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lunedì 2 settembre 2024

Il Vaticanista alle prese con la crisi del diritto canonico

Il 7 novembre 2023, sono stato invitato a parlare in un panel di discussione del convegno “I 40 anni del Codex Iuris Canonici”. Il convegno è stato organizzato dall’Università di Bologna, e aveva un parterre di eccezione (qui una mia cronaca dell’evento), cui io ho portato solo un piccolo contributo in una discussione, parlando dalla mia prospettiva di vaticanista.

Gli atti di quel convegno sono stati ora pubblicati, a cura di Alberto Tomer, da Mucchi Editore nella collana “Un’anima per il diritto: andare più in alto” diretta dalla professoressa Geraldina Boni. Il libro non è solo disponibile in versione cartacea, ma anche in open access a questo link:

https://mucchieditore.it/wp-content/uploads/Open-Access/Tomer-Codex-Iuris-Canonici-DEF-OA.pdf

 

Riporto invece qui di seguito il mio testo, senza note per rendere più agevole la lettura.

 

 

C’è da fare una premessa: i giornalisti accreditati presso la Sala Stampa della Santa Sede non erano assolutamente preparati all’eventualità di una rinuncia di Benedetto XVI, l’11 febbraio 2013. Si conoscevano alcuni casi scuola di rinuncia papale, che però erano confinati al medioevo, e genericamente si conosceva il caso di Celestino V, se non altro perché Benedetto XVI, in visita all’Aquila il 28 aprile 2009, aveva voluto porre il suo pallio proprio sulla tomba di Pietro da Morrone.

 

C’è da fare una ulteriore premessa: i giornalisti accreditati presso la Sala Stampa della Santa Sede non sono generalmente preparati sui temi del diritto canonico. Di fronte alla straordinaria ed eccezionale (nel senso che è composta da molte eccezioni) attività normativa di Papa Francesco, il giornalista accreditato presso la Sala Stampa della Santa Sede si trova spesso spiazzato. È difficile definire quali siano le novità e quali siano invece gli elementi di continuità rispetto alla normativa precedente.

 

È ancora più difficile trovare un modo di decifrare le decisioni, perché ci si trova di fronte ad un fatto ancora più eccezionale: un Papa come Francesco, ovvero il primo Papa latinoamericano e il primo Papa gesuita della storia, che dunque porta un linguaggio suo, personale, frutto della sua storia personale, che nessuno è abituato a comprendere.

 

Fatte queste due premesse, abbiamo bisogno anche di un criterio metodologico per definire chi sia il giornalista accreditato presso la Sala Stampa della Santa Sede. Si tratta di un giornalista che ha l’accreditamento per seguire tutti gli eventi vaticani, riceve il bollettino della Sala Stampa della Santa Sede, è quotidianamente informato delle attività del Papa e può partecipare a queste attività qualora vi sia prevista la presenza della stampa.

 

I giornalisti accreditati presso la Sala Stampa della Santa Sede vengono spesso chiamati ‘vaticanisti’, ma è una generalizzazione. Non tutti i giornalisti accreditati sono vaticanisti nel senso stretto del termine, perché non tutti si occupano solo di Vaticano e informazione religiosa. Molti accreditati sono i corrispondenti esteri delle grandi testate internazionali, che inseriscono il Vaticano e il Papa in un bouquet di interessi che, quando va bene, include la sola Italia e quando va male copre tutto il Mediterraneo.

 

Essere vaticanista, invece, significa avere una formazione specifica sui temi dell’informazione vaticana, occuparsene in maniera pressoché esclusiva, con una specializzazione altissima che si è stabilita solo a partire dal Concilio Vaticano II.

 

Prima, c’erano giornalisti accreditati presso la Sala Stampa dell’osservatore romano. Con la promulgazione del Concilio Vaticano II, tutti i grandi giornali italiani e alcuni stranieri avevano stabilito un corrispondente che si occupasse solo di Chiesa e dintorni, seguendo giorno per giorno il dibattito dell’assise. Quindi, dopo il Concilio, questo tipo di specializzazione è rimasta, e si è sviluppata in forme diverse.

