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domenica 25 settembre 2022

Come Cristo può essere speranza dell’Europa oggi

Il
22 settembre dello scorso anno presentavo per la prima volta il libro “Cristo Speranza dell’Europa” ad un parterre di ambasciatori presso la Santa Sede, colleghi e pochi altri intimi. Il 24 settembre dello scorso anno parlavo del libro alla plenaria del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE), definendo l’idea di un progetto culturale per l’Europa. La mia presenza alla plenaria del CCEE era data dal fatto che il libro aveva come tema proprio la storia di cinquanta anni dell’organizzazione, e che quella storia, per quanto mi riguardava, era una traccia per il futuro dell’Europa.

È facile per un autore sottolineare che un libro è profetico dopo un anno, e per molti può essere una furba operazione di marketing. Però, di fatto, le ricerche che ho compiuto per quel libro, la storia delle persone che hanno fatto la storia non solo del CCEE, ma anche dell’Europa stessa, la valentia dei pastori che sono stati protagonisti di questo percorso e dei laici che lo hanno accompagnato mi è tuttora di ispirazione. Anzi, vi ho trovato diversi spunti ed idee che potrebbero essere utili oggi, potrebbero dare uno sguardo al futuro che sembra mancare.

 

Un anno dopo quel libro, con una guerra nel cuore dell’Europa cui ci siamo tragicamente abituati, mentre è crollato il modello europeo inteso come unione di valori ed è salito il modello europeo economicista, che però sembra escludere più che includere, la profezia che era contenuta nelle parole e nelle idee degli attori che hanno contribuito alla nascita del CCEE è ancora viva e attuale. Lo è, forse, più oggi che allora.

 

Allora, con una Cortina di Ferro che divideva idealmente l’Europa, i vescovi di Europa decisero che, se si dovevano riunire, lo dovevano fare non considerando l’Europa nel senso politico, ma nel senso geografico, dall’Atlantico agli Urali. Erano favoriti dal fatto che l’Unione Europea, al tempo, sembrava lontana. Ma è anche vero che cinquanta anni fa i primi passi dell’Unione Europea erano vivi e presenti.

 

Mi ha colpito, a tal proposito, leggere nella biografia di Madre Julia Verhaege, fondatrice della Famiglia Spirituale l’Opera, che nel 1958, all’Expo di Bruxelles, già si preconizzava l’unione degli Stati europei sotto una sola moneta, e come questo avesse lasciato in Madre Julia sentimenti contrastanti. Perché sapeva che da un lato questo fosse un bene, dall’altro vedeva i rischi di una possibile unione in cui il lato economico avesse la prevalenza.

 

Oggi, la tentazione di guardare all’Europa come divisa in due blocchi, con l’aggiunta di alcuni Stati non allineati, è tuttora presente e viva. C’è da una parte la Russia, dall’altra gli Stati occidentali. È la narrativa russa, che dietro questa narrativa giustifica la guerra. Ma è diventata anche la narrativa comune, perché di fronte ad una aggressione è facile mettersi subito su blocchi contrapposti.

 

E però il problema, oggi, non è tanto in chi vincerà la guerra, ma piuttosto in cosa sarà dopo la guerra. Il problema è se davvero i popoli riusciranno a riconciliarsi nel mezzo di una invasione o di una liberazione, se davvero i popoli sapranno trovare un cammino comune. La pace non è solo assenza di guerra, diceva saggiamente Giovanni XXIII.

 

Io sono convinto che l’unico vero collante dei popoli europei sia davvero la fede cristiana. Il cristianesimo ha forgiato l’Europa, con i suoi limiti, certo, ma anche con i suoi innumerevoli pregi. La cultura europea è una cultura che nasce e si sviluppa a partire dall’essere cristiani, e questo sia con i popoli slavi, che con i popoli nordici, che con i popoli mediterranei.

 

In questo, la Chiesa cattolica ha un ruolo profondo. C’è bisogno di creare una nuova cultura europea, che sappia davvero riconciliare i popoli. Non ci si può riconciliare con la geopolitica, ma ci si deve riconciliare tra i popoli, e i popoli per farlo devono conoscere la storia. Ma la storia reale, la loro vera identità.

 

La necessità è passare dalle narrative alla Storia, che è poi il modo di superare i nazionalismi. Si deve superare l’ansia di etichettare tutti, comprendendo che la cultura è l’unica cosa che rende davvero liberi dalle propagande. E questo ritengono possa essere fatto solo nell’ambito della cultura cattolica. E, aggiungerei, della cultura cattolica mediterranea. Perché Gerusalemme, Atene e Roma sono poli di quella cultura cattolica, ed è nel Mediterraneo che i popoli si sono incontrati e hanno trovato una sintesi al di là delle guerre e delle divisioni. Le nazioni e gli imperi sono crollati, la cultura è rimasta. La filosofia mediterranea, in fondo, è una filosofia di sintesi.

 

Il titolo “Cristo Speranza dell’Europa” nasceva dall’esortazione post-sinodale Ecclesia in Europa, scaturita dal secondo sinodo sull’Europa voluto da San Giovanni Paolo II. E San Giovanni Paolo II era un grande fautore della cultura cristiana come opposizione ai regimi e alle dittature della storia.

