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domenica 23 luglio 2023

Quando contano le religioni nelle relazioni internazionali?

Questa settimana, sono stato invitato a partecipare al XX workshop annuale del think tank – e da quest’anno fondazione – “Il Nodo di Gordio”, una realtà ormai solida nell’ambito degli studi geopolitici che include anche una rivista scientifica e diversi membri di caratura internazionale. Tema del workshop di quest’anno era “Il Dio della guerra, il Dio della pace” (trovate il programma qui) e io sono stato chiamato a partecipare al panel “Quando contano le religioni nelle relazioni internazionali” (trovate il link per seguirlo in video QUI). Ne è venuta fuori una discussione ricca, assolutamente non preparata né predisposta, molto spontanea. Tuttavia, ci sono alcuni dei temi che ho sviluppato che mi sono particolarmente cari, e che provo a sintetizzare in questo post, in una sorta di “appunto postumo”, che spero sarà utile anche agli amici de Il Nodo di Gordio.

La domanda di partenza, come ha fatto notare il moderatore del panel, sembrava essere un refuso: “Quando contano le religioni nelle relazioni internazionali” suona male, sarebbe dovuto essere più logicamente “Quanto contano le religioni nelle relazioni internazionali”. Vero, ma allo stesso tempo fino a un certo punto. La domanda è bene posta, il quando ha molto senso, specialmente al giorno di oggi.

 

Quando contano, dunque, le religioni? Le religioni contano quando sanno essere libere. Le religioni contano quando si occupano degli esseri umani, delle comunità, e sono separate dal potere politico, lo trascendono, non possono essere ideologizzate, e le loro narrative non possono essere piegate dal potere politico di turno.

 

In questo momento viviamo una guerra in Ucraina che ci ha dimostrato in maniera chiara il problema di avere delle Chiese, come quelle ortodosse, autocefale e nazionalizzate, legate al loro territorio, e dunque in qualche modo soggette al potere politico in un abbraccio tra trono e altare. La narrativa della guerra di Putin usa questo nazionalismo latente, lo sviluppa, lo rigenera a suo vantaggio. Anche la storia diventa una ipotesi, perché non conta più la storia, ma il modo in cui la storia è percepita.

 

Non è solo un problema delle confessioni ortodosse. In generale, si può notare che le grandi religioni abbiano perso molto cercando di dialogare con il mondo. Nel mondo non manca la religiosità, e c’è una profonda ricerca di spiritualità. Lo si nota, ad esempio, dal proliferare del new age, dello yoga, della meditazione. Dunque, non è che il mondo si sia secolarizzato. Semplicemente, le religioni hanno fallito. Hanno messo da parte l’uomo per dedicarsi all’umanismo. Hanno messo da parte la carne e il sangue delle persone per entrare in dibattiti intellettuali, per prendere il linguaggio di quello che giustamente Fulton Sheen chiamò “il grande umanista”.

 

È un problema che si nota particolarmente quando parliamo di Chiesa Cattolica. La Chiesa Cattolica ha avuto sempre quella spinta culturale di essere profetica. Il Concilio Vaticano II avviene tra il 1962 e il 1965, vale a dire che termina tre anni prima della Grande Rivoluzione Sessuale del 1968. Il movimento ecumenico vede le prime partecipazioni cattoliche già negli Anni Venti e Trenta, a titolo personale, ma comunque come una apertura a un qualcosa che sarebbe esploso negli anni. E come non citare la Radio Vaticana stabilita da Guglielmo Marconi in persona, la prima intervista di un Papa data ad un giornale laico e non italiano, Le Monde, e per di più ad una donna, ad opera di Leone XIII. Gli esempi sarebbero innumerevoli.

 

Eppure, oggi la Chiesa Cattolica sembra essersi ritirata. Il suo pensiero non è profetico, ma è piuttosto allineato a quello del mondo. C’è la ricerca di essere presenti in questo nuovo mondo umanista, e in questo modo però si perde la volontà di essere parte di Dio. Sto generalizzando, ovviamente, per amore di esagerazione. Certo, però, che in molti discorsi si trova la retorica degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e quella dei diritti umani in salsa organizzazioni internazionali, che poi deve essere ribilanciata con quello che la Chiesa crede. Non c’è una posizione netta, ma un adattamento che porta a voler dire quello che si