Forse il problema non sono i giornalisti, o la comunicazione in generale. Ma di certo i giornalisti sono parte del problema. Se dopo nove anni di pontificato, la comunicazione sulla Santa Sede e sul Papa appare essere sempre più polarizzata e sempre meno bilanciata, il problema può, deve essere nel fattore umano, nel modo in cui la professione viene interpretata oggi.
Nove anni dopo l’elezione di Papa Francesco, vale la pena dunque chiedersi cosa sia successo all’informazione vaticana, e in particolare sul Papa. È andata in una direzione prevista? È cambiata radicalmente?
Ci sono vari fattori che possono aiutare a comprendere.
Prima di tutto, Papa Francesco conosce
il potere delle immagini e dei gesti simbolici. E li usa. Lo ha fatto sin
dall’inizio del pontificato, quando andò a pagare alla residenza di via della
Scrofa dove era stato prima delle Congregazioni generali. Ma non fu un gesto
privato. Padre Federico Lombardi, allora
direttore della Sala Stampa della Santa Sede, sottolineò che il Papa lo aveva
fatto per “dare il buon esempio”.
Ci fu poi la narrativa della croce d’argento usata al posto
della croce d’oro, cui facevano da corollario anche narrative più pittoresche,
ma probabilmente meno reali, come la risposta stizzita a monsignor Guido Marini quando questi provò a far indossare al Papa
neo-eletto la mozzetta rossa per la sua prima apparizione da pontefice dalla
Loggia delle Benedizioni.
Il fatto è che Papa
Francesco non fa niente perché questa narrativa non si diffonda. Ma la
domanda che viene da farsi è quanto i media volessero questa narrativa. Ricordo
che all’elezione del Papa c’era come una eccitazione nell’aria, come l’idea di
una Chiesa che finalmente entrava in un
mondo nuovo. Come se tutto il mondo vecchio dovesse essere messo da parte,
cancellato, non considerato. C’era bisogno di una nuova immagine di Chiesa,
e questa immagine veniva data dal nuovo Papa.
C’è stato questo peccato originale, che poi ne ha creati
sempre di maggiori. Perché Papa
Francesco è sicuramente Papa più complesso di quello che si diceva all’inizio,
perché Papa Francesco è Papa a modo suo,
e lo fa anche con un piglio legislativo che non ha pari nella storia.
Eppure si continua a parlare di un Papa dei gesti, come tutto fosse rimasto
cristallizzato a nove anni fa.
Non sarà allora colpa dei giornalisti? In parte. Di certo, c’è una comunicazione
istituzionale che rischia di diventare propaganda, anche se poi
difficilmente riesce ad orientare il dibattito. Ma il dibattito reale sul Papa
non c’è, e se c’è, chi dibatte viene diviso subito in buoni e cattivi. Va da sé, i buoni sono quelli che amano il
Papa, i cattivi quelli che lo criticano.
Questo manicheismo comunicativo ha colpito l’informazione
religiosa in maniera profonda in questi nove anni. Ce ne erano segnali già prima, e sappiamo molto bene che i giornali si vendono sulle costruzioni dei
nemici e sulle narrative di contrapposizione. Ma questo non può, né è mai
potuto essere, il giornalismo che si occupa di informazione religiosa e di
vaticano.
Perché il giornalismo
vaticano è un giornalismo che si occupa di storia, non di immagini. Che è
chiamato a mettere le cose in contesto. Che è chiamato a fare analisi, non a
commentare, e soprattutto a commentare in maniera acritica. Eppure,
questo manicheismo è diventato parte integrante del giornalismo religioso,
lo ha come posseduto già dagli anni del Concilio Vaticano II, per poi trovare
nuova forma oggi.
Ecco allora che nove anni di Papa Francesco mi fanno pensare che questo pontificato deve essere
prima di tutto uno stimolo a riconsiderare la professione. A non cercare le
novità, ma a rispondere alle presunte novità con gli argomenti della storia. A
non cadere nella facile narrativa dei gesti per comprendere quella più profonda
delle azioni concrete. A non guardare
solo alle parole che mi possono piacere, quanto a cercare di comprendere ciò
che il Papa dice e che più urta, e comprendere perché urta.
Nove anni di Papa
Francesco mi hanno insegnato che lo scoop, soprattutto per quanto riguarda
il vaticanismo, è spesso qualcosa che abbiamo deciso essere scoop, ma non lo è
realmente. Non ci sono scoop, e non ci dobbiamo illudere. C’è, invece, un mondo
da dipanare a forza di studio.
Nove anni di Papa
Francesco mi hanno insegnato non solo a non guardare alle apparenze, ma a
cercare di non avere bisogno delle apparenze. Si cerca di essere obiettivi,
anche quando questo significa andare controcorrente.
Nove anni di Papa
Francesco mi hanno insegnato che i giornalisti vengono usati solo quando sono
d’accordo con la narrativa, ma che c’è sempre qualcuno che accetta e
promuove un certo tipo di narrativa. I giornalisti sono homines homini lupo, prendono una posizione per mostrare da che
parte stanno, e in questo modo guadagnano consensi, lettori, pubblico.
Si dice che questa sia una scelta onesta. Può essere. Almeno a tutti è chiaro da quale punto di
vista parte il giornalista. Non è onesto, però, che alcuni giornalisti
siano considerati meno affidabili di altri non per la qualità dei loro pezzi,
ma piuttosto per quello che pensano.
Il rischio del reato
di pensiero, nel giornalismo religioso, è dietro l’angolo, e nemmeno troppo
distante. Ci troviamo immersi in un giornalismo che vive di polemiche, e
che porta le polemiche ovunque.
Magari, però, è
necessario fare un respiro, comprendere prima se davvero vale la pena fare una
polemica.
E ripenso a nove anni fa, ripenso all’eccitazione di molti,
che è quella che si ha quando ci si trova di fronte alle cose nuove. E mi
chiedo se davvero ad un giornalista è concesso di essere emozionato, o se, di
fronte a un fatto storico, debba fare
l’esercizio di scomparire per lasciar passare la storia, imparando così ad
evitare le trappole della sovrainterpretazioni. Queste, sì, sempre presenti, non solo con questo Papa.
Ma accentuate in questo pontificato, secondo un principio che è un po’ figlio
di questa epoca, più che del Papa stesso.
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