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sabato 12 dicembre 2020

Benny Lai e quel vaticanismo signorile che non può passare di moda


C’è un libro di Benny Lai che va letto e riletto per comprendere il modo in cui il decano dei vaticanisti intendeva il modo di fare Vaticano. È “Il mio Vaticano” (Rubbettino), che riprende i diari di Benny Lai, gli appunti che prendeva su un taccuino che aveva sempre sotto mano, e che lo rendeva riconoscibile a monsignori, cardinali, giornalisti.

Rileggendolo in questi giorni, preparandomi a celebrare il settimo anniversario della morte di Benny, mi sono trovato a pensare come quel modo di fare Vaticano non sia fuori moda, come pensano alcuni. Resiste alle prove del tempo. Va oltre il giornalismo usa e getta cui siamo abituati. Va oltre anche il Vaticano, profondamente cambiato nei modi e nei tempi, e mai, forse, così appiattito sul presente, senza la prospettiva del futuro e lo sguardo nel passato.

Soprattutto, guardare al lavoro di Benny Lai sette anni dopo la sua morte fa comprendere quanto il giornalismo diventi inutile nel momento in cui non è più riflessione. Viene naturale confrontare le storie di Benny con il racconto di Marco Ansaldo nel suo ultimo libro “L’altro Papa”, in cui sostiene di aver conosciuto quasi tutti i corvi vaticani, a parte Paolo Gabriele, e che questi addirittura si presentavano così, come una lobby di interesse. Non era niente di nuovo, in fondo Ansaldo già nel 2013 aveva intervistato in forma anonima uno di questi “corvi”, che aveva detto più o meno quelle cose. E proprio in quel 2013, il 12 dicembre, Benny Lai moriva, quasi sorpreso per quel Vaticano che non riconosceva più.

Perché il suo Vaticano era il Vaticano sottovoce, quello dei monsignori che con una caustica frase lasciavano aprire mondi, quello in cui le persone che rimanevano nell’ombra erano le più importanti, fonti preziose da coccolare e comprendere, rapporti umani da curare perché il pezzo venisse giù bello e profondo, senza smagliature.

Così, ad un cardinale che gli dice “Lei deve scrivere in modo più esatto quando scrive di noi”, Benny Lai può rispondere, con garbata sfacciataggine: “Sì, ma conosco tantte cose esatte che non scrivo”.

Nel diario vaticano di Benny Lai, si trovano frasi appuntate che schiudono mondi, e che raccontano di un lavoro non superficiale, e mai banale.

“Quando muore un Papa – scrive – una parentesi si chiude e una se ne apre. Avviene una silenziosa e garbata rivoluzione. Uomini prendono il posto di altri uomini”.

E ancora, il 20 maggio 1954, Benny Lai appunta: “Ieri Papa Pacelli è stato sottoposto a un piccolo intervento. Il dentista gli ha estratto due molari inferiori destri. La notizia ci è venuta da Galeazzi Lisi. Per averne conferma m’è toccato recarmi in qualità di cliente nello studio di Antonio Kruska, l’odontoiatra ungherese del pontefice”.

Era il tempo in cui con le persone si doveva parlare personalmente. Non ci potevano essere maggiordomi infedeli o corvi perché, anche qualora ci fossero stati, poi sarebbe stato il rapporto umano a contare, il vaglio certosino delle fonti. Non c’era reverenza nei confronti del Vaticano. Ma c’era la volontà di scrivere quando si era certi di dare un punto di vista nuovo. Si direbbe oggi che si scriveva solo se c’era la notizia. Ma la notizia non sarebbe notizia come la intendiamo oggi. La notizia era una  storia, un approfondimento, spesso un dettaglio.

Il 2 maggio 1955, Benny Lai si appunta la struttura della Curia Romana come era allora, e viene da sorridere pensando alle pachidermiche dimensioni di oggi.   

“Curia romana: dodici sacre congregazioni, tre tribunali, sei uffici. Le sacre congregazioni sono i ministeri del Vaticano. I tribunali amministrano la giustizia, assolvano dalle scomuniche, annullano o confermano i matrimoni. Gli uffici, tranne la Segreteria di Stato, hanno compiti limitati e particolarissimi. Il prefetto di una congregazione è il ministro. Il segretario ne è il sottosegretario”.Chiosa Benny Lai: “Pochi numeri: una piccola somma per governare il mondo e spiegare l’universo”. 

Il 5 aprile 1957, c’è un dato illuminante anche per leggere le situazioni che accadono oggi. “Sbagliare è facile – si legge- per gli uomini del Vaticano. C’è un regime centrale, è vero, ma ogni funzionario gode di una certa autonomia. Entro determinati limiti può fare e disfare come vuole. Finché non scivoli sulla buccia di banana, non sbagli. Allora cade dall’alto il richiamo, la punizione. Nessuno dice mai, prima, come andava fatta una cosa. È detto sempre dopo”.

Il 13 maggio di quell’anno, Benny Lai si chiedeva: “Chi comanda in Vaticano? Il Papa, quelli che hanno dimestichezza con lui, la Curia? Il Papa ha sempre una sua volontà, ma se gli altri la rispettassero sempre perderebbero la loro”.

Era il periodo in cui si parlava molto della possibile morte di Pio XII e della sua successione. Era il periodo in cui Pio XII aveva avocato a sé quasi tutte le sue decisioni, in cui non c’era nemmeno un segretario di Stato. E così, quando Pio XII effettivamente muore, e si tengono le congregazioni generali pre-conclave, Benny Lai appunta il 21 ottobre 1958: “Nel futuro pontificato, il Papa regnerà, il Segretario di Stato governerà”.

