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giovedì 28 marzo 2024

Come raccontare la teologia oggi?

Come raccontare la teologia? È una domanda che mi faccio da sempre, da quando, da giornalista, ho cominciato ad approcciare il tema dell’informazione religiosa. Ogni volta che si cerca di spiegare un concetto teologico in termini giornalistici, si tende a fallire, perché o lo si semplifica troppo, o semplicemente non si è in grado di renderlo. Oppure, ed è la terza opzione, ci si trova nel mezzo di un dibattito complesso, in cui già il non prendere una posizione diventa oggetto di critica.

È una domanda che mi sono fatto quando ho partecipato all’incontro, organizzato dalla Luxembourg School of Religion & Society su “Cosa ci tiene insieme quando non siamo d’accordo”, tenutasi il 21 e 22 marzo. Due giorni di conferenza, per esplorare la straordinaria varietà del cosmo teologico di oggi, e comprendere in che modo il cammino sinodale possa essere una risorsa. Perlomeno, questo è il modo in cui io riassumerei il senso delle varie sessioni, che hanno visto relatori come il premio Ratzinger Thomas Halik, il presidente della Pontificia Accademia di Teologia Antonio Staglianò, il Cardinale Grzegorz Ryś. 

 

Probabilmente questo modo di riassumere il senso della due giorni non è condiviso da tutti o da molti, sia tra gli organizzatori e da coloro che ne hanno partecipato, ma è proprio questo il punto del mio ragionamento: non si può condividere perché ogni semplificazione rischia di essere un tradimento. E questo succede ancora di più al giorno d’oggi.

 

Parlare di “cosa ci tiene insieme quando non siamo d’accordo”, infatti, presuppone un dibattito teologico vivo e divisivo, al punto che ci sono tesi e prese posizioni opposte le une alle altre. Il professor Jean Ehret, direttore della Scuola, ha sottolineato come non si possa dire che non ci sia buona fede in ciascuno, che ciascuno sia molto onesto nel cercare l’interpretazione delle idee seguendo la logica del Vangelo.

 

Eppure, ci si trova in un dibattito con posizioni diametralmente opposte, alcune addirittura audaci nel definire l’Eucarestia e la sua verità a seconda del contesto sociale, altre più chiuse nelle posizioni tradizionali. È un dibattito che spesso sfocia in ideologia, e che anzi in molti casi parte da un presupposto ideologico, ma che poi, nell momento della discussione delle idee, diventa quasi feroce. C’è un noi e un loro, un giusto e uno sbagliato, e non sorprende che in tempi di crisi a tutti i livelli si pensi di tenere questo dibattito confinato nelle accademie, perché il rischio è che questa polarizzazione fortissima, e non certo bilaterale ma multilaterale, rappresenta anche una minaccia alla coesione delle proprie società.

 

Non è qualcosa di nuovo. Questa polarizzazione delle posizioni si trovava, molto presente, nei dibattiti che hanno preceduto il Concilio Vaticano II, e poi nei dibattiti durante e quelli che sono seguiti al Concilio Vaticano II.

 

In modo molto interessante, il dibattito teologico si era in qualche modo secolarizzato. Si è passati da un dibattito vivo, ma rimasto nell’ambito del cristianesimo o comunque di una visione cristiana del mondo, ad un dibattito in cui si guardava alla teologia da fuori del mondo cristiano, e da lì si chiedevano alla Chiesa riforme, fino alla cristallizzazione delle posizioni, e ad una teologia che diventava umana, troppo umana.

 

Di questa teologia umana, troppo umana si trovano gli echi anche oggi, mentre il nodo centrale è quello di trovare un equilibrio e il poter fare teologia con un impatto pubblico, senza negare l’attuale società odierna. C’è una sorta di divisione tra chi fa teologia dove anche il cristianesimo è considerato importante e chi fa teologia dove il cristianesimo è ormai ai margini della società.

 

Si tratta, per quello che ho potuto vedere, di linguaggi differenti, con soluzioni differenti e basi ideali differenti. L’arcivescovo Staglianò ha provato a tracciare una sintesi cambiando la domanda, chiedendo “Chi ci unisce anche quando non siamo d’accordo”, e rispondendo che è Gesù Cristo, e cioè l’Amore ad unirci. Il professor Halik ha parlato della necessità di un rinnovamento del cuore, e di un nuovo approccio al mondo, passando dal concetto di cristianesimo a quello di cristianità. Il professor Gusztav Kovacs ha chiesto un cambio di paradigma dal concetto di tolleranza a quello di riconoscimento.

 

Tutte soluzioni che rappresentano una sorta di cosmetica teologica, e che cambiano il punto di vista senza per questo snaturare la ricerca e il dibattito.

 

Come può, allora, un giornalista comunicare tutto questo, renderlo appetibile per il pubblico, definire i pro e i contro delle posizioni senza necessariamente essere preso dal dibattito?

 

Cerchiamo di definire l’impegno del giornalista nel raccontare la teologia in cinque punti.