 

Lavorava sulla cultura quando era arcivescovo di Cracovia – e ne potei approfondire un po’ la storia scrivendo la piccola biografia “Giovanni Paolo II. Storia di un annuncio” (LEV), ormai quasi introvabile – e lavorò sulla cultura quando diventò Papa. In una conversazione con il Cardinale Paul Poupard, che fu il “ministro della Cultura” di Giovanni Paolo II, questi mi disse che il Papa polacco voleva che lui andasse oltre Cortina a dibattere con i filosofi ateisti e gli ideologi dei regimi dal punto di vista filosofico. Era una via innovativa di evangelizzare, quella di mettere per prima cosa in crisi le costruzioni di pensiero. Era, per Giovanni Paolo II, “la” strada. Si rivelò vincente.

 

Ho preso questa idea parlando ad un seminario dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Piacenza, lo scorso 16 settembre. Il seminario era intitolato “Nazioni, Religioni, Chiese nel conflitto russo-ucraino”, e a me toccava parlare della diplomazia della Santa Sede in questa situazione. Ho lanciato, alla fine, l’idea di una necessaria diplomazia della cultura.

 

Ci saranno gli atti di questo seminario, pubblicati in un libro probabilmente entro la fine dell’anno. Tuttavia, posto di seguito gli appunti del mio discorso – che non rappresentano il testo finale, anche perché ho parlato a braccio e perché questo non è un testo scientifico – per tenere un promemoria di quello che ho raccontato. Molte delle idee venivano proprio dalla mia frequentazione con i vescovi europei. Sono undici pagine, non c’è bisogno che le leggiate tutte. Ma mi sembrava un bel modo di celebrare l’anniversario di “Cristo Speranza dell’Europa”.

 

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L’attività diplomatica della Santa Sede nel conflitto tra Russia e Ucraina

Seminario

Nazioni Religioni e Chiese nel Conflitto Russo Ucraino

Università Cattolica del Sacro Cuore

Sede di Piacenza

16 settembre 2022

 

È difficile trovare una linea di continuità nell’attività diplomatica della Santa Sede nel conflitto causato dall’aggressione russa all’Ucraina. Eppure allo stesso tempo, è facile trovare una linea di continuità. Perché, in fondo, la Santa Sede ha giocato due partite, a volte su tavoli paralleli, altre volte su tavoli troppo diversi. Due partite, perché due sono gli attori in gioco: Papa Francesco e la Segreteria di Stato, che qui rappresenta la rete della diplomazia pontificia.

 

Conosco le obiezioni a questa mia lettura della situazione. La prima: non ci possono essere due attori in gioco, perché il Papa è la Santa Sede, e dunque la Santa Sede non può fare altro che seguire le direttive del Papa. La seconda: la Segreteria di Stato non si è mai contrapposta, e mai lo avrebbe potuto fare, alle posizioni di Papa Francesco. La terza: non si possono registrare resistenze interne sulla linea seguita da Papa Francesco, anzi la Santa Sede – nelle persone della Segreteria di Stato e del dicastero della comunicazione – si è compattata sempre intorno al Papa.

 

Sono obiezioni corrette, e formalmente ineccepibili. Mancano, però, di considerare la personalità di Papa Francesco, che punta molto sulle relazioni umane e che in realtà sfugge ai meccanismi della diplomazia tradizionale. Papa Francesco ha una visione fluida della diplomazia, estemporanea, che non cura dei dettagli perché gli sono lontani e perché, in fondo, sono considerati lontani anche dall’uomo comune. È un pragmatismo al limite del cinismo, che però diventa idealista quando forma il suo discorso su concetti come la fraternità e il negoziato, anche se questi sono concetti troppo difficili da concepire, troppo lontani dalla situazione concreta.

 

La Segreteria di Stato, invece, è sullo scenario ucraino da sempre. Ne conosce i dettagli, ha sviluppato nel corso degli anni una equivicinanza alle istanze ucraine e a quelle russe, non trascurando i rapporti con l’una e l’altra parte. Tra l’Ucraina che ha scelto l’Occidente, e la Russia che non ha mai accettato la scelta, la Santa Sede ha sempre saputo da che parte stare. Ed è sempre stata con Kyiv, con la sua popolazione, con la sua identità e storia che si andava ricostruendo dopo anni di dominazione sovietica.

 

Sin dall’inizio del pontificato, Papa Francesco ha voluto dare alla preghiera un ruolo di primo piano nelle sue decisioni diplomatiche. Dalla giornata di digiuno e preghiera per la Siria nel settembre 2013, passando per la preghiera per la pace in Medio Oriente nei Giardini Vaticani nel giugno 2014, fino al ritiro spirituale per i leader del Sud Sudan in Vaticano nel marzo 2019 alle giornate di preghiera per il Congo e il Sud Sudan e poi per il Libano.

 

Per quanto riguarda l’Ucraina, Papa Francesco ha incontrato il Sinodo della Chiesa Greco Cattolica Ucraina nel luglio 2019, e in quell’incontro né lui né il Cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, esitarono a definire quello che accadeva in Ucraina come “guerra ibrida”. Poi, c’è stata l’iniziativa “il Papa per l’Ucraina”, i continui incontri con l’arcivescovo maggiore della Chiesa Greco Cattolica Ucraina Sviatoslav Shevchuk, che conosce dai tempi in cui era arcivescovo di Buenos Aires, le due visite nel Paese del Cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, e del Cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali.