 

Per sgombrare il campo da ogni possibile fraintendimento, nemmeno i vaticanisti in senso più stretto erano davvero preparati ai fatti eccezionali che hanno fatto seguito all’11 febbraio 2013, che è una data davvero spartiacque nella storia della Chiesa. In questo intervento, partirò da quella data per raccontare il modo in cui si è evoluta la professione del giornalista vaticanista; proseguirò definendo alcuni parametri per cercare di ‘coprire’ (come si dice in gergo) al meglio l’attività normativa di Papa Francesco; guarderò alle possibili difficoltà e opportunità dell’attività normativa in un tempo di Chiesa sinodale.

 

Lo spartiacque della rinuncia di Benedetto XVI

 

Non c’era un libro come Papa, non più Papa. La rinuncia pontificia nella storia del diritto canonico (di Mario Prignano e Amedeo Feniello) quando Benedetto XVI lesse la declaratio con cui annunciava che avrebbe rinunciato al pontificato.

 

Sarebbe stato uno strumento di lettura utile per capire. Nel momento dell’annuncio della rinuncia, nessuno sapeva in quali termini Benedetto XVI avrebbe continuato la sua vita terrena.

 

Si sapeva che Pio XII, di fronte alla possibilità di essere rapito dai nazisti, redasse un atto di rinuncia, dicendo che se mai i nazisti fossero entrati in Vaticano non vi avrebbero trovato Papa Pio XII, ma il Cardinale Pacelli.

 

Si sapeva anche che, nelle rinunce precedenti della storia, non sempre le cose erano state chiare.

 

Pietro di Morrone fu praticamente imprigionato, altri addirittura erano tornati alle loro precedenti occupazioni, altri scomunicati. Tutte queste informazioni, comunque, rimanevano vaghe, e un libro come quello di Feniello e Prignano avrebbe aiutato perlomeno a dare un profilo storico.

 

La stessa Sala Stampa della Santa Sede non poteva sapere come Benedetto XVI avrebbe deciso di continuare la sua vita terrena. Nel tempo, furono delineati i dettagli. Benedetto XVI aveva chiesto da tempo di ristrutturare il monastero Mater Ecclesiae, dove sarebbe andato a vivere, rimanendo nel recinto di Pietro, perché, come ebbe a dire, «non torno ad una vita di conferenze».

 

Benedetto XVI aveva deciso di continuare a portare l’abito bianco, ma senza la pellegrina che è segno del potere effettivamente esercitato dal Papa, e di prendere il titolo di ‘Papa emerito’.

 

Non furono date effettive spiegazioni della scelta, e dunque il dibattito era aperto. Era, Benedetto XVI, da considerarsi alla stregua di un Vescovo emerito, e dunque un Vescovo che manteneva il titolo ma non la giurisdizione? In quel caso, però, il titolo esatto avrebbe dovuto essere ‘Vescovo di Roma emerito’. Era, Benedetto XVI, ancora Papa in virtù di una elezione e un mandato che si crede arrivato direttamente dallo Spirito Santo? Se sì, allora la rinuncia non poteva andare a toccare nemmeno la titolarità del titolo, creando però la possibilità che ci fossero più Papi in carica, in una situazione particolarmente difficile per la Chiesa.

 

Prese le prime scelte, Benedetto XVI decise di non strutturare in maniera precisa la sua posizione e il suo ruolo dopo la rinuncia. C’era presumibilmente un motivo di buon senso: voleva che il successore potesse decidere liberamente in che modo definire, se c’era da definire, la presenza del Papa emerito, e magari se legiferare su casi successivi che sarebbero potuti accadere.

 

Sappiamo, ad oggi, che tutto questo non è successo. Anzi, la situazione di incertezza ha creato anche una certa confusione. Papa Francesco, sin dall’intervista al Corriere della sera del 2014, sottolineò che «il Papa emerito non è una statua: partecipa alla vita della Chiesa».

