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sabato 13 marzo 2021

Papa Francesco, come è cambiata l’informazione religiosa otto anni dopo?


L’elezione di un Papa è sempre
, e per forza, un cambiamento di epoca. Un nuovo Papa, per i giornalisti che si occupano di informazione religiosa e in particolare di Vaticano, significa una nuova rete di contatti, un nuovo modo di interpretare le situazioni, un nuovo linguaggio da decifrare. Con l’elezione di Papa Francesco, otto anni fa, a tutto questo si aggiungeva una difficoltà ulteriore: il Papa che veniva “dalla fine del mondo”, come lui stesso ebbe a dire, non aveva nemmeno intenzione di utilizzare il linguaggio che si era da sempre utilizzato in Vaticano. Aveva altri criteri, altri linguaggi, altri modi di vedere.

Tutto, nella informazione religiosa degli ultimi otto anni, si è giocato in fondo su questo equivoco. Abbiamo continuato ad usare paradigmi vecchi per raccontare quello che c’era, senza considerare il reale linguaggio di chi c’era. Ed è stato un errore che probabilmente hanno fatto tutti. Spesso non per dolo, ma semplicemente perché non si vedeva la possibilità di fare altrimenti.

L’informazione religiosa è stata per anni condizionata dal dualismo tra “Concilio reale” e “Concilio dei media”, secondo la felice espressione di Benedetto XVI nell’ultimo incontro con il clero romano prima della rinuncia. Questo dualismo ha creato due fronti contrapposti, due ideologie che sono diventate ideologie narrative, e che sono state nutrite anche all’interno di movimenti cattolici, organismi parrocchiali - insomma in tutti quei posti di formazione da cui poi i media hanno attinto per trovare giornalisti capaci di raccontare la religione e in particolare il Vaticano.

Non viene niente di buono dall’ideologia previa, e nemmeno dal dualismo. Si crea una polarizzazione, e questa polarizzazione crea gruppi di interesse frammentati e particolari. Frammentati, perché composti da poche persone, e spesso divise tra loro. Particolari, perché hanno interessi particolari: alcuni pensano solo al problema liturgico, altri solo a quello sociale e via dicendo.

Sono gruppi, però, che si sono formati in Vaticano. Ne conoscono i linguaggi. Ne utilizzano le chiavi di lettura. È da questo dibattito che nasce la candidatura di Jorge Mario Bergoglio a Papa. Una candidatura che nasceva in un linguaggio preciso, e che di quel linguaggio si nutriva.

Di Bergoglio, si sapeva che era arrivato secondo al Conclave (non si sarebbe dovuto sapere, ma si è saputo attraverso la pubblicazione dei ‘Diari’ del conclave di uno dei porporati in Sistina). Di Bergoglio, si era cominciato a parlare già nei primi Anni Duemila, e infatti si trova ancora in rete uno dei primissimi profili fatto da Sandro Magister, che aveva subito fiutato la situazione (se non ci credete, cliccate qui). Bergoglio doveva rappresentare, in qualche modo, quel cambio di passo che non si era avuto con Benedetto XVI. Era un tornare indietro per guardare avanti, nelle intenzioni dei porporati che da più tempo erano invischiati nelle cose di Curia.

Da qui, viene anche la necessità di creare intorno a Bergoglio un cambio di narrativa, come spiegarono quattro cardinali americani al Wall Street Journal poco dopo l’elezione (l’articolo si può trovare qui). E il cambio di narrativa doveva marcare una discontinuità forte.

Questo cambio di narrativa era favorito dal fatto che i media cercano notizie e si cibano di novità. Tutto quello che fa un nuovo Papa viene enfatizzato, ogni gesto viene ponderato ed esaltato. Di Papa Francesco si fece subito vedere che pagava personalmente la residenza di via della Scrofa dove era stato prima del Conclave, mentre lui stesso mostrò il suo lato pietista, tipicamente latino americano, chiedendo al popolo di benedirlo prima di dare la benedizione, andando poi subito a Santa Maria Maggiore il giorno successivo all’elezione e infine celebrando Messa nella parrocchia di Sant’Anna in Vaticano la domenica dopo l’elezione.

Il Papa latino americano portava nella Chiesa il vento nuovo della Chiesa dell’America Latina che voleva un vescovo presente in mezzo al popolo, che fosse vicino al popolo, e che nutrisse il popolo della sua vicinanza. Un po’ come Juan Domingo Peron, che togliendosi la camicia davanti ai descamisados si dimostrava uno di loro, ma così facendo dimostrava anche di abbassarsi al loro livello, quindi di essere comunque un capo. In fondo, ogni popolo ha la sua storia, i suoi linguaggi, i suoi modi di essere.

Eppure, tutto questo non poteva nemmeno essere raccontato. Quando lo studioso di populismo sudamericano Loris Zanatta parlò di “Papa populista”, fu subito attaccato come se avesse offeso il Papa. Era il 2016. Nel frattempo, Papa Francesco ha portato avanti il suo lavoro esattamente usando i criteri, i linguaggi e i pensieri che gli vengono dalla sua storia, che è rimasta intatta. È un Papa che non si è fatto toccare da Roma e dal Vaticano, ma piuttosto ha cercato di cambiare Roma e il Vaticano a sua immagine, a partire da quando, sulla Loggia Centrale appena elettto, si presentò al mondo senza la mozzetta, la mezza mantella degli ecclesiastici che copre solo le spalle, di velluto rosso e bordata di ermellino. La stola rossa, invece, la aveva voluta adoperare soltanto per la benedizione alla città di Roma e al mondo, ma poggiandosela sulle spalle e togliendosela da solo, sfilandola, in entrambi i casi, dalle mani del cerimoniere Marini.