 

La nunziatura in Ucraina ha sempre avuto, in questi anni, diplomatici di rilievo: la crisi del 2014, con le rivolte del cosiddetto “Euromaidan”, vedevano sul campo l’arcivescovo Thomas Gullickson, che dimostrò di saper leggere gli avvenimenti ucraini con una lucidità; poi è stato nominato nunzio l’arcivescovo Claudio Gugerotti, un profondo conoscitore delle Chiese orientali fluente in russo e in grado, tra i pochi diplomatici sul territorio, ad arrivare fino ai luoghi del conflitto; infine, quest’anno è stato scelto come nunzio Visvaldas Kulbokas, che conosce bene la situazione in Ucraina per essere stato, in Segreteria di Stato vaticana, quello che gestiva proprio i dossier di Kiev.

 

In questa relazione, proverò a dipanare alcune delle strategie della diplomazia pontificia dallo scoppio della guerra in Ucraina. Lo faccio da un punto di vista non accademico, ma da quello di un osservatore esterno, un giornalista, che non ha altri strumenti che quelli di studiare, osservare, comprendere e tentare di spiegare.

 

La responsabilità di proteggere

 

Per comprendere la linea diplomatica della diplomazia pontificia guidata dal Cardinale Pietro Parolin come Segretario di Stato vaticano si deve ritornare indietro al 2014. Nel settembre del 2014, il Segretario di Stato prese parte per la prima volta in quella funzione all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La Santa Sede dà sempre grande importanza alle Nazioni Unite, tanto che il Segretario di Stato partecipa all’apertura dell’Assemblea Generale ad anni alterni, e – quando non ci va il Segretario di Stato – ci va il “ministro degli Esteri”, ovvero il “Segretario per i Rapporti con gli Stati”.

 

Il discorso del Cardinale Parolin alle Nazioni Unite fu incentrato sul concetto della “responsabilità di proteggere”. (https://www.vatican.va/roman_curia/secretariat_state/parolin/2014/documents/rc_seg-st_20140929_69th-un-general-assembly_it.html)

 

Il Segretario di Stato spiegava che questa responsabilità nasceva sia in casi patenti di violazione dei diritti umani, sia in casi più sottili, come “forme di aggressione meno evidenti” eppure reali, come possono essere le speculazioni finanziarie.

 

Era un discorso ad ampio raggio, che provava a marcare una linea in continuità con la precedente “dottrina diplomatica”, se così si può dire, senza però discostarsi dalla volontà di Papa Francesco di dare una particolare enfasi all’escluso, al debole, al povero.

 

Come si è definito questo dovere di proteggere? Sin dall’inizio, la Santa Sede ha seguito con attenzione la questione ucraina, e questo anche nei colloqui, abbastanza frequenti, con Vladimir Putin. In una intervista che mi ha concesso prima di Pasqua, il Cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, ha detto che la Santa Sede ha sempre chiesto alla Russia una soluzione negoziata alla questione ucraina.

 

La questione era stata toccata dallo stesso cardinale Parolin, mentre era in visita a Mosca nel 2017, mentre l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, “ministro degli Esteri” vaticano, era in Russia nel 2021. Tutti bilaterali richiesti e sollecitati dalla Russia, che sin dall’inizio ci ha tenuto ad essere un partner affidabile per la Santa Sede.

 

In particolare, il presidente Putin è stato in udienza in Vaticano ben tre volte, portando sul tavolo diverse questioni internazionali sulle quali poteva aiutare la Santa Sede, o poteva mostrarsi come mediatore.

 

All’inizio, fu la questione della Siria, primo vero impegno diplomatico di Papa Francesco, al centro della visita del presidente della Federazione Russa in Vaticano il 25 novembre 2013. Quindi, nel 2015, si stabilirono altri passi di collaborazione, e molti vedono in quell’incontro anche le basi per quello che sarebbe stato, nel 2016, lo storico incontro tra Papa Francesco e il Patriarca di Mosca Kirill. Infine, nel 2019, Putin si ripresentò in Vaticano, il 4 luglio 2019, alla vigilia dell’incontro interdicasteriale che Papa Francesco aveva convocato con i vescovi e il sinodo della Chiesa Greco Cattolica Ucraina.

 

Serve un po’ comprendere come funziona il protocollo vaticano per comprendere il perché si sia accettato di ricevere Putin alla vigilia di un appuntamento tanto cruciale. I presidenti e i monarchi hanno sempre una precedenza quando chiedono di essere ricevuti, e la risposta è sempre positiva, non c’è mai una risposta negativa. Un dato sfruttato da Putin a suo vantaggio.

 

Ma anche questa volontà di ascolto della Santa Sede non andava letta necessariamente come un appoggio alle politiche di Putin. Piuttosto, se la linea guida è quella della responsabilità di proteggere, allora questa responsabilità si definisce anche andando in dialogo con gli oppressori, e non solo gli oppressi, magari concedendo qualcosa a livello mediatico per ottenere qualcosa a livello diplomatico.

