchiamo di comprendere in che modo, a mio avviso, la rinuncia Benedetto XVI ha influito sull’informazione religiosa.
1. Otto anni di pontificato di Benedetto XVI avevano costretto tutti a cambiare impostazione. Benedetto XVI aveva discorsi ben costruiti, precisi, difficili da sintetizzare se non si entrava nella volontà di comprenderlo. Gli ultimi anni di Giovanni Paolo II prevedevano una narrazione semplice, strutturata su un messaggio, che era quello di un Papa sofferente che si caricava della sofferenza della Chiesa. Benedetto XVI invece voleva evangelizzare con la ragione. Era una via lunga, difficile da raccontare. Si doveva studiare di più. Si doveva entrare più a fondo negli argomenti.
2. La rinuncia ha creato però una crisi profonda. Nel corso di otto anni di Benedetto XVI, era rimasto comunque un pregiudizio nei confronti di quello che sarebbe poi diventato il Papa emerito. Era sempre il Papa della Messa in latino, o il Papa che aveva coperto gli abusi, o il Papa degli scandali. C’era sempre qualcosa pregiudiziale, che non permetteva di comprendere Benedetto XVI. Poi, la rinuncia cambiò completamene la prospettiva. Come raccontare come antico un Papa che aveva mostrato di essere più avanti di chiunque altro? Come giustificare l’errore nel leggere i segni che pure Benedetto XVI aveva dato?
3. Ecco allora che si era creata l’esigenza di andare oltre il pettegolezzo, perché un annuncio così dirompente non poteva non essere considerato. Incredibilmente, nel momento in cui Benedetto XVI stava lasciando, se ne cercava di recuperare il messaggio. Troppo poco, troppo tardi. Perché, alla fine, si trattava di un impegno improbo.
4. Così, quando il pontificato finì realmente, il 28 febbraio, la narrazione si spostò sull’idea del prossimo Papa, e su cosa avrebbe dovuto fare per rendere la Chiesa “più popolare”, in un “cambio narrativo” che sembrava necessario. Non contava più tutto ciò che era stato fatto, ma si ripartiva da zero. Un tabula rasa che avrebbe colpito la narrazione dei dieci anni successivi.
5. La tabula rasa, infatti, ha portato alla polarizzazione. La narrazione sulla “rivoluzione dell’immagine” della Chiesa si teneva solo demonizzando il passato, o comunque segnalando una rottura. Questo ha creato un doppio fenomeno: da una parte chi voleva cercare di raccontare una continuità, e non solo con il pontificato di Benedetto XVI ma con tutta la storia della Chiesa, e quanti invece volevano mantenere la posizione di mostrare che ci fosse qualcosa di nuovo e irripetibile. Spesso, questi ultimi erano cattolici, convinti che segnalare una rottura avrebbe permesso di rendere la Chiesa più attraente.
6. Ma la Chiesa è diventata davvero più attraente? Vittima delle narrazioni, orfana di un lavoro culturale a lungo termine, la Chiesa si è legata ai gesti di Papa Francesco e su quello ha costruito le sue storie, i suoi rapporti, le sue spiegazioni. Ma legarsi ai gesti prevede l’impossibilità di ragionare in maniera critica, perché il gesto conta più dei fatti, le storie contano più della storia.
7. Il pontificato di Benedetto XVI aveva segnato una strada di comunicazione in cui una parola doveva valere più di una immagine. Non a caso Benedetto XVI comunicava soprattutto attraverso i libri. Il nuovo modello di comunicazione prevede la presenza in diverse interviste tv e mainstream, la scrittura di prefazioni per vari libri, alcuni libri – intervista. Ma quanto resta il messaggio? Perché il messaggio deve avere un valore a lungo termine ed universale.
8. In questo passaggio dal lungo al breve termine che si misura quanto impatto abbia avuto la rinuncia di Benedetto XVI. Ha interrotto un percorso di consapevolezza nel giornalismo religioso, e ha fatto ripartire tutto da zero. Non per tutti, non sempre. C’entra, parzialmente, il fatto della diffusione dei nuovi media, che hanno costretto a lavorare più veloci. C’entra, ma fino ad un certo punto. Anche il giornalismo religioso ha accettato questo cambiamento, scegliendo la via breve.
9. Ovviamente, non è generico, non tutti hanno preso la via breve, e c’è molto lavoro di approfondimento. Però il problema è generale, perché riguarda la natura stessa dell’informazione religiosa. Forse è da riprendere un percorso che si è interrotto, quello di guardare oltre ai testi e cercare i contesti, e di farlo non in funzione di mantenere una narrativa che sostenga l’operato il Papa, ma piuttosto per guardare alla Chiesa.
10. E qui c’è il problema della Chiesa in sé. Si pensa che la Chiesa debba parlare in modo da farsi ascoltare, e che il messaggio debba essere più semplice. Io però credo che la situazione sia deversa. La Chiesa deve parlare la sua lingua, sia essa semplice o complessa. Non può abdicare al suo linguaggio e alla complessità. Non può perdere i suoi simboli. Altrimenti, la Chiesa perderà molto senso. Il problema è piuttosto andare oltre, e trovare i giornalisti, i comunicatori in grado di comprendere messaggi complessi e di renderli al pubblico.
Nessuna concessione, insomma, allo spirito del mondo. In dieci anni, però, sembra che l’idea dell’audience sia diventata importante. Si parla molto di aggiornamento del linguaggio. Si è persa forse di vista, però, la storia e la struttura stessa della Chiesa. Forse è un segno dei tempi. Forse, però, non è detto che si debba concedere tutto ai segni dei tempi.
Non so cosa avrebbe detto Benedetto XVI. Credo, però, che lui vorrebbe che il messaggio sia portato avanti nel modo giusto, senza pensare all’audience. Per quello, dieci anni dopo, ci si trova di fronte ad una rivoluzione copernicana nell’informazione religiosa. Perché manca una guida culturale di quel livello.
Nessun commento:
Posta un commento