 

Lo stesso Papa Francesco aveva invitato Benedetto XVI a presenziare all’inaugurazione di una statua di San Michele nei Giardini Vaticani, all’apertura della Porta Santa all’inaugurazione dell’Anno Santo della Divina Misericordia nel 2015, alla canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II nel 2014, a tutti i Concistori per la creazione di nuovi Cardinali convocati. Quando la salute di Benedetto XVI non ha permesso più al Papa emerito di muoversi e di presentarsi in pubblico, Papa Francesco ha deciso che i Cardinali appena creati, al termine di ogni Concistoro e prima delle visite di calore, facessero visita al Papa emerito nel monastero Mater Ecclesiae, e così è stato fino alla morte di Benedetto XVI il 31 dicembre 2022. Poi, il 31 dicembre 2022, ci siamo trovati di fronte al dilemma del funerale del Papa emerito.

 

Ogni cosa, in Vaticano, ha un senso, e dunque quale sarebbe stato il modo in cui si sarebbe strutturato il funerale di Benedetto XVI? In fondo, il funerale è il secondo tempo di un rito che era cominciato con l’apertura della sede vacante il 28 febbraio 2013.

 

Sappiamo che la morte di un Papa, infatti, è strutturata da una serie di riti molto ben cadenzati: dalla certificazione della morte del Papa alla rottura dell’anello del pescatore, dalla esposizione del corpo alla celebrazione dei funerali.

 

Ma cosa fare nel caso della morte del Papa emerito? Era una domanda aperta, perché mai nella storia un Papa che aveva rinunciato al pontificato era rimasto così a lungo in vita e mai, soprattutto, aveva preso il titolo di Papa emerito.

 

Il Papa rinunciatario ritornava semplicemente alla condizione che aveva prima di essere eletto Papa, perché con la rinuncia il Papa si considerava morente, e dunque cessavano anche le cariche.

 

Questa analogia con la morte era giustificata anche dal rituale per certificare la morte del Papa: il Camerlengo, con un martelletto, batteva tre volte sul corpo del Papa defunto, chiamandolo, però, non con il nome di Papa, ma con il nome di battesimo.

 

Il martelletto era previsto almeno formalmente fino a San Giovanni XXIII, anche se l’ultima cronaca certa del suo uso e dell’antico rituale risale alla morte del Beato Pio IX ad opera del Camerlengo Pecci.

 

Dopo aver battuto il martello, il Papa veniva chiamato con il nome di battesimo, ad esempio, nel caso di Pio IX: «Iohannis Maria, dormis tu?» (‘Giovanni Maria, dormi?’). Alla terza volta, la certificazione finale con le parole: «Vere Papa mortuus est» (‘Davvero il Papa è morto’).

 

C’era l’idea che l’ufficio del Papa emerito potesse essere considerato nella tradizione degli uffici della prelatura romana. In quei collegi una volta rinunciato all’esercizio dell’autorità del collegio, come l’autorità giudiziaria e amministrativa, se ne conservavano l’aggregazione e i privilegi, pur non esercitando più la giurisdizione. Lo stesso si poteva considerare per il Papa emerito, che non esercita più autorità, ma conserva aggregazione e privilegi, e dunque anche la tonaca bianca.

 

Il funerale doveva comunque essere celebrato con le caratteristiche riservate al Papa regnante: la bara, l’inserimento nella bara del rogito che indica le gesta del papato, delle monete per il suo papato e delle medaglie del pontificato.

 

Il Papa sarebbe stato sepolto come un Papa, cioè nelle Grotte Vaticane. Mancavano, però, tutte le questioni relative alla sede vacante. La Segreteria di Stato non era decaduta dall’incarico, e dunque dovrebbe spettare alla Segreteria di Stato dare l’annuncio della morte del Papa emerito, probabilmente facendo uso della Sala Stampa della Santa Sede, che è il mezzo delle comunicazioni ufficiali.

 

In caso di morte del Papa, infatti, l’annuncio della morte deve essere dato dal Cardinale vicario della diocesi di Roma, anche se nel caso di Giovanni Paolo II, il 2 aprile 2005, fu l’allora sostituto della Segreteria di Stato, Leonardo Sandri (oggi Cardinale) a dare l’annuncio.