 

È sempre stata, in fondo, la strategia della Santa Sede, che apre le relazioni diplomatiche e non le chiude mai, nemmeno quando si trova ad avere relazioni con le dittature e con i regimi. C’è, in questo senso, una grande linearità nella diplomazia portata avanti dalla Santa Sede 

 

Ovviamente, nel caso russo – ucraino ci sono anche altri fattori che si vanno ad incrociare.

 

La questione ecumenica

 

Uno dei fattori cruciali riguarda proprio il dato religioso. Si è detto che l’incontro di Putin nel 2015 fece da prodromo all’incontro di Papa Francesco e il Patriarca Kirill all’Avana. Anche in quel caso, si scelse di accettare di giocare nel campo russo: la dichiarazione finale dell’incontro era chiaramente più protesa verso la lettura russa della storia e la scelta del luogo era chiaramente fatta per mettere a proprio agio Kirill (che voleva un posto neutro, e dove gli ortodossi si sentissero a casa, dove non sentissero di aver subito persecuzioni).

 

Ora, con lo scoppio della guerra, il Patriarca Kirill ha mostrato di adottare il punto di vista del governo russo, anche a costo di perdere porzioni di fedeli, aiutando anche la narrativa diffusa che si tratta di una guerra contro l’Occidente che si è distaccato dai valori della sua storia, a partire dai valori cristiani. Secondo questa lettura, non è la Russia ad essere cambiata, ma l’Occidente, al punto che la Russia non può fare altro che muovere guerra per difendersi dalla corruzione occidentale.

 

A questa narrativa si aggiunge la filosofia e teologia del Russkyi Mir, la Grande Russia, che guarda alla Russia non tanto come alla nazione che è, ma come all’impero che fu, fosse esso l’impero zarista o quello sovietico. Un impero che è stato smembrato, e che va ricostruito per permettere all’uomo russo di rinascere, di poter essere di nuovo libero.

 

Il più grande oppositore di questa lettura è stata l’Ucraina, e lo è stata con i fatti della storia. Noi parliamo del Maidan, della Rivoluzione della Dignità che ha mostrato un popolo in piazza a contestare le scelte filo russe del governo e a proclamarsi europei. Non comprendiamo che questa tendenza europea dell’Ucraina si è manifestata dai primi anni 2000, ha visto l’alternarsi di tre presidenti con tendenze diverse, fino a prendere definitivamente la strada occidentale e causare la reazione russa che ha portato all’annessione della Crimea.

 

Era, insomma, dall’inizio degli anni Duemila che lo Stato ucraino stava cercando di costruire una sua identità, e lo faceva contro l’ingombrante vicino russo, nonostante ci fosse molti russi nel suo territorio. E, andando indietro, era dal XIX secolo che era nato il movimento nazionalista ucraino, che la Russia definisce nazista tout court ignorandone la storia e le radici.

 

Dopo la Rivoluzione della Dignità, è nata nel 2017 la questione dell’autocefalia ucraina. In pratica, la Chiesa ortodossa in Ucraina era sempre stata legata al Patriarcato di Mosca, sin da una decisione del XVI secolo del Patriarcato di Costantinopoli che attribuiva al Patriarcato di Mosca la gestione della metropolia di Kyiv.

 

Con il tempo, dopo l’indipendenza, si erano però create altre due sigle ortodosse, non riconosciute dalla “sinassi” ortodossa, che si proclamavano indipendenti. Nel 2017, le due sigle si unirono e chiesero, attraverso l’allora presidente Poroshenko, una autocefalia, ovvero una indipendenza riconosciuta. Il Patriarca Bartolomeo di Costantinopoli, il primo della sinassi, la concesse, tra le proteste di Mosca.

 

Questo non portò solo al cosiddetto scisma ortodosso, ma anche ad una interruzione della partecipazione del Patriarcato di Mosca ai tavoli ecumenici. Mosca considerava l’Ucraina suo territorio canonico. Come reazione, appena lo scorso anno Mosca ha stabilito due esarcati in Africa, nel territorio canonico del Patriarcato di Alessandria, proprio per contrastare quello che chiamavano “il disagio” creato dalle decisioni di Costantinopoli, che – accusavano – vuole comportarsi alla stregua di un Papa.

 

La creazione dell’autocefalia era, in fondo, un chiaro attentato alla teologia del Russky Mir, nonché uno schiaffo per i russi. L’Ucraina, considerato un popolo fratello, cercava una sua indipendenza, anche religiosa, separandosi da una tradizione secolare. Il tutto con la complicità non solo del Patriarca di Costantinopoli – e in effetti il sito del Patriarcato di Mosca ha cominciato a pubblicare storie sull’influenza degli Stati Uniti nella scelta di Bartolomeo come patriarca – ma anche con l’avallo del mondo occidentale.

 

Quello scisma ortodosso ha rappresentato, per Mosca, una sorta di avvisaglia che tutto stesse precipitando. La Santa Sede, d’altra parte, non si è mai pronunciata sullo scisma, ne ha fatto generiche dichiarazioni sulla questione, nemmeno sul diritto all’identità di un popolo.

