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martedì 23 luglio 2024

Tra Taiwan e la Cina. Qualche impressione

Negli ultimi mesi sono stato prima a Taiwan e poi in Cina. O, per dirla in maniera ufficiale, prima nella Repubblica di Cina e poi nella Repubblica Popolare Cinese. Sono state occasioni diverse, per visite diverse, che mi hanno lasciato alcune impressioni che condivido qui.

Una premessa: sono riflessioni basate solo su quello che ho visto e percepito, e non sono analisi di geopolitica (che non troverete qui) o sociologiche (che non sarei capace di fare).

 

Tuttavia, ritengo che alcune delle cose che ho visto, sentito, esperito abbiano una sorta di valenza universale. Che si applichino alla situazione cinese o taiwanese, ma che in realtà raccontino il mondo molto bene. E che, in fondo, racchiudano molto bene la differenza tra i due mondi.

 

Taiwan e la Cina

 

La prima cosa che salta agli occhi è che sia Taiwan che la Cina sono, nelle loro grandi città, fortemente modernizzate. I quartieri tradizionali sono pochi e piccoli. Il quartiere storico di Taipei ha tutte le botteghe tradizionali, tra cui quelle famose dei massaggi, ma potrebbe essere New York, Boston o qualunque altra grande città americana. Vero, i ristoranti cinesi mantengono quel tipo di foggia orientale, anche un po’ kitsch. Ed è anche vero che in qualunque città europea si trovano ristoranti che scimmiottano gli edifici orientali.

 

A Pechino, gli huton, gli antichi vicoli, sono quasi seminascosti, e comunque sempre meno, perché in molti casi sono stati rasi al suolo in nome del progresso. Se Taipei può sembrare una qualunque città statunitense, Pechino ha quartieri che la fanno assomigliare a qualunque città con un passato di dominazione sovietica.

 

Taiwan, lasciandosi la Cina alle spalle, ha lasciato parte della sua identità storica per diventare una capitale occidentale. Pechino, abbracciando il comunismo, si è omologata ad un modo di pensare che copriva ogni campo dello scibile e del modo di essere.

 

Sono, in fondo, dannatamente simili, eppure così diverse. A Taipei si sente ancora la dominazione giapponese, che pure non fu lunga, e questa è una eredità che è rimasta anche dopo che Chiang Kai Shek vi si è stabilito. Ci sono, dunque, grandi alberghi giapponesi, ristoranti giapponesi, anche se poi si ti riesce a trovare il sapore di Cina. Ma è un sapore di Cina conosciuto, del quale noi occidentali siamo abbastanza consapevoli.

 

Pechino fa sentire pesante ancora il senso della Rivoluzione Culturale. Il fulcro di tutto è il complesso di Tiananmen, e la famosa piazza è solo il centro di un complesso che va dalla Città Proibita al Tempio del Paradiso, passa per il Mausoleo di Mao che si staglia imperioso sulla grande arteria che taglia il complesso, e si perde poi nelle strade laterali, in alcuni casi strade-mercato.

 

La ricostruzione della storia

 

Pechino è una realtà antica e giovane allo stesso tempo. Antica, perché c’è il senso della grande cultura e della storia cinese, rappresentato dall’anatra alla pechinese. Il taglio dell’anatra è un rituale, così come lo è l’uso e la combinazione delle salse a seconda della parte di anatra che si sta mangiando. Tutto è stato definito in uno studio rigoroso di secoli, che si compone come un rituale.

 

Ma è giovane, perché la Rivoluzione Culturale ha in qualche modo cancellato molta dell’identità passata, ha creato una nuova Cina a immagine e somiglianza del socialismo reale. È un nuovo impero, ma un impero privo del senso religioso, cresciuto nella paura del leader, che si sacrifica in nome del progresso.

 

La costruzione dell’identità cinese di oggi nasce con la Rivoluzione culturale, e infatti in Cina non si studia la storia, non si conoscono spesso le grandi vestigia del passato. I rituali come quello dell’anatra alla pechinese sono ripetuti come parte della tradizione, ma ne sfuggono i significati. È una liturgia svuotata di contenuto, che si ripete soprattutto perché, in fondo, quella liturgia è tutto ciò che il cinese è.