 

Di conseguenza, le condoglianze dovevano essere indirizzate al Papa regnante per mezzo della Segreteria di Stato perché la Segreteria di Stato decade alla morte del Pontefice regnante, ma non era quello il caso.

 

La Segreteria di Stato è oggi concepita erroneamente come Segreteria papale, ma si dimentica che nel 1973 ha assorbito i compiti della Cancelleria Apostolica, organo deputato per secoli alla corrispondenza pubblica dei dicasteri della Santa Sede, come ad esempio le bolle di nomina dei Vescovi. In effetti, la corrispondenza del Papa emerito era gestita anche dalla Segreteria di Stato, in collaborazione con lo stretto entourage di Benedetto XVI, ovvero il segretario particolare, l’Arcivescovo Georg Gänswein, e quella che potremmo chiamare la ‘famiglia emeritale pontificia’, ovvero le quattro Memores Domini che hanno sempre assistito Benedetto XVI.

 

Per Benedetto XVI, però, si decise di soprassedere dai novendiali, cioè i riti in suffragio del Papa defunto che si tengono per nove giorni a partire dal funerale. Il Papa emerito fu spostato dal monastero Mater Ecclesiae alla basilica di San Pietro su un furgone, al buio della prima mattina, per l’esposizione del corpo, come succede ai Papi, ma non fu dato alcun giorno di permesso il giorno del suo funerale. La bara arrivò prima dell’inizio della celebrazione sul sagrato, e Papa Francesco non scese nemmeno nelle Grotte Vaticane per i riti della commendatio e valedictio.

 

Dettagli? Non proprio. Tutto questo permette al vaticanista di raccontare qualcosa del Vaticano, e anche di raccontare in che modo sia stata percepita la presenza del Papa emerito all’interno del mondo vaticano.

 

La verità è che si entra in un mondo in cui ogni cosa ha un senso, e dunque ogni dettaglio è importante. Anche quando questo dettaglio è una omissione. Perché le omissioni raccontano qualcosa allo stesso modo delle innovazioni, fino a poter essere considerate dichiarazioni politiche.

 

Nel momento in cui scriviamo, sappiamo che Papa Francesco vuole cambiare il rito dei funerali del Papa e vuole eliminare il momento dell’esposizione del corpo. Già decidere su un tema strutturato in millenni ha un significato profondo, un senso di rottura e di discontinuità. Decidere di togliere, poi, una parte del rituale che era fatto principalmente per i fedeli, ovvero l’esposizione del corpo, mostra che senso si vuole dare al pontificato. Insomma, niente è davvero un dettaglio, quando si parla della Santa Sede, del Vaticano, delle decisioni del Papa.

 

Allora come si possono rendere questi dettagli in forma semplice, appetibile per il grande pubblico e in maniera precisa? La risposta è semplice: non si può. Non si possono semplificare millenni di storia e stratificazione dei simboli senza il rischio di banalizzare tutto.

 

Ci sono delle cose che vanno scritte nel modo complesso in cui sono, senza semplificazioni, senza cercare di rendere tutto più potabile per un pubblico genericamente non interessato. Scrivere di Vaticano significa anche accettare il rischio di essere oscuri, e allo stesso tempo superare la possibilità di non essere compresi attraverso la storia, il contesto, la capacità di analisi e di critica e, non ultima, l’abilità nella scrittura.

 

Mancava un libro come Papa, non più papa, nel momento della rinuncia di Benedetto XVI. Mancava, tuttavia, anche l’attitudine storica, documentale che rendeva necessaria una pubblicazione di quel genere di fronte ad un evento storico come quello che si è verificato l’11 febbraio 2013.

 

È questa mancata attitudine, unita all’eccezionalità della situazione e all’urgenza di riportare notizie, che ha creato il grande disguido che ha fatto seguito alla rinuncia di Benedetto XVI. Ma il cronista deve anche ammettere che tutto ciò che è conseguito alla rinuncia di Benedetto XVI è dovuto anche alla confusione giuridica.

 

Perché non solo non si sapeva in che modo definire il Papa emerito, ma non c’è stata alcuna legislazione che ne definisse i confini e il ruolo. Il Papa emerito c’era, e non si poteva negare che ci fosse. L’ambiguità della sua posizione ha creato una polarizzazione che poteva essere evitata.