 

La Santa Sede ha però parlato indirettamente. Quando il Cardinale Parolin è stato in Ucraina ad agosto 2021, per i 30 anni di relazioni diplomatiche, ci è stato per tre giorni, ed ha incontrato tutte le autorità, ma ha evitato di entrare nelle questioni ortodosse incontrando il metropolita Epifanyi, nel frattempo eletto a capo dell’autocefalia ucraina. Ha incontrato, però, il Patriarca Bartolomeo, che era lì per lo stesso motivo e che aveva, di fatto, approvato l’autocefalia.

 

Si trattava, in fondo, di portare avanti un dialogo, in una situazione che non era ancora compromessa, e che anzi si sperava di tenere con il dialogo. Se Mosca non partecipava ai tavoli ecumenici, e si era isolata dal mondo ortodosso, allo stesso tempo Mosca parlava con la Santa Sede, che a sua volta parlava con tutte le altre Chiese ortodosse.

 

Certo, la Santa Sede non ha mai voluto né auspicato che la questione ecumenica diventasse una questione politica, e per questo ha sempre cercato di non entrare nella situazione, definendola una questione intra-ortodossa. Sono, questi, i cosiddetti rapporti di equivicinanza, sempre applicati dalla Santa Sede, sebbene con sfumature diverse a seconda dei Papi.

 

La diplomazia fluida di Papa Francesco

 

È qui che entra in gioco quella che io definisco “la diplomazia fluida” di Papa Francesco.  Il Papa mostra sempre una forte determinazione ad arrivare agli obiettivi che si prefissa. Uno di questi obiettivi, dall’inizio del pontificato, è quello di organizzare il primo viaggio di un Papa a Mosca.

 

A partire da questo, le sue dichiarazioni sono sempre state definite in maniera personale, quasi a voler rassicurare Mosca che tutto sarebbe andato per il verso giusto. Tornando dal viaggio a Istanbul nel 2014, dopo che era stato al Fanar, Papa Francesco aveva subito sottolineato che l’ “uniatismo era un metodo del passato”.

 

Quando il metropolita Hilarion ha partecipato al Sinodo sulla famiglia, e ha fatto una deviazione dal tema nel suo discorso parlando chiaramente della questione ucraina – c’era appena stata l’annessione della Crimea – Papa Francesco non ha fatto una piega. Anzi, in un incontro successivo a porte chiuse con i membri del Patriarcato di Mosca aveva sottolineato che solo Mosca era patriarcato – ed era un chiaro riferimento al fatto che non avrebbe mai concesso una patriarcato ai greco cattolici ucraini, che si costituiscono infatti come arcivescovado maggiore.

 

Una chiave di lettura precisa di questo modo di fare è stato dato dallo stesso Papa Francesco parlando con i giornalisti nell’aereo che da Cuba lo portava in Messico nel 2016. All’Avana c’era appena stato il primo, storico incontro tra un Papa e un Patriarca di Mosca, e ovviamente tutta l’attenzione era concentrata sulla dichiarazione congiunta firmata dai due leader.

 

La dichiarazione conteneva degli aspetti importanti, che andavano spiegati, ma soprattutto sembrava prendere un punto di vista molto russo, specialmente quando veniva a parlare delle situazioni internazionali. Non è una sorpresa che la stessa dichiarazione avrebbe creato non poche proteste, anche – e soprattutto – dal mondo greco-cattolico ucraino.

 

Papa Francesco, però, si affrettò a sottolineare che la sua era una dichiarazione di tipo “pastorale”, e che non andava letta con un sottotesto politico. È la linea che il Papa mantiene su ogni tipo di attività diplomatica in cui prende personalmente l’iniziativa: non è diplomazia, è pastorale.

 

È una linea che può avere i suoi effetti a breve termine, ma che a lungo termine può causare dei problemi.

 

Come si è applicata la diplomazia pastorale nel caso dell’aggressione della Russia all’Ucraina?

 

Il 25 febbraio, Papa Francesco è andato personalmente in visita all’ambasciata della Federazione Russa presso la Santa Sede, prendendo una iniziativa che andava fuori da ogni canale diplomatico. La sua intenzione, ha spiegato in una intervista successiva, era quella di vedere se da parte russa ci sarebbe potuta essere una apertura per una mediazione della Santa Sede.

 

Il gesto, però, appariva un atto di amicizia alla Russia, più che un atto critico. Il Papa non aveva convocato l’ambasciatore, come si fa in caso di consultazioni diplomatiche, né, per equilibrare la posizione, aveva contestualmente fatto visita all’ambasciata di Ucraina presso la Santa Sede.

 

Papa Francesco ha poi avuto una telefonata con il presidente ucraino Zelensky. È stato un gesto importante, e un segno di attenzione, ma dal punto di vista diplomatico quel passo iniziale della visita all’ambasciata russa non è stato riequilibrato.

 

Papa Francesco ha poi accettato il 6 marzo una videoconferenza con il Patriarca di Mosca Kirill, di cui la parte russa ha subito dato comunicazione, mentre quella della Santa Sede ha atteso per meglio contestualizzare il messaggio. Questo scarto temporale ha permesso alla Russia di gestire la narrativa sull’evento. Poi, certo, la Santa Sede ha meglio contestualizzato, ma tutto questo lavoro è saltato nel momento in cui il Papa, parlando con Il Corriere della Sera, ha sottolineato di aver detto a Kirill che lui non è “il chierichetto di Putin”.