 

1.     Guardare sempre alla storia e mai allo scoop. Anche le posizioni ideologiche più innovative hanno una base comune o sono comunque frutto di grandi ritorni storici. Le ideologie si comprendono solo conoscendone la storia e le radici. Alla conferenza c’era un professore tedesco che sottolineava come il Memorandum cui li aveva partecipato alla redazione e inviato a tutti i vescovi di Germania aveva una recezione positiva oggi, e negativa allora. E ha sottolineato che la piattaforma ideologica era la stessa del Cammino Sinodale della Chiesa in Germania. Cosa che testimonia che c’è, insomma, una piattaforma ideologica che si è definita ben prima della situazione attuale. Questo è importante da spiegare, ed è importante per la comprensione dei fenomeni. Niente, in teologia, nasce dal nulla.

2.     Evitare le semplificazioni eccessive. A volte va usato un linguaggio specialistico, a volte semplificare significa semplicemente snaturare quello di cui si sta parlando. Vanno bene le sintesi, va bene cercare di spiegare tutto con parole proprie, ma è anche giusto lasciar parlare i teologi e la loro teologia, accettando di entrare in un terreno difficile.

3.     Cercare di non giocare troppo con la narrativa della contrapposizione ideologica. Ci sono posizioni diversissime, ma non sono frutto necessariamente di guerre, e non mirano sempre ad una conquista teologica. Il dibattito va normalizzato, nel senso che poi molte cose alla prova del tempo si possono rivelare esagerate. Certo, oggi questo è un aspetto complicato, considerando che l’attuale cammino sinodale ha fatto tornare anche una certa volontà di essere presente sui media a dire la propria. Ma il rischio è quello di diventare portavoce di lobby – non importa di quale ideologia – ed è un rischio che un giornalista non può correre.

4.     Prendere il rischio di dichiarare quello che si pensa. Non esiste un giornalismo oggettivo, e nel caso del dibattito intellettuale non si può essere neutrali. Imparziali sì, neutrali no. Dunque, con tutta l’imparzialità del caso, con il necessario equilibrio nel mettere in luce anche l’altro punto di vista, è necessario essere onesti e dire cosa si pensa, senza timore, perché è un tipo di onestà intellettuale che aiuta sempre.

5.     Avere umiltà epistemologica e soprattutto parlare personalmente con chi prende le decisioni o chi alimenta il dibattito. Spesso i toni del dibattito nascono in circostanze particolari, e sono completamente difformi dalla realtà che una persona vive, dalla sua onestà intellettuale, dalla sua tranquillità dialettica. Riconoscere che c’è una persona dall’altra parte, e non una idea da combattere o da promuovere, è un riconoscimento necessario.

 

Se questi punti dovrebbero aiutare a creare un dibattito più onesto sui media, sebbene forse meno appetibile in termine di notizie, c’è anche da considerare l’aspetto ulteriore. Ovvero come i teologi possono porsi riguardo i media. Anche qui, propongo alcune considerazioni in ordine sparso.

 

1.     Riconoscere che il linguaggio dei media non è linguaggio accademico. Si fa satira, a volte, si esagera per il gusto di esagerare, si creano polemiche, ma questo non qualifica di certo un giornalista come contrario a qualcuno o come in malafede. Si gioca con il linguaggio e con gli strumenti del linguaggio, si portano avanti battaglie che possano anche attrarre una audience. Cinico, probabilmente. Ma ci sta. Va compreso.

2.     Accettare che il giornalista non può comprendere in appieno la portata teologica delle decisioni. Va aiutato a comprendere, anche perché spesso il giornalista non si occupa solo del tema di cui si sta trattando, ma di diverse altre situazioni, e non ha il polso della situazione fino in fondo.

3.     Rispondere alla polemica giornalistica con autenticità. L’autenticità supera ogni artificio retorico, ogni gioco opposto e contrario che si possa creare. Non serve essere mediatici per essere compresi dai media. Serve essere autentici.

4.     Se si vuole che il messaggio passi, non si deve scrivere il messaggio in modo che i media lo comprendano. Si deve scrivere il messaggio come va scritto. Poi, si devono trovare alcune persone fidate che sappiano veicolarlo, e che potranno, avendo il testo originale, renderlo mediaticamente interessante. Il processo è al rovescio, perché le pubbliche relazioni sono cose per specialisti, e nessuno (con rare eccezioni) funziona davvero come PR di sé stesso.

5.     Essere concreti. Perché la teologia concreta è l’unica grande forma intellettuale che può essere compresa e che vale in ogni tempo e in ogni luogo.

 

Credo che tutto questo sia difficile da attuare, se non altro perché prevede un profondo cambio di mentalità. Meno polemica, più analisi, sono richieste da ambo le parti. Più colpi incassati, più spiegazione sono anche le altre due parole d’ordine.

 

Eppure, io credo che in questo momento, trovare un linguaggio per la teologia sia quanto mai fondamentale. Le iniziative come la conferenza organizzata dalla Luxembourg School of Religion & Society sono preziose, perché aiutano a spostare gli equilibri. Certo, dal ramo intellettuale poi tutto dovrà essere applicato concretamente. Ma intanto una speranza c’è.  

 

 

 

 

 

 

 

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