Cerca nel blog

domenica 21 novembre 2021

Giornalisti e Vaticano, tra le parole di Papa Francesco e la realtà


È passata ormai una settimana da quando Papa Francesco ha insignito dell’Ordine Piano due giornalisti di lungo corso, Phil Pulella e Valentina Alazraki. Sono decani del corpo dei vaticanisti, sono stimati e conosciuti da tutti, hanno entrambi intervistato il Papa, e la Alazraki è stata persino chiamata a tenere una relazione al summit anti-abusi del 2019.

Il discorso di Papa Francesco per l’occasione è stato denso e pieno di spunti interessanti, specialmente perché vengono dal Papa. Nei discorsi papali, si deve a volte guardare al fondo per trovare le cose importanti, e alla fine di quel discorso papale c’era un invito, diretto, netto, a non trattare la Chiesa come organizzazione politica in cui c’è destra e sinistra, né è una multinazionale. Ha concesso, Papa Francesco, che a volte sono gli stessi uomini di Chiesa a dare l’impressione, ma che questa è una tentazione a cui non cedere.

È un monito sacrosanto, che veniva al termine di un discorso scandito, come fa sempre Papa Francesco, da tre verbi (ascoltare, approfondire, raccontare) e da una serie di inviti di assoluto buon senso: da quello di non lasciarsi catturare dalla dittatura del web, ma piuttosto di mettersi in ascolto, diretto e vivo, delle fonti, prendendosi tutto il tempo necessario; a quello di andare oltre la logica della contrapposizione della semplificazione, studiando, ricordandosi che “anche perciò che riguarda l’informazione della Santa Sede, non ogni cosa detta è sempre nuova e rivoluzionaria”; fino a chiedere di mettersi in secondo piano per raccontare la realtà che “è un grande antidoto per tante malattie”.

Tutti stimoli sostanzialmente giusti, cominciati con una captatio benevolentiae del Papa stesso: “Con l’onorificenza data a Valentina e Phil, oggi io voglio in qualche modo rendere omaggio a tutta la vostra comunità di lavoro; per dirvi che il Papa vi vuole bene, vi segue, vi stima, vi considera preziosi”.

Un segno molto bello per la comunità dei corrispondenti vaticani, di certo. Ma che può anche dare adito a qualche pensiero.

Non era mai successo che due giornalisti fossero insigniti del titolo di Cavaliere o Dama dell’Ordine Piano. Questo è la terza onorificenza vaticana. Le prime due onorificenza sono l’Ordine di Cristo, dato ai capi di Stato se cattolici, e lo Speron d’Oro, che fu conferito l’ultima volta all’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. I primi due ordini sono in quiescenza, ma non aboliti, il che significa che si tratta della più alta onorificenza attualmente conferita in Vaticano.

Dato, però, che ogni onorificenza ha il suo linguaggio, resta la domanda del cosa voglia dire Papa Francesco con questa decisione. Vuole premiare un particolare tipo di giornalismo? Vuole indicare una strada agli altri giornalisti?

Quando il giornalista pensa se stesso come parte di una categoria, fa un errore. Il giornalista non è parte di una categoria. Fa un lavoro individuale, che diventa opera collettiva solo quando messo insieme a quello dei suoi colleghi per formare un giornale, di qualunque forma. Ma la firma su un articolo è individuale, il lavoro che viene fatto è individuale, il rapporto con le fonti è individuale.

Nel lavoro con i colleghi, si creano dei rapporti di amicizia, o perlomeno dei particolari rapporti di stima che portano a condividere idee, spunti, piste da seguire. C’è uno spirito di corpo basato sulla comune professione. È quando però si comincia a pensare in termini di categoria che si comincia a diventare acritici.

Durante il secondo processo Vatileaks, si arrivò persino ad esprimere solidarietà ai colleghi che si trovavano a processo senza che nemmeno il processo fosse finito e dunque fosse stato in qualche modo acclarato che le informazioni fossero state raccolte in maniera lecita o meno. Erano giornalisti, andavano difesi, e questo al di là di ogni tipo di reato possa essere definito successivamente. Non c’è bisogno di dire che è un ragionamento che non ha molta logica.

Percepirsi come una categoria non permette così né di formarsi uno spirito critico, né di sentirsi responsabili delle proprie azioni. C’è l’idea che il sistema ti proteggerà sempre, ed è probabilmente questa idea che porta spesso i giornalisti a scrivere in maniera leggera, senza considerare le conseguenze. Non ci sono solo le notizie, c’è anche l’opportunità e il modo di dare le notizie. C’è un modo di approcciarsi ai fatti che vuole rispetto, anche nell’uso delle parole. Perché tutto va ben contestualizzato, per poter davvero fare un servizio alla verità.