 

Sempre la “diplomazia pastorale” ha portato Papa Francesco a volere una donna russa e una donna ucraina insieme a portare la croce in una stazione della Via Crucis, creando molto risentimento nella popolazione ucraina, che non vede possibilità di riconciliazione quando è in corso ancora la guerra; e poi, il Papa ha più volte detto di voler andare prima a Mosca e poi a Kyiv, con l’idea che parlare di Mosca significava mostrare al mondo che lui pensa che la Russia ha effettuato l’aggressione, ma di fatto ottenendo l’effetto che l’aggredita ucraina si senta messa da parte.

 

A testimonianza del fatto che la parte ecumenica conta, eccome, anche l’idea di un secondo incontro con il Patriarca Kirill di Mosca ha creato non pochi risentimenti. Da parte ucraina, ci si chiede perché il Papa volesse incontrare il Patriarca di Mosca che comunque aveva sostenuto le operazioni di Putin e che stava cercando in tutti i modi di uscire dall’isolamento cui lo stava condannando lo stesso mondo ortodosso e invece non c’erano contatti visibili con i leader delle Chiese in Ucraina, se non uno sporadico primo contatto all’inizio del conflitto.

 

L’ultimo evento, poi, è stato emblematico.

 

Al termine dell’udienza generale del 24 agosto, Papa Francesco fa l’ennesimo appello per la fine delle ostilità in Ucraina – ne ha fatti circa 80 in sei mesi di guerra.

Le sue parole, però, suscitano reazioni molto dure in ambito ucraino, specialmente perché il Papa volge anche il pensiero “a quella povera ragazza volata in aria per una bomba che era sotto il sedile della macchina a Mosca. Gli innocenti pagano la guerra, gli innocenti! Pensiamo a questa realtà e diciamoci l’un l’altro: la guerra è una pazzia”. La ragazza è Darya Dugina, la figlia di quello che viene considerato “l’ideologo di Putin”, il filosofo Dugin, vittima di un attentato.

Le parole del Papa toccavano un nervo scoperto, a due livelli. Il primo è sentimentale, perché per la parte ucraina sentire definire “innocente” una personalità che più volte si è espressa in favore della guerra che sta avendo luogo nel Paese è una ferita che provoca cicatrici. Il secondo è formale, perché il Papa sembra connettere l’attentato alla guerra, in un momento in cui in realtà non sono ancora state definite le responsabilità. In pratica, il Papa fa sua la narrativa russa, che subito ha individuato in una agente ucraina la responsabile dell’attentato.

 

Sono parole che hanno persino portato il ministro degli Esteri ucraino Kuleba a convocare il nunzio apostolico, l’arcivescovo Visvaldas Kulbokas, per chiedere spiegazioni, mentre Andrea Tornielli, direttore editoriale del Dicastero per la Comunicazione, pubblicava per la sezione ucraina di Vatican News un chiarimento delle parole del Papa, sottolineando che il Papa “aveva parlato con il cuore del pastore, non del politico”.

 

La diplomazia della Segreteria di Stato

 

Il chiarimento della Segreteria di Stato alle dichiarazioni di Papa Francesco è arrivato solo una settimana dopo, il 30 di agosto, con una specificazione che il Papa non prende posizioni politiche. Ma era una comunicazione di crisi tardiva, che cercava di rimediare anche agli ulteriori problemi creati dal dicastero della Comunicazione vaticana, con dichiarazioni che sembravano semplicemente di trattare gli ucraini come incapaci di comprendere lo spirito evangelico del Papa.

 

Non era la prima volta che la Segreteria di Stato cercava di portare avanti una linea diversa, complementare a quella del Papa, ma più diplomatica e concreta. Al centro, ovviamente, sempre l’idea della responsabilità di proteggere. Che, nel caso di una guerra, significava prima di tutto proteggere dall’escalation.

 

Da qui, le dichiarazioni, costanti, del Cardinale Parolin sulla necessità di evitare una escalation armata. Sì, c’è tutto il diritto di difendersi, e tutto il diritto di aiutare chi si difende, purché la risposta alla forza sia complementare. Ma si deve sempre tenere a mente che il rischio di una escalation militare o nella corsa agli armamenti è alto, specialmente in situazioni come questa.

 

La Santa Sede ha sempre dato disponibilità ad essere parte del processo di pace, e mediatore anche, qualora ci fosse la volontà di una delle parti. Se il Papa andava in ambasciata russa, era il Cardinale Parolin a prendere in mano le cose parlando direttamente al telefono con il ministro degli Esteri russo Lavrov. Se il Papa sembrava propendere più per la parte russa, era l’arcivescovo Gallagher a dimostrare la vicinanza della Santa Sede in Ucraina con un viaggio che doveva essere più tempestivo, e che è stato rinviato solo perché il “ministro degli Esteri” vaticano aveva preso il COVID.