Ma cosa è il Conclave? Benny Lai lo definisce come il momento in “cinquanta e più prigionieri dichiarano un prigioniero a vita”. E come definire i cardinali alla vigilia di un Conclave? “I crocifissi”.

Dettagli? Non proprio. Si diverte, Benny Lai, ad analizzare il mondo vaticano, a comprenderne le sfumature, a impararne i linguaggi. È un diagnosta del linguaggio curiale, di cui soppesa cause e conseguenze. Un attento osservatore delle sfumature. La descrizione fisica della persona, spesso data in due tratti di penna, è parte integrante dell’articolo.

Nel 1960, il giornalista Bergerre presenta a Benny Lai l’ambasciatore presso la Santa Sede di un Paese sudamericano, non si capisce se di relazioni diplomatiche appena aperte o storiche. Ma non è importante. Questo ambasciatore è perplesso, vuole comprendere.

“Proprio non riesco a capirli – dice - Non so, mi sembra di muovermi in un mondo pieno di ombre. Sono tutti cortesi, premurosi, gentili, ma non danno mai una risposta precisa. Come fate a scrivere, a definire le situazioni?”

È a quel punto che “il volto da fauno di Bergerre si stempera in una rassegnata tranquillità”. E lo stesso Bergerre risponde: “Non cerchi di comprenderli. Li prenda così come sono e piano piano noterà le sfumature. Sono le sfumature che contano”.

È un ragionamento valido ancora oggi. Perché questo non è un giornalismo antiquato, non è superato dalla storia. È un giornalismo necessario, e un vaticanismo ancora più necessario. A cambiare, però, è stato forse il Vaticano.

Benny Lai, poco prima della sua morte, usava ripetere: “Questo non è il mio Vaticano”. Vedeva il linguaggio dei monsignori appiattito, notava che ormai si era quasi persa la dignità di lavorare per la Santa Sede che rendeva ogni officiale vaticano in qualche modo speciale.

Benny Lai non disdegnava il pettegolezzo. Anzi, se ne nutriva. Ma non ne faceva la ragione del suo giornalismo. Era un mezzo per comprendere, per andare a fondo, non un fine.

Parlava con i monsignori in modo quasi provocatorio. Aveva uno scopo preciso quando faceva una domanda, e anche quando ci arrivava da lontano. “Quando entra in una stanza, bussa?” chiese a monsignor Loris Capovilla, allora segretario di Giovanni XXIII, nel tempo in cui voci insistenti dicevano lui volesse tornare a Venezia. Ma bastava una domanda laterale di questo tipo per far comprendere a Capovilla il senso, e fargli decidere come rispondere.

Incredibile a dirsi, ma quello che manca oggi è proprio questo rapporto personale, fatto anche di rispetto reciproco. Manca il tempo, si può obiettare, perché l’informazione è sempre più veloce. Non è del tutto vero. Certo, è più semplice passare dei documenti, copiarli, incollarli e usarli per un pamphlet che non invece andare a guardare nelle pieghe della storia. Il punto è che oggi siamo pieni di vaticanisti, ma non ci sono più vaticanologi. La distinzione è sottile, e fu Benny stesso a metterla in luce, lui, che aveva inventato il termine “vaticanista” e che poi lo aveva rinnegato dopo aver scoperto che era così che Crispi chiamava i dipendenti laici vaticani.

Perché il giornalista che si occupa di Vaticano non lavora per il Vaticano, è una persona che studia il vaticano. Vaticanologo appunto. Ma tra un vaticanista fedele anche nel male, e un giornalista senza scrupoli, in questo nuovo mondo la preferenza viene spesso data al secondo. Con buona pace di chi, invece, continua a seguire la strada tracciata da Benny Lai. Gli scandali più recenti, in fondo, sono passati tutti per i giornalisti della cronaca giudiziaria, mai dai vaticanisti.

C’è, ed è vero, un certo giro di notizie, da cui tutti si cibano. I diari di Benny Lai, invece, raccontano che ognuno aveva il suo giro di notizie. I vaticanisti si parlavano tra loro, collaboravano anche, ma non erano mai totalmente schiavi delle loro fonti, e le fonti non potevano giocare troppo: si sarebbe saputo. Tutti avevano voglia di fare carriera, ma la volevano fare attraverso una competizione onesta. C’erano anche diverbi spettacolari. Ma erano signorili, profondi, approfonditi. Rispecchiavano, in fondo quello che era il Vaticano.

Il 3 febbraio 1960, Benny Lai appuntava: “É trascorso un mese dall’annunzio del senatore cattolico Kennedy di puntare alla presidenza degli Stati Uniti e in Vaticano si ignora la notizia. ‘Sarebbe una pazzia commentare – dice il canonico Morioni – non abbiamo scordato che una trentina di anni fa l’opposizione dei protestanti fece fallire l’ascesa del cattolico Alfred Smith alla Casa Bianca”.

Era un Vaticano che aveva un senso della storia, pignolo fino al dettaglio nel difendere la dignità della Chiesa e del cattolicesimo. Oggi, invece, c’è quasi l’idea che la storia sia un qui ed ora, che si debba reagire a tutto per non rimanere indietro. È un Vaticano che sembra seguire l’agenda del mondo, sebbene poi ci sia un Vaticano nascosto che lavora e che crede nella storia e nell’importanza di quello che si fa.

No, decisamente non sembra più essere il Vaticano di Benny Lai. Eppure, sette anni dopo la sua morte, si può dire che quel Vaticano c’è ancora. È più difficile da vedere, ma c’è. Non è che tutto sia stato distrutto. Ma forse mancano gli araldi in grado di raccontare davvero questo “Vaticano nascosto”, per dargli nuova luce.

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