Gesti, questi, che hanno dimostrato in fondo il suo essere latino americano. Perché in America Latina, il leader è l’istituzione, ci sono generazioni di leader, mentre la lunga storia europea ha portato alla consapevolezza che l’istituzione è sempre di più delle persone che la governano.

In questi otto anni, l’informazione religiosa ha deciso spesso di ignorare la profondità della storia, di andare a fondo nel pensiero del Papa. Lo si è fatto, a volte, e spesso lo si è fatto solo in funzione critica. Non lo si è fatto in funzione analitica. Ci si è sempre divisi in gruppi, e così facendo si è persa la visione di insieme.

Tuttora, c’è chi esalta tutto di Papa Francesco, e vira tutti i suoi giornali e articoli su tematiche che sembrano affini al Papa argentino, e chi invece lo critica sempre, e trova ogni pretesto per criticarlo. Non si è formato, in questi otto anni, un giornalismo basato sulle idee che prescindono il pontificato, e che dovrebbero raccontare la Chiesa. Ci sarebbe voluto un sano distacco, che invece difficilmente c’è stato.

Il tutto mentre lo stesso panorama informativo si impoveriva. Le crisi di Tempi e Il Regno, la chiusura di Trenta Giorni, la scomparsa di molti giornali diocesani; le strette economiche che hanno costretto i media a dover cercare i click, e dunque spesso a pensare di non dover approfondire; una errata percezione del lettore, e del lettore cattolico, considerato come un papista o un anti-papista a prescindere, ma mai come persona  di Chiesa che vuole sentire parlare di Chiesa, persona  di fede che vuole sentire parlare di fede, persona cattolica che vuole capire il Vaticano, e lo vuole capire al di là delle urla sugli scandali e gli errori.

Otto anni di Papa Francesco, con il suo linguaggio nuovo ma anche differente, avrebbero dovuto formare generazioni migliori di vaticanisti, e giornalisti cattolici più credenti di prima. Perché tutti avrebbero dovuto imparare a comprendere il nuovo linguaggio senza rinnegare il vecchio, anzi valorizzandolo, apprezzandolo, anche difendendolo quando questo andava a scomparire. Perché le istituzioni vivono delle loro forme, le forme sono la sostanza delle istituzioni. Se le istituzioni vengono svuotate della loro storia e del loro modo di essere al mondo, non esistono più, diventano solo scatole vuote.

Otto anni di Papa Francesco hanno invece formato un giornalismo o propagandista o aggressivamente contro. Bergoglio era considerato divisivo in Argentina, c’è chi ha scritto che anche dopo i suoi anni da provinciale dei gesuiti, la provincia era divisa in pro-Bergoglio e anti-Bergoglio. Lo è stato anche a Roma, nel bene e nel male. E lo è anche quando intorno a lui si crea una comunicazione paracadute, che mira ad esaltarne le mosse e i gesti. È una comunicazione eternamente di crisi, un po’ come la Chiesa ospedale da campo.

E così, di fronte al mea culpa dei media, forse anche la comunicazione vaticana dovrebbe fare qualche mea culpa. Perché è una comunicazione che vuole essere trasparente, ma che non si mette in gioco. Non si mette in gioco perché da tempo mancano conferenze stampa su temi difficili e su questioni complesse, che siano quelle finanziarie alle decisioni di tipo liturgico o normativo, annunciate e praticamente sempre accompagnate da interviste pre-confezionate, ma mai da una conferenza stampa in cui tutti possano fare domande.

Si parla del Papa, e si parla dei temi del Papa. Si centra tutto sul qui ed ora, sul pontificato attuale, senza dare una profondità storica. Lo fanno i media, in generale, ma lo fa anche la comunicazione istituzionale e persino l’istituzione stessa – per esempio, con l’anno della Famiglia “Amoris Laetitia”, intitolato all’esortazione apostolica con il chiaro scopo di favorirne la recezione e renderla documento centrale nella pastorale.

È un mondo che ormai gira intorno al Papa, più che alla Santa Sede. È un mondo che gira intorno ai discorsi del Papa, più che alla tradizione della Chiesa. Forse sono solo i tempi. Di certo, i giornalisti che fanno informazione religiosa dovrebbero cercare qualcosa di più. Dovrebbero andare oltre le questioni della narrativa o della notizia. Dovrebbero provare a cambiare il modo di fare giornalismo. Il momento è ora.

Perché, in fondo, l’ottavo anno di pontificato sarà anche quello dei grandi cambiamenti. Ci saranno nuove persone, con un grande ricambio generazionale in Curia, e dunque nuovi linguaggi. Sarà il momento di andare oltre il contingente, per fare un giornalismo largo, profondo e preciso. La sfida più complicata, perché tutto questo dovrà anche essere fatto con la velocità resa necessaria dai mezzi di comunicazione di oggi.

 

 

 

 

1 commento:

  1. magnifique: sur mon blog TERRORISME PASTORAL j'ai écrit plusieurs articles intitulés François le Grand Communicant même résultat clinique !

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