 

Finora, Papa Francesco ha fatto più di 80 appelli per la pace in Ucraina, e ha inviato due missioni umanitarie, con vari aiuti. Ma è stato il lavoro del nunzio sul territorio a tenere le fila del dialogo, a mantenere viva la Santa Sede in momenti difficili.

 

Quando il Papa ha mostrato la volontà di andare a Mosca, la diplomazia del Papa ha mostrato in tutti i modi la necessità di andare a Kyiv, fino a dichiarare – facendo quasi una pressione indebita – che il Papa sarebbe potuto persino andare ad agosto, prima del viaggio in Kazakhstan.

 

Era il tempo in cui si era praticamente certi che durante il viaggio in Kazakhstan ci sarebbe stato l’incontro tra il Patriarca di Mosca, che aveva già confermato la partecipazione all’Incontro dei Leader Mondiali delle Religioni e delle Tradizioni, e Papa Francesco.

 

Il Papa era determinato a fare quell’incontro, e solo una forte pressione interna lo aveva portato a desistere dal compiere un incontro programmato già a Gerusalemme per il 14 giugno, alla fine di un viaggio in Libano. Di quell’incontro si può parlare perché è stato il Papa stesso ad annunciarlo.

 

È stata la diplomazia pontificia a far notare che forse un incontro di quella caratura, in quel momento, e tra l’altro a Gerusalemme, luogo dove era stato incontrato il Patriarca Bartolomeo in uno dei primissimi viaggi di Papa Francesco, non sarebbe stato opportuno.

 

C’è, insomma, un lavoro di riequilibrio della diplomazia pastorale, una diplomazia reale, fatta di incontri costanti, note verbali, anche dialoghi di pace che restano dietro le quinte, come devono restare.

 

È una diplomazia anche umanitaria, che si avvale delle Caritas, ma anche di altre entità. Vero che il Papa ha inviato due cardinali in Ucraina – Krajewski e Czerny – ma è anche vero che, al di là della mano tesa del Papa, c’è bisogno di organizzazione, di strutture, di sovranità.

 

Le azioni di Papa Francesco e la diplomazia pontificia agiscono, in qualche modo, su binari paralleli, per necessari aggiustamenti ed errori, e non necessariamente in maniera coordinata. Le decisioni estemporanee e spontanee di Papa Francesco sono sempre dietro l’angolo, e ognuna di queste decisioni può creare l’esigenza di aggiustare il lavoro.

 

Un lavoro cruciale, specialmente perché si parla di un Paese in guerra, che ha una sensibilità particolare perché vive in una situazione particolare. Non sorprende che il ministro degli Esteri ucraino Kuleba, dopo le dichiarazioni del Papa sulla Dugina, abbia convocato il nunzio per proteste.

 

Cosa avrebbe dovuto fare il Papa?

 

Alla fine, la diplomazia della Santa Sede è apparsa marginalizzata. Non ha stabilito un approccio critico riguardo le azioni della presidenza di Vladimir Putin. Ha preferito non prendere posizione su alcuni temi cruciali, rimanendo silente in nome di un dialogo che però le forze in campo non volevano. Ha trincerato le sue posizioni su vaghi appelli alla pace e alla buona volontà che possono colpire i cuori delle persone, ma che di certo non hanno un impatto politico di breve livello.

 

Bisogna essere chiari: pensare che un singolo appello papale possa avere un impatto diplomatico, oggi, è una illusione. La Santa Sede mantiene il suo ruolo di partner credibile a livello internazionale, specialmente come nazione terza cui affidarsi per le mediazioni. Ma le mediazioni funzionano solo se le parti vogliono mediare, non per la facilitazione della Santa Sede.

 

La Santa Sede ha perso, in qualche modo, quell’aura di attendibilità che la rendeva comunque ascoltata a livello internazionale. Con Papa Francesco, la diplomazia del Papa si è concentrata sui grandi temi internazionali e dell’agenda dello sviluppo, come le migrazioni, il disarmo, l’ecologia. Ma è mancato quell’impulso ulteriore, quella parola di profezia che resta sulla sfondo, e che è data dalla fede in Dio, e dall’incontro con Gesù Cristo. È diventata una diplomazia pragmatica, e questo la ha resa, in qualche modo, una diplomazia simile a tutte le altre.

 

Curioso a dirsi che si accusava la Ostpolitik vaticana, dopo la Guerra Fredda, di eccessivo pragmatismo. Ma quello, tuttavia, era un pragmatismo che serviva a salvare i sacerdoti da una persecuzione costante, a garantire la successione apostolica. Era qualcosa di profondamente diverso per temi ed impostazione. Forse criticabile, ma diverso.

 

Cosa avrebbe dovuto o potuto fare la diplomazia della Santa Sede in questa particolare situazione di crisi?

 

Punto primo: sviluppare una consapevolezza internazionale. La rete di informazione incrociata di nunzi e missionari è tra le migliori del mondo. La Chiesa è sul territorio, la Chiesa parla con le popolazioni, la Chiesa ha gli strumenti per fare una analisi dettagliata. Che ci potesse essere una escalation era una eventualità. Ma se la diplomazia della Santa Sede non può fermare una escalation, può creare una opinione pubblica tale da comprendere le ragioni dell’escalation, andando oltre le normali dicotomie del no alla guerra / sì alla guerra. Dove sono state le analisi dei media cattolici sul tema in questi anni di conflitto in Ucraina? Dove sono state disseminate le informazioni? Dove è stato disseminato dibattito?

