Si chiama
León de Perú, ed è un grande sforzo editoriale dei media vaticani, che, dopo l’elezione di Papa Leone, sono andati non solo a Chiclayo, ma anche lì, nei luoghi dove il giovane agostiniano Prevost era stato missionario, per comprendere chi è, cosa e cosa ci si può aspettare da Papa Leone. Ed è un’opera editoriale senza precedenti per i media vaticani, chiamati non solo a dare una biografia, ma a fare giornalismo. Forse si può dire che, con questo sforzo, il comparto dei media vaticani esce fuori dalla consueta istituzionalità, per diventare, appunto, una impresa mediatica. E, allo stesso tempo, non si può prescindere dal fatto che è un documentario fatto dai media vaticani, e che dunque in qualche modo può essere considerato come una narrazione ufficiale del pontificato.
È
passato un mese e una settimana dall’elezione di Leone XIV. Quando cambia un pontificato, per chi fa Vaticano cambia tutto un mondo. Cambiano i punti di riferimento, cambiano le persone cui rivolgersi per le notizie, le fonti tradizionali rischiano di diventare inaffidabili, perché non sono più nella posizione di avere informazioni.
C’è
una differenza sostanziale tra Roma senza Papa e Roma con il Papa. Si sente nelle strade, c’è un umore diverso intorno alla Basilica di San Pietro. Roma è il Papa, e Roma è il Papato, e chi vive Roma non può non sentirlo. Roma è così tanto il Papato che, alla fumata bianca, ho visto persone letteralmente correre, scendere dalle valli, fiondarsi in piazza San Pietro perché nessuno, e dico nessuno, vuole perdersi l’habemus Papam.
C’è
qualcosa di straordinariamente drammatico e solenne nell’apertura di un Conclave, e la cosa che un giornalista può fare è semplicemente accompagnare quei momenti, cercando di osservare i dettagli. Il Conclave, infatti, è uno di quei linguaggi pontifici che hanno senso e significato nella loro ritualità, segretezza, e (incredibilmente) pubblicità.
Cosa significa
essere vaticanista in tempo di sede vacante? E cosa significa essere vaticanista cattolico in tempo di sede vacante? Da quando questo nuovo periodo nella storia della Chiesa è iniziato, lo scorso 21 aprile, mi ritrovo a dover rispondere a questa domanda, per ragioni differenti. Ma è una domanda che pongo soprattutto a me stesso, quando mi accingo a coprire professionalmente il terzo conclave della mia vita, con un po’ di esperienza in più e ancora tanto da imparare.
Lasciatemi prima di tutto sgombrare il campo da ogni equivoco: c’è una riflessione che ho fatto quando ho visto il Papa in San Pietro, lo scorso 10 aprile, senza nemmeno insegne episcopali, con una maglietta bianca, una sorta di coperta o poncho un po’ raffazzonata e i pantaloni neri da gesuita, che deriva direttamente da una esperienza personale. E l’esperienza personale mi porta a parlare di un libro – anzi una serie di libri – che ho scritto e che mi hanno effettivamente aperto un mondo su questi temi.
Non ero ancora un vaticanista. Eppure, il primo articolo di quella che è poi diventata la mia vocazione è stato pubblicato il 3 aprile 2005, e parlava della veglia della Misericordia alla Chiesa di Santo Spirito in Sassia. Mi aveva mandato lì Giuseppe Di Fazio, caporedattore de La Sicilia, per il cui ufficio di Roma collaboravo, perché voleva captassi gli umori delle persone che stavano accompagnando l’agonia di Giovanni Paolo II in quella chiesa dedicata alla festa a lui tanto cara.