 

Alcuni – come il teologo Andrea Grillo – sono arrivati a parlare di una possibile ‘morte istituzionale’ del Papa emerito perché ogni volta che un suo scritto veniva diffuso creava confusione. Altri hanno lamentato che il Papa emerito avrebbe dovuto rimanere confinato nel monastero Mater Ecclesiae.

 

La realtà è che il Papa emerito si è mosso secondo quello che gli è stato consentito da Papa Francesco. Nessun suo intervento non era stato comunicato prima, nessuno scritto è stato diffuso in maniera leggera, e quando è successo si è trattato più di un disguido che di una reale volontà di diffondere opinioni e punti di vista diversi.

 

L’Arcivescovo Georg Gänswein, storico segretario di Benedetto XVI, era arrivato a parlare di ‘pontificato attivo e pontificato contemplativo’ per definire l’insolita coabitazione. Anche in quel caso, si trattava di saper leggere tra le righe, di comprendere che quella affermazione non intendeva certo diminuire il ruolo del Pontefice regnante, ma piuttosto di esaltare la forma contemplativa che Benedetto XVI stava sperimentando da Papa emerito.

 

Come riuscire a raccontare tutto questo, a delineare il dibattito senza essere partigiani e senza indulgere in polarizzazioni? Come poter rendere l’essere Chiesa senza diventare schiavi della antica logica dell’antagonismo? È la domanda aperta per il giornalista che si occupa di informazione vaticana. Chi fa informazione vaticana è prima di tutto tenuto a quella che chiamo ‘umiltà epistemologica’, vale a dire l’umiltà di approcciarsi alle situazioni mettendo da parte i propri legittimi pregiudizi personali. Per avere questa umiltà epistemologica, c’è bisogno prima di tutto di comprendere la Chiesa e il linguaggio della Chiesa. E per comprendere il linguaggio della Chiesa, c’è bisogno di comprendere il diritto canonico.

 

Come la Chiesa fa le leggi

 

In questo ci aiuta il secondo volume di cui discutiamo in questa sede, La sinodalità nell’attività normativa della Chiesa. Il contributo della scienza canonistica alla formazione di proposte di legge.

 

Il volume raccoglie gli atti di un Convegno che si è tenuto a Torino dal 3 al 5 ottobre 2022, con l’idea di discutere sul futuro del diritto canonico in una Chiesa cosiddetta sinodale. Una Chiesa, insomma, in cui tutto viene messo in discussione, e in cui dunque anche il diritto canonico ha bisogno di rinnovarsi, di guardare oltre, di comprendersi in maniera differente.

 

Questa ricomprensione è necessaria anche nell’ambito del pontificato di Papa Francesco. Se, infatti, Papa Francesco non ha mai legiferato sulla posizione del Papa emerito durante i quasi dieci anni di coabitazione, d’altro canto ha prodotto un eccezionale volume di riforme a colpi di Motu proprio o Rescritti, evitando una base normativa progettuale che potrebbe rendere tutto più solido, di più ampio respiro.

 

Non è un caso che, allora, di fronte agli enigmi sul papato emerito, si è costituito proprio all’Università di Bologna un gruppo di ricerca internazionale per una proposta di legge sulla sede impedita e la sede vacante. Si tratta, alla fine, di una riforma necessaria in tempi moderni. Oggi, infatti, un Papa può rimanere vivo anche in condizioni sanitarie di totale incapacità, rendendo così difficile stabilire la fine di un pontificato in caso di impedimento senza che ci sia una legislazione certa.

 

Ebbene, la parte finale del volume presenta proprio una serie di proposte che mettono in luce problematiche di vario genere.

 

Per esempio, il nome da attribuire al Papa rinunciatario: il nome di Papa emerito auto-attribuitosi da Benedetto XVI non è mai stato pienamente accettato, ma anche quello di Vescovo di Roma emerito che Papa Francesco ha detto di preferire in caso di rinuncia presenta alcune problematiche.