Nelle parole del Papa c’è il rischio di raccontare i giornalisti come una categoria, come un corpo in cui ciascuno debba essere rappresentato. Ma sappiamo che non è così. Sappiamo anche che una categoria ha le sue simpatie. C’è chi, pur essendo giornalista, viene tirato fuori dalle categorie semplicemente perché fa un lavoro diverso, fuori dai canoni, quasi non compreso. Chi non è come gli altri, è marginalizzato. Non viene capito o, peggio, non viene considerato. C’è anche questo nel giornalismo, come in tutte le cose. Non va demonizzato, ma va riconosciuto. E racconta, ancora una volta, che sentirsi parte di una categoria non può funzionare fino in fondo.

Ed era una ragionamento che mi veniva di fare quando sentivo il discorso che Valentina Alazraki fece durante il summit anti-abusi del 2019. Un discorso che ebbe grande risalto tra i giornalisti, ma che mi lasciò personalmente con tantissimi dubbi.

Alazraki chiese trasparenza ai vescovi, sottolineò l’angoscia dei giornalisti sul tema degli abusi, affermò che i giornalisti sarebbero stati alleati se ci fosse stata trasparenza, ma nemici se ci sarebbero state coperture, ricordò che i giornalisti avevano deciso da quale parte stare, e si lamentò di quanti sostengono che lo scandalo degli abusi è “colpa della stampa”.

C’è, in queste parole, il principio di sentirsi portavoce di una categoria che ha deciso da che parte stare, e che dunque porterà avanti quella teoria. C’è, in queste parole, l’idea di essere un potere, il cosiddetto “Quarto potere” che è stato celebrato persino da un film di 007.

Ma se il giornalismo è un potere, allora non racconta la realtà, non cerca di comprenderla. Decide quale parte di realtà raccontare, plasma la realtà, la racconta a modo suo. E viene fatto, anche inconsapevolmente, perché la cosa più difficile è fare un passo indietro, avere quella umiltà epistemologica che è fondamentale per ogni giornalista.

È umano, ma va riconosciuto. Il giornalismo non può essere un potere, ma deve essere un servizio. Significa comprendere che ci si trova a fare un filtro tra la realtà e il lettore / spettatore, e che questo comporta una grave responsabilità. Troppe volte, si è entusiasti di una scoperta al punto di farne il centro di una carriera. Troppe volte, si è troppo ostinati per guardare oltre il proprio naso, quello che dice una fonte, quello che si è deciso di vedere.

Nel caso specifico degli abusi, riconoscere che l’informazione sugli abusi si è costituita anche come un attacco alla Chiesa non significa non riconoscere l’orrore e le vittime. Significa anche guardare al perché le informazioni vengono divulgate, al domandarsi perché vengano fuori in certi momenti, al chiedersi se davvero le cose sono andate come hanno detto le vittime. Significa fare un passo indietro per non essere colpevolisti a tutti i costi, ma di essere piuttosto almeno ragionevoli nel comprendere alcune dinamiche.

Mutatis mutandis, è un ragionamento che va applicato a tutte le notizie, perché deve essere un approccio metodologico. Tutti sanno che si parte da un preciso punto di vista, perché tutti ne hanno uno. Ma il giornalista deve essere abbastanza onesto da dichiararlo, quel punto di vista, e anche di essere critico. Il giornalista deve anche sapersi distaccare da quello che fa la categoria. Il giornalista non si deve sentire coperto o protetto da un sistema, che pure a volte è una necessaria garanzia, ma deve sentirsi prima di tutto responsabile per se stesso.

Ecco perché il fatto che il Papa si rivolga ad una comunità di lavoro, e conferisca una onorificenza a due persone per rappresentare una categoria, può rappresentare un atto di indirizzo magari non voluto, ma che omologa, invece di ampliare lo sguardo. Di fatto, in qualche modo il Papa ha fatto una scelta politica, e questa scelta politica rischia quasi di andare ad annullare i sacrosanti moniti fatti nel suo discorso.

Phil Pulella e Valentina Alazraki hanno ricevuto una onorificenza per il loro lavoro di decenni, e tutti i giornalisti devono essere fieri di loro. Ma è la loro onorificenza, è il loro lavoro, e non è un premio per la categoria.

Perché non esiste una categoria. Esistono professionisti che fanno del loro meglio per fare il loro lavoro. C’è la loro firma su ogni pezzo, e ognuno la pensa diversamente. Non c’è, né ci può essere, alcun tipo di omologazione. E questo va detto a scanso di equivoci.

 

Nessun commento:

Posta un commento