In questi giorni, mi trovo spesso a chiedermi cosa direbbe Benny Lai ascoltando alcune delle argomentazioni del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato in Vaticano. Farebbe qualche battuta caustica, probabilmente, come suo solito, e in questo modo nasconderebbe l’amarezza per un mondo vaticano che non c’è più e per un mondo nuovo per cui provava una certa curiosità, ma che non avrebbe mai potuto decifrare fino in fondo.
Non avrebbe potuto perché semplicemente era un mondo troppo distante da lui, fatto di approssimazione e spesso scarsa consapevolezza storica. E lui, che era un giornalista con il piglio dello storico e che amava lo scrivere preciso e denso, non ci sarebbe stato bene.
Sono dieci anni che il mio maestro e mentore non c’è più, eppure la sua presenza è ancora viva e presente in questi giorni. Stiamo celebrando un processo in Vaticano che, in fondo, tocca la struttura finanziaria della Santa Sede, e questo non avrebbe potuto non interessare lui che alla storia della finanza vaticana ha dedicato ben due volumi, con informazioni raccolte con lo spirito di uno speleologo della notizia, capace di tirare fuori una storia da un dettaglio e di estrapolare dettagli dalle storie.
Mi sembra di sentirlo, Benny, parlarmi di alcuni personaggi vaticani di oggi. Mi sembra di sentirlo perché ho sentito quello che diceva dei personaggi di ieri, e credo che alcuni commenti si applicherebbero bene anche oggi. Senza dire le persone a cui si riferiva, posso citare alcune della frasi che si applicherebbero molto alla situazione di oggi. Nell’ordine: “È un sacerdote messo a fare finanza, ma non è uno che fa complotti, semplicemente non sa di cosa sta parlando”; “la Chiesa ha smesso di credere nei suoi simboli, e ci troviamo persone che vogliono che la Chiesa sia come una istituzione secolare”; e, soprattutto, l’immancabile: “Gente che non conosce il Vaticano”.
Queste ultime due frasi, in particolare, si colorano di un valore ancora più grande se consideriamo che Benny non era un giornalista cattolico, non nasceva cattolico e non si inseriva nel novero dei giornalisti militanti nati dopo il Concilio, i quali magari sviluppavano un interesse sul Vaticano perché formati in uno dei tanti movimenti ecclesiali che si erano diffusi dopo, e che dunque vivevano il loro essere giornalisti cattolici come espressione di una particolare identità.
Benny Lai arrivò a scrivere di Vaticano per caso, perché era un cronista curioso che “aveva sempre fame”, e che ricevette una proposta. “Vuoi fare Vaticano?” “Ma io non lo so mica cosa è il Vaticano”. E cominciò, nella Sala Stampa dell’Osservatore Romano che al tempo era dentro il Vaticano. Erano in tre, e lui per capire il Vaticano si portava dietro un quadernetto dove teneva appunti più disparati, segnalava persino i tic delle persone quando c’erano, perché tutto poteva essere una storia, perché tutto poteva avere un significato.
Furono questa curiosità, questa discrezione e anche questa apertura al caso che lo fecero diventare il confidente del Cardinale Giuseppe Siri, il “Papa non eletto”, come dice il titolo del libro che Benny scrisse su di lui. Ma, in fondo, tutti volevano parlare con Benny, nonostante una certa ruvidezza a volte che non era mai cattiva. Sapevano che in Benny avrebbero trovato una spalla, una sicurezza, anche una correttezza, e soprattutto notavano il carisma che emanava. Benny non ha mai voluto essere un maestro, ma non ha mai smesso di insegnare. Non ha mai voluto essere un vaticanista, eppure è stato lui a definirsi per primo come tale, salvo poi virare su “vaticanologo” quando scoprì che vaticanisti erano chiamati dispregiativamente i dipendenti vaticani dal mangiapreti Crispi.
Benny Lai faceva un Vaticano sottovoce, come dice un altro dei suoi libri. Vale a dire, un Vaticano che si basava su retroscena, indiscrezioni, letture delle situazioni, ma senza urlare, senza sensazionalismo. Raccontare per il gusto di raccontare, capire per il gusto di capire.
Manca, in fondo, questo modo di fare Vaticano perché sono cambiati gli interlocutori, sono cambiate le situazioni. Il Papa concede interviste, firma prefazioni a innumerevoli libri, si trova ovunque in un eccesso di comunicazione che avrebbe fatto perdere a Benny l’interesse. L’informazione è così veloce che impedisce di studiare, e studiare permette, ad esempio, di scrivere pezzi sull’apertura del Concilio Vaticano II partendo dai dettagli del cerimoniale, come fece Benny.
Soprattutto, c’è l’idea della storia definita come un qui ed ora, con una frattura continua con il passato e il futuro, qualcosa che Benny non avrebbe mai potuto accettare.
Dieci anni senza di lui sono sanguinosi, considerando che avremmo potuto beneficiare ancora della sua lucidità “spiccia” per comprendere alcune situazioni. Perché di Benny sapevamo, prima di tutto, che guardava al mondo senza pregiudizi.
Dieci anni senza Benny Lai ci impongono di ripensare un modello di giornalismo che deve essere, sì, veloce, ma anche preciso e approfondito. Ci vengono chiesti molti più talenti, ed è difficile essere in grado di svilupparli. Ma possiamo sviluppare un modo nuovo di lavorare, magari più lento, più focalizzato, meno concentrato sulle notizie per le notizie.
Benny Lai approverebbe l’idea di un altro modello, dove lui possa sentire di nuovo a suo agio a scrivere. È una utopia, perché Benny è andato via dieci anni fa, e dunque non è qui con noi per dire quello che pensa. Resta, pesantissima, la sua eredità, che in fondo nessun vaticanista può davvero portare.
P.S. Negli scorsi anni ho raccontato di Benny e del suo “vaticano sottovoce”, del suo essere sornione, del saper leggere dentro le persone, del suo giornalismo tra parentesi e del suo giornalismo che non esiste più.
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