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martedì 28 febbraio 2023

Benedetto XVI, dieci anni fa la fine del pontificato. Ed ora?

Si dice che quando si chiude una porta, si apre un portone. Ma è raro che invece una porta chiuda davvero una epoca, ne certifichi una fine irreversibile, e sappia guardare verso il futuro. Eppure, il portone della residenza papale di Castel Gandolfo, quel 28 febbraio 2013, si chiuse alle ore 20 cercando di dischiudere la Chiesa verso il futuro.

Dieci anni fa, il giorno della rinuncia di Benedetto XVI, successe esattamente questo. Lo avremmo dovuto capire quando il Cardinale Joseph Zen, zucchetto rosso in testa e talare filettata di ordinanza, si faceva largo tra la gente come un fedele qualsiasi per portare i suoi ultimi omaggi a Benedetto XVI. Lo avremmo dovuto comprendere dall’incredulità di quella gente che, fino all’agosto precedente, era abituata a vedere il Papa passeggiare in piazza il giorno di Ferragosto, per andare a celebrare nella chiesa che fu progettata da Bernini, in un continuum spazio temporale con il Vaticano che non faceva di Castello “solo” una residenza estiva, non solo un luogo istituzionale, ma piuttosto un rifugio dell’anima dei Papi. Lo avremmo dovuto capire quando la porta si chiuse alle ore 20, in fondo appena prima l’inizio della prima serata tv, quasi a testimoniare un Papato che non voleva essere protagonista della Storia, ma voleva piuttosto portare Cristo nella storia di tutti i giorni.

 

Dieci anni dopo la fine del pontificato di Benedetto XVI, noi giornalisti dobbiamo chiederci se siamo stati in grado di leggere i segni dei tempi. Che poi significa se siamo stati in grado di leggere Benedetto XVI. Il quale dirà in seguito, nell’ultimo libro intervista a Peter Seewald: “Io sono la fine del vecchio mondo, ma il nuovo non è ancora cominciato”.

 

Siamo stati in grado di leggere un pontificato che invitava prima di tutto a demondanizzarci? No, perché abbiamo letto il pontificato di Benedetto XVI nelle solite categorie di potere e di ideologia, nelle contrapposizioni stolte che non ci mostrano chi siamo realmente, ma ci rendono categoria sociologica. Eppure, il cristianesimo è oltre le categorie sociologiche, è umano, incarnato, presente nella vita di ciascuno. È così umano che la cura per l’uomo viene prima di qualunque decisione. Si decide per la Chiesa, si decide per l’uomo, non si decide per portare avanti una idea. E Benedetto XVI, che di idee ne aveva, partiva dal presupposto che la Chiesa non era sua, ma era di Cristo, e che dunque ogni scelta dovesse essere fatta proprio alla luce di Cristo.

 

Potremmo fare la lista di tutte le scelte di governo del Papa, eppure non basterebbero a rendere il punto. E potremmo dire che la rinuncia è l’apoteosi di questo modo di fare, eppure faremmo l’errore di ridurre un pontificato grande a un grande gesto. Invece, per comprendere Benedetto XVI, dovremmo andare a leggerne le omelie. Da quella, straordinaria, di inizio pontificato, in cui partì proprio dai simboli del Papato, dal pallio, per raccontare  la sua missione; a quelle, semplici ed incredibilmente profonde, di Pentling, raccolte in un libro; fino a quelle che teneva nel Monastero Mater Ecclesiae da Papa emerito, gli stralci di alcune contenute nell’ultimo libro dell’arcivescovo Gaenswein, suo segretario particolare.

 

Erano quelle omelie che davano respiro alla teologia, e non la teologia alle omelie. La logica era completamente rovesciata, eppure funzionava, in maniera straordinariamente lineare, e non perché Benedetto XVI fosse un genio (e lo era), ma perché credeva la Chiesa.

 

Siamo stati noi giornalisti in grado di vedere tutto questo? No, e infatti dopo Benedetto XVI siamo tornati alle nostre confortevoli categorie, andando a leggere il conclave secondo le vecchie ed aduse categorie di conservatori, progressisti, blocchi di voti, eccetera eccetera. Anche queste, cose molto umane, eppure più disincarnate dell’incarnazione, secondarie rispetto al messaggio di Benedetto XVI, il quale ci aveva invece voluto dire che tutto questo è in fondo mondanità.

 

Ma noi abbiamo pensato che i simboli fossero mondanità, e le cose umane fossero invece non mondanità, e abbiamo trascurato l’idea che i simboli sono linguaggi e sono mondani solo nella misura in cui noi ne perdiamo il significato, mentre le cose umane sono mondane anche quando sono semplici, perché non hanno altro significato della loro umanità.

 

Siamo stati in grado di comprendere che Benedetto XVI ci stava traghettando in una nuova epoca? No, perché abbiamo pensato che in fondo niente cambiasse con la rinuncia di un Papa, e che questa rinuncia non ci interrogasse personalmente. E invece quella rinuncia voleva dispiegare ad un mondo nuovo, un mondo in cui i segni del potere diventassero segni del servizio, un mondo in cui la Chiesa avrebbe dovuto riflettere su se stessa. C’era il rischio di distruggere tutto per ricostruire sul niente, e il rischio veniva dalle grandi sfide del tempo.

 

Era una sfida per noi comunicatori. La grande domande del sociologo Marshall McLuhan riguarda proprio il cosiddetto “uomo elettrico”. Come potrà la Chiesa parlare di incarnazione di fronte a un mondo disincarnato?

 

La risposta di Benedetto XVI era quella di incarnarsi ancora di più nella storia, di comprendere la vera e concreta vita di Gesù di Nazareth (da qui la trilogia) andando oltre le sovrastrutture di pensiero, di vedere gli uomini per quello che sono e di invitarli ad elevarsi verso il cielo. Una risposta alta, indubbiamente, ma una risposta che si radicava nella natura stessa dell’uomo figlio di Dio.

 

La risposta del mondo, invece, è quella di legarsi alle sovrastrutture. Facciamo riunioni sui nuovi linguaggi, su come parlare al mondo di oggi, su come essere più efficaci, e non ci rendiamo conto che la risposta cristiana viene prima di ogni cosa. Parliamo di mandati per riformare le strutture e vagamente di conversione pastorale e di sinodalità, senza ricordare la concretezza della nostra vita.

 

E così, il concreto gesto della chiusura di una porta ci racconta come abbiamo chiuso lo sguardo su un mondo vecchio, che era poi la nostra storia, e lo abbiamo quasi disconosciuto, guardando avanti verso un futuro che ancora non comprendiamo ma che, incredibilmente, a volte ha i tratti di dibattiti passati e superati. Siamo così prigionieri della nostra umanità da non riuscire ad uscire dalle nostre epoche.

 

E invece Benedetto XVI, rinunciando al pontificato, ci ha voluto dire che sì, si poteva uscire da questa epoca, si poteva guardare avanti, e lo si poteva fare demondanizzandosi. L’uomo vive per Dio e nello sguardo verso Dio. E infatti, le ultime parole di Benedetto XVI sono state: “Dio, ti amo”.

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