 

Punto secondo: oltre a lavorare in network per la comunicazione, si doveva lavorare nel multilaterale, e in maniera coordinata e continuativa. La Santa Sede mantiene rappresentanze alle Nazioni Unite e nei grandi organismi internazionali. Porre le questioni geopolitiche al centro, e in particolare porre la questione di una possibile guerra nel cuore dell’Europa al centro, era fondamentale e necessario. Andavano organizzati side events, andavano scritti testi ed appelli, concesse interviste, e questo in maniera periodica e strutturata. I partner internazionali dovevano essere consapevoli che la Santa Sede osservava la situazione.

 

Punto terzo: abbandonare la politica di appeasement in favore di una diplomazia della verità. Che significa parlare pragmaticamente con tutti i partner, collaborare con loro, ma non mancare di prendere posizioni nette su alcuni temi. Putin è stato persino in grado di anticipare il Papa, chiamandolo per il suo compleanno una volta che si è saputo che il Papa lo volesse chiamare per parlare dell’Ucraina. Sono iniziative, queste, che dovrebbe prendere la Santa Sede. Non basta l’impegno umanitario. È necessario anche dimostrarsi così terzi da non aver paura di porre sul tavolo le questioni. La Santa Sede lo può fare, perché non ha interessi di alcun tipo se non quelli della libertà dei suoi figli e la dignità dell’essere umano.

 

Punto quarto: lavorare con il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Incontrarli, condividere posizioni, far sapere le posizioni ai governi. Rendere pubblici questi scambi, in modo che le persone potessero avere consapevolezza che non c’è solo il punto di vista diffuso nel mainstream, ma un punto di vista più ampio. Le parole di speranza nascono dalle grandi prospettive.

 

Punto quinto: continuare a sottolineare l’importanza della fede. Non c’è fraternità se non c’è un Padre comune. Ma i cristiani credono che questo padre ha già un figlio incarnato, che è Cristo. È la presenza di Cristo, viva nell’Eucarestia, che rende necessario il lavoro per la dignità umana, che rende viva la dottrina sociale della Chiesa. Può sembra un assurdo, ma nel momento stesso in cui si relativizza l’Eucarestia, o si mette da parte nel discorso la realtà salvifica del Vangelo, allora la Chiesa perde vigore. Diventa qualcosa di simile ad una Ong. Si parla molto di cristianofobia, ed è un tema sacrosanto. La persecuzione dei cristiani, nascosta e non nascosta, è fortissima e presente. Ma la cristianofobia è un concetto sociologico.

 

Nel 2012, quando Benedetto XVI parlò di cristianofobia, girò la voce che nella prima bozza del suo discorso di parlasse di Cristo-fobia, cioè della paura di Cristo. Credo sarebbe un tema che dovrebbe essere riproposto, e con forza, anche nel discorso sui conflitti. Si deve comprendere che ritornare a Cristo è l’unico modo non solo per l’Europa, ma per tutto il mondo, di evitare i conflitti, riconciliare la memoria, creare una identità vera che abbia al centro la dignità umana.

 

Si deve tornare, in una parola, alla forza della parola evangelica, sostenuta da argomenti della ragione. Non sperare in una dissuasione delle forze in campo

 

La questione escatologica

 

Quest’ultimo punto, porta, secondo me, ad un ultimo livello di analisi. La questione escatologica, non è secondaria. È molto presente nella filosofia di Dugin, che poi viene usata in maniera millenaristica. È molto presente nell’idea della costruzione di una identità da parte della Federazione Russa, che si contrappone a quella occidentale.

 

Si mischia spesso religione e politica, visione del mondo e confitto, fine del mondo e inizio del mondo nuovo.

 

Ma è lì che la Chiesa interviene. La Russia può sentirsi in contrapposizione con l’Europa perché vive la sua cultura come separata, e sente l’Occidente come un traditore della propria cultura. Eppure, la Russia nasce cristiana, vive cristiana, cresce cristiana e resta cristiana anche nei difficili anni della dittatura sovietica. La Russia è parte dell’Europa, come profeticamente compresero i vescovi europei quando fondarono il Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee.

 

Allora, è la Chiesa qui a doversi fare carico di un discorso di inclusione, a comprendere che la storia va smontata e rimontata e compresa, ad aiutare tutti i popoli ad uscire dalle pieghe dell’ideologia. La cancel culture che ora sembra colpire soprattutto la Chiesa è anche alla base di una lettura della storia che crea conflitti, e che li ha sempre creati.

 

E forse il più grande lavoro diplomatico sarebbe quello di ripartire dalla formazione. Lo può fare la Chiesa, nelle sue enormi diramazioni locali, mentre la diplomazia della Santa Sede può essere chiamata a coordinare e dare nerbo a questo sforzo. La cultura, la formazione, la comunità tirano fuori gli esseri umani dall’isolamento, e li rendono meno schiavi dei poteri forti e più liberi. È una libertà, in fondo, solo cristiana.

 

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