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lunedì 12 dicembre 2022

Il giornalismo tra parentesi di Benny Lai

Sono passati nove anni dalla scomparsa di Benny Lai, e ogni anno ho raccontato un pezzo della personalità, delle storie, degli insegnamenti di Benny. Ho parlato del suo “vaticano sottovoce”, del suo essere sornione, del saper leggere dentro le persone. Era un modo di fare giornalismo che non esiste più. Non è, però, che non esista più perché il mondo è cambiato. Non esiste più perché sono cambiati i giornalisti. Eppure, al di là dei mezzi, dei tempi, delle nuove forme di narrazione, quel tipo di impegno deve essere sempre vivo, sempre presente, sempre sviluppato.

E, mentre pensavo a Benny, mentre cercavo altri brandelli di memoria scomposta da consegnare a una storia che potesse almeno avere un significato, mi sono reso conto proprio di questo: che non basta ricordare quel giornalismo, ma si deve capire come quel giornalismo deve essere applicato oggi.

 

I mezzi, come ho detto, sono diversi. Nei media tradizionali, il pezzo del giornale aveva un limite di battute, e in quelle si doveva rimanere se si voleva entrare in pagina. Si semplificava, riassumeva, rielaborava, in modo che i concetti rimanessero senza che niente fosse perso. Di fatto, il mezzo costringeva ad un linguaggio.

 

Per questo i giornalisti, o perlomeno i più intellettuali tra i giornalisti, scrivevano libri: per mettere nelle pagine di un libro tutto il materiale che non poteva comparire nelle pagine di un giornale. Il libro era l’ipertesto, era quella quarta dimensione data ad una storia che poteva essere tridimensionale solo se la penna del giornalista era abbastanza abile da tratteggiarla come un quadro espressionista. Sennò, gli articoli avevano due dimensioni, e quello era.

 

I libri di Benny Lai sono, appunto, ipertesti. Hanno, spesso, note lunghissime, che da sole rappresentano interi capitoli paralleli. È come se Benny riassumesse nel testo e si esprimesse nelle note, con il pudore di chi sa che alcune storie vanno messe tra parentesi. “Perché scrivi tutto questo? Cosa interessa questa parte al lettore?” Era questa la domanda che mi faceva, sottolineando la necessità di asciugare i testi.

 

Ma lui non buttava niente di quello che “asciugava”. Lo riutilizzava, lo rimetteva in piedi, lo faceva rientrare con i capelli in una storia. Era un cucire continuo delle informazioni con ago e filo, in modo che niente andasse perduto.

 

Internet ha portato una ulteriore evoluzione: non si possono mettere le note, e dunque le cose tra parentesi rischiano di rimanere tra parentesi. A meno che non si sfrutti una delle caratteristiche del web: quello di poter creare una narrazione più ampia, togliere le parentesi e includerle in articoli lunghi, esplicativi, approfonditi. Sono articoli fatti di parentesi, in fondo, ma che permettono di raccontare tutto, di andare a fondo sulle cose.

 

Io credo che questi articoli di analisi saranno il futuro del giornalismo, e varranno più dei commenti o delle personalizzazione. In un epoca in cui personalizzare è tutto, e in cui addirittura i giornalisti si sfidano a suon di classifiche di popolarità social, readability o numero dei lettori, si rischia a un certo punto di esagerare, di considerare il giornalista prima della storia che viene raccontata.

 

Benny insegnava sempre a fare un passo indietro, perché la storia veniva prima del giornalista, il dettaglio prima della storia, la persona prima dei dettagli. Era vanitoso, ovviamente, perché lo sono tutti i giornalisti, ed aveva piacere nell’avere informazioni riservate, nel comprendere alcune cose prima degli altri, nell’essere considerato tra i migliori. Quando scriveva, però, anche quando scriveva in prima persona, la tendenza era a fare un passo indietro.

 

Se guardate su internet ci sono poche foto di Benny, e io stesso non ne ho, perché si parlava e non si pensava mai a farsi una foto, a ricordare un momento. Erano altri tempi. Ma il fatto è che si hanno poche foto quando ci si distacca dal gruppo, e ci si distacca dal gruppo per andare avanti.

 

Benny vedeva le cose prima degli altri, e così si trovava nei posti quando nessuno era ancora arrivato. Predicava silenzio e discrezione, il “Vaticano sottovoce” appunto, ma non è che operasse come un santo, sia bene inteso. Nessun giornalista è davvero un puro, perché il mestiere di richiede di non esserlo. Eppure, Benny aveva la capacità di guardare al di là delle storie, di penetrare nelle persone, appuntando tutto e scrivendo solo qualcosa. Non si metteva mai avanti a quello che raccontava. Sarebbe stato troppo.

 

Per Benny, la storia andava raccontata e indirizzata. Si dà un punto di vista, ma senza entrare prepotentemente nella narrazione. Benny credeva nei ruoli, e il ruolo del giornalista è quello di spiegare le cose, senza diventare lui troppo protagonista. Oggi, aborrirebbe il mondo dei blog.

 

Direbbe che no, non è un giornalista chi deve attaccare personalmente altri giornalisti, e tantomeno lo è chi usa profili fake per farlo. Aggiungerebbe che no, non è un giornalista quello che riempie l’articolo di giudizi personali, perché il giornalista racconta, e se racconta bene allora non c’è bisogno di dare giudizi: basta la storia perché il lettore capisca.