 

Come detto, non sono dettagli. Sono piuttosto sostanza. Questo dibattito ha il pregio di aprire una discussione sul senso stesso del papato, sul suo ruolo storico, sul modo in cui il papato stesso va compreso.

 

C’è, in effetti, un papato prima della rinuncia di Benedetto XVI e dopo la rinuncia di Benedetto XVI. E c’è, in effetti, un papato prima di Papa Francesco e dopo di Papa Francesco. Anche in questo caso, il giornalista che si occupa di Vaticano non può semplicemente raccontare quello che vede o sente.

 

Non può fare da megafono al dibattito senza comprendere il dibattito stesso. È necessario che studi, approfondisca, comprenda quello che è in gioco, e che poi sia in grado di darlo al lettore nella maniera più chiara possibile.

 

Come sottolineava il Cardinale Carlo Maria Martini, in fondo, il giornalista deve essere un mediatore tra la realtà e il lettore, deve essere in grado di mostrare al lettore anche la realtà nascosta e complessa. Nel caso del giornalismo vaticano, questo lavoro di mediatore è ancora più complesso, perché presuppone la necessità di mantenere un linguaggio altamente preciso, eppure di nicchia, lontano dalla comprensione tipica del lettore. Si deve, insomma, educare il lettore, accompagnarlo passo dopo passo, sapendo che in alcuni casi le descrizioni non saranno di immediata comprensione.

 

Il Codice di Diritto Canonico

 

Ricordiamo in questa occasione il quarantesimo anniversario della promulgazione del Codice di Diritto Canonico. Il Codice è lo strumento che può dare un equilibrio alla lettura della Chiesa e delle sue forme, anche eccezionali.

 

Abbiamo visto come il vuoto normativo ha creato delle incomprensioni e persino delle polarizzazioni. Abbiamo potuto osservare come il lavoro del giornalista sia stato reso più complicato da queste polarizzazioni, perlomeno se si tratta di un giornalista non scandalistico, ma di un giornalista mosso dalla genuina voglia di approfondire.

 

La conclusione dei vari relatori al Convegno sulla Sinodalità nell’attività normativa della Chiesa è quella che c’è bisogno di un equilibrio nell’approcciarsi al diritto canonico. Il limite resta proprio nel modo in cui si comprende il diritto canonico, che va riformato non tanto nella sostanza, quanto nella forma e nella sua caratteristica di immutabilità. Un passaggio forse necessario per andare incontro alle esigenze della odierna ‘società liquida’, senza tuttavia snaturare il senso stesso del diritto canonico.

 

L’idea è quella di scrollare di dosso la polvere al diritto canonico, portandolo ad occuparsi in maniera più attiva e viva della vita, di fronte al fantasma decisivo che si vive oggi in una società secolarizzata, in cui la religione non è parte della cultura attiva, ma resta semplicemente una eredità vaga. È ancora più difficile, oggi, includere questa possibile vitalità in un percorso sinodale, specialmente di fronte alle ultime attività legislative di Papa Francesco.

 

Il Papa non ha definito la posizione del Papa emerito, ma in tutti gli altri casi ha deciso, centralizzato, a volte by-passando le consultazioni e gli studi che avrebbero magari potuto evitare alcuni errori o imprecisioni giuridiche.

 

Il vaticanista, di fronte a questa situazione, può solo osservare, tenendo sempre ben presente l’importanza di preservare l’istituzione della Chiesa.

 

In fondo, a questo serve il diritto: a dare una cornice equilibrata in cui tutti possano godere di parità di trattamento. E a comprendere in che modo riformarsi, per affrontare le nuove situazioni. Nella crisi del diritto canonico, mentre ci troviamo di fronte alla necessità di definire un papato emerito, il giornalista deve cercare di guardare alle cose in prospettiva.

 

Ci sono, certamente, dei profili critici che impattano sul mondo attuale. Ma c’è anche la necessità di guardare al futuro della Chiesa. Una Chiesa dove il papato emerito, o come si chiamerà, potrebbe essere sempre più diffuso. E dove sarà necessario, allora, trovare forme che permettano la rinuncia e la sede impedita senza però cancellare il senso stesso del papato. Riforma, in fondo, non significa rivoluzione.

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