 

Taipei è giovane e antica. È una città che acquisisce la sua importanza quando vi viene stabilito il governo esule. Si trova su una isola, quella di Formosa, che ha una storia e una tradizione e che ha anche 400 anni di cristianesimo alle spalle, ma di fatto Taipei non avrebbe avuto la stessa importanza e notorietà se non ci fosse stato Taiwan.

 

Così, Taipei si deve ricostruire una storia, deve tornare indietro con la memoria, deve essere l’erede anche di quel passato imperiale cinese che nella Cina continentale si è declinato in maniera diversa.

 

In entrambi i casi, la storia è necessaria. Dà profondità all’esistenza. Racconta le generazioni passate, e chi meglio dei cinesi che vivono nel culto degli antenati può capire tutto questo?

 

Ma la storia, in entrambi i casi, è stata stuprata, a volte cancellata. Stuprata perché anche gli esuli che fondarono Taiwan sono stati costretti a strappare parte delle loro radici. Cancellata, perché nella Cina di Mao non c’è posto per niente che non sia Mao. La storia semplicemente non si studia, si cancella o si riscrive persino, con la forza di una cultura chiusa che ha pochi contatti con l’esterno.

 

I contatti con l’esterno

 

La differenza, infatti, sta soprattutto nel contatto con l’esterno. A Pechino, nessuno parla lingue diverse dal cinese. E tutti sono sorpresi di vedere qualcuno che non sa il cinese. A Taiwan, tutti hanno l’idea di potersi imbattere di qualcuno che parli una lingua diversa.

 

La Cina continentale è un modo chiuso, perlomeno parzialmente, dove molte cose sono bloccate e impossibili, dove non funziona nemmeno google e tutti i servizi ad esso correlati. Taiwan è un mondo aperto, e che anzi vuole apertura, cerca apertura, perché non vuole essere isolato. Taiwan è consapevole che l’unione fa la forza, e soprattutto sa che non può vincere da sola. La Cina, invece, ritiene di poter vincere da sola, con il peso della sua forza e della sua grandezza.

 

Taiwan può relativizzare i concetti, la Cina continentale no. Quando si parla di Cina, si deve comprendere questo. Perché noi parliamo di Cina partendo da un punto di vista occidentale. In Cina, però, tutto quello che succede è normale. Quella che noi chiamiamo “violazione dei diritti umani” in Cina è stranamente vissuta come una sorta di normalità. Per due motivi: perché l’Impero ha abituato all’ubbidienza e alla sottomissione, e in effetti non ci poteva essere autorità più grande dell’Imperatore, come non ci può essere oggi più grande del Capo del Partito; e perché, semplicemente, molti di loro non conoscono di meglio.

 

La paura

 

La differenza sostanziale sta nella paura. Taiwan, nella sua gioventù, si è strutturato come un luogo democratico, con tutti i suoi limiti e i suoi problemi, ma con una certa libertà di pensiero. Non si tratta solo delle votazioni, ma anche di un sistema di sicurezza che è presente, ma non invasivo. Ho partecipato all’installazione del nuovo presidente, e i controlli per accedere alla cerimonia non erano diversi – se non addirittura più leggeri – di quelli cui sono stato sottoposto per partecipare ad alcuni eventi con il Papa o per andare a far visita nei palazzi presidenziali – dove tra l’altro non andavo come visitatore, ma per lavoro, e dunque con una verifica sulla mia persona già fatta in precedenza.

 

Pechino è invece una sorta di “regno del terrore”. Passeggiare intorno piazza Tiananmen prevede che per almeno quattro volte i cittadini cinesi debbano tirare fuori la carta di identità e farsi riconoscere dal sistema elettronico e i cittadini stranieri debbano mostrare il passaporto e sottoporsi agli sguardi sospettosi dei poliziotti.

 

Quando si fa notare che tutta quella sicurezza, solo per passeggiare, è eccessiva, mi si risponde che si deve fare per la sicurezza, perché nemmeno il giorno prima qualcuno è impazzito e ha tirato fuori un coltello tra la folla. Ma questo è qualcosa che succede, non si può impedire con il controllo, e succede anche molto più facilmente in una società dove tutto è controllato, perché in quei casi la follia individuale è dietro l’angolo.