 

Soprattutto, non è giornalista, secondo il criterio di Benny, chi usa troppi aggettivi. Il giudizio viene fuori dalla narrazione e non c’è bisogno di esplicitarlo, perché altrimenti si viene meno ad un patto sacro con il lettore: io, giornalista racconto quello che vedo e studio, secondo il mio punto di vista perché so che la realtà è molti difficile renderla oggettivamente, ma mi impegno a non dirti cosa tu debba pensare pensare; tu, lettore, mi leggi senza pregiudizi, ma non giudichi chi sono o quello che penso, ma quello che racconto.

 

Infine, non è giornalista chi fa da cassetta delle lettere per scandali più o meno gravi. Si dice che, quando si legge un articolo, ci si debba prima di tutto chiedere da chi è pagato il giornalista, quali interessi ha e perché ha deciso di pubblicare o non pubblicare. Ma chi lo dice non si rende conto che la stessa domanda va fatta a chi ha posto la domanda.

 

Nessuno pubblica tutte le informazioni che ha, perché decide a quale pubblico rivolgersi, perché decide se sono veritiere o meno, perché valuta se vale la pena pubblicare o no. Ma chi si lamenta che un giornalista non ha pubblicato qualcosa sta mettendo in discussione non il suo giudizio, ma la sua buonafede. Ed è un crinale pericoloso, perché se il pregiudizio è negativo sempre, allora nessuna storia può essere vera, nessuna storia va letta. Anzi, è in discussione anche la buonafede di chi pone la questione, perché anche lui avrà deciso cosa pubblicare, avrà fatto le sue valutazioni, o semplicemente avrà deciso di privilegiare una fonte piuttosto che un’altra.

 

Aggiungerei che anche chi pubblica tutte le informazioni che ha, non è altro che un passacarte, non un giornalista. Era un problema che venne fuori prepotentemente nelle prime stagioni di Vatileaks. Perché con Vatileaks si cominciarono a pubblicare i documenti integrali, non filtrati, e ad opera di persone che non li sapevano nemmeno leggere. 

 

Vatileaks ha fatto saltare il tappo dell’opportunità, il filtro della validificazione, creando una cesura fortissima tra il giornalismo di Benny Lai e dei suoi eponimi e quello che è venuto dopo, fatto di opinioni travestite da fatti, di killeraggio mediatico e, soprattutto, di ricerca di protagonismo da parte dei giornalisti.

 

Non è forse un caso che Benny se ne sia andato dopo la prima stagione di Vatileaks, e mentre se ne preparava una seconda ancora peggiore, ripetendo agli amici: “Questo non è il mio Vaticano”. Benny si lamentava di un Vaticano che aveva in qualche modo tradito se stesso, e che continuava a tradire se stesso dando più importanza all’opinione pubblica e pubblicata che alla verità. Era un uomo dai pochi fronzoli, ma dal grande acume, e tutta questa costruzione narrativa che dopo è esplosa non la avrebbe per niente apprezzata.

 

Benny sosteneva l’importanza, per ogni giornalista, di mantenere l’individualità. Sottolineava che non fosse importante citare i concorrenti, anzi che non si dovesse dare visibilità ai concorrenti. Si dovevano avere le informazioni, non riprenderle. E, qualora fosse arrivato tardi, il giornalista doveva comunque guardare alle sue informazioni. Pazienza se queste erano le stesse che aveva un altro collega. Nessuno ha il diritto di primogenitura sulle notizie. Si è, però, responsabili del modo in cui definiscono le informazioni, dell’uso che si fa delle fonti, di come si costruisce la narrativa.

 

Benny, che era un cavaliere, odiava parlare male dei colleghi. Aveva i suoi modi per parlare male dei colleghi, e si capiva benissimo quando apprezzava o non apprezzava qualcuno. Ma lo faceva in privato, mai pubblicamente, perché non era signorile, e perché soprattutto veniva prima il rispetto del collega.

 

Oggi, ovviamente, lo stile di Benny nello scrivere dovrebbe adattarsi a tempi nuovi, a modi nuovi di esprimersi, ma nemmeno tanto. Perché l’informazione resta veritiera se autentica, ed è autentica se rispecchia il modo di scrivere, pensare, vedere il mondo, senza infingimenti. Oggi, invece, tutto è finzione, dalle opinioni al modo in cui si costruisce il personaggio del giornalista.

 

Per questo, forse oggi ci vorrebbe il coraggio di essere giornalisti “tra parentesi”. Mentre le parentesi delle note a pie’ di pagina vengono esplicitate negli articoli, e la trama e l’ordito di ogni scritto diventano intrecci a volte confusi, ma generalmente necessari; mentre il protagonismo porta il giornalista a mettersi in primo piano e il protagonismo lo porta a misurarsi con gli altri; il giornalista stesso dovrebbe avere il coraggio di mettersi tra parentesi, rimanendo trasparente sia nel senso di onesto che nel senso del fare un passo indietro, diventando un osservatore della realtà da raccontare in svariati modi e forme, ma sempre con l’idea di non avere il cero della verità assoluta in mano.

 

È il sano dubbio etico che caratterizza la vita del giornalista. E immagino che Benny, da lassù, stia dicendo che, per dire tutto questo, “ho pisciato troppo”. Ma che, alla fine, se la stia ridendo con don Gino, che lo ha raggiunto quest’anno, e che don Gino stia dicendo: “Ma dai, Benny, questo è un bravo ragazzo. Me lo hai portato tu”.

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