 

Ma non fa parte del concetto cinese il fatto che una popolazione felice possa essere più prospera e meno violenta, che un minore squilibrio sociale possa aiutare a diminuire le tensioni. A Pechino, come in tutte le grandi capitali, c’è il ricchissimo e il poverissimo, ci sono i ghetti, ci sono le persone che vivono per strada. Ma a Pechino anche chi è ricchissimo ha paura, perché niente è per sempre, e perché è facile diventare nemici della patria dopo esserne stati amici per tanto tempo.

 

Il concetto predominante è quello di sottomissione. Una sottomissione da ottenere con la paura e con il controllo, e dunque pericolosa. Per ora, però, funziona, perché non ci sono state grande ribellioni dopo le proteste di piazza Tiananmen del 1989. La verità è che non c’è ancora troppa rabbia perché ci sia una rivoluzione. Ma la rabbia si crea quando ci si può paragonare con l’esterno. Le informazioni che arrivano in Cina sono parziali e frammentate. Chi viaggia non è chiamato a portare il suo contributo. C’è il Partito, e tutto ciò che dice il Partito.

 

Le falle del sistema

 

Alla fine, sembra evidente che Pechino vuole Taipei solo perché rappresenta una rottura con la narrativa. Taipei è la prova che un’altra Cina è possibile, e che dal Partito si può sfuggire, nonostante le difficoltà. Perché quando si è a Taipei, mentre i media occidentali mostrano con grande preoccupazione le provocazioni della Cina e i possibili piani di invasione, la percezione è piuttosto quella di un gioco delle parti. Certo, a un certo punto Pechino smetterà di giocare, ma ancora non è il momento.

 

Ovviamente, Taiwan teme molto il Dragone Rosso. Nota l’isolamento diplomatico cui Pechino la sta condannando a suon di accordi commerciali che richiedono poi relazioni diplomatiche che, di fatto, tagliano Taipei in favore di Pechino. Sanno che a un certo punto sarà imponderabile.

 

Ma è vero anche che Pechino teme gli attacchi esterni. Teme che il vociare sulla Cina possa indebolire il Partito, e dunque rendere il “dio politico” una sorta di fantoccio. I cinesi vogliono comprendere, dunque, e non si capacitano dell’ostilità che c’è nei confronti della Cina. Sanno che devono concedere, ma non sanno come. E non lo sanno perché semplicemente non sono mai stati aperti negli ultimi cinquanta anni.

 

La Cina va capita, ne vanno capite le ragioni, la lingua, la cultura e la storia, recente e antica. La Cina va fatta capire, ed è quello il grande lavoro culturale da fare. La Cina, però, deve anche aprirsi per capire, andando oltre le barriere linguistiche e concettuali.

 

Perché tutto questo ha un valore universale

 

L’esperienza cinese ha un valore ancora più importante oggi. Ci troviamo in un mondo in cui le guerre sono frutto di narrative contrapposte. Un mondo interconnesso in cui però si cercano di isolare le persone, renderle individui e non comunità, metterle sotto controllo. Un mondo in cui la libertà viene barattata con il “modello cinese” del controllo (vedere il Rapporto sulla Dottrina Sociale della Chiesa 2021 per comprendere il tema) perché, in fondo, ogni Stato vuole controllare i cittadini.

 

È un mondo che non solo vuole togliere la felicità, ma che vuole giustificare le proprie guerre con storie e tradizioni inventate, in una sorta di grande manipolazione di massa.

 

Senza nominare scenari di guerra evidenti, mi viene in mente che invece la strada non è quella di cancellare la storia, ma quella di spiegare la storia. La strada non è la cancel culture, ma la comprensione. La strada non è nel conflitto, ma nel perdono.


Alla fine, è quello che insegnano le religioni, e che insegna particolarmente la Chiesa Cattolica. Ed è forse per questo che le religioni fanno paura. Sono apprezzate solo se si politicizzano e si fanno mettere sotto controllo. Ma vengono messe sotto accusa se sono parte della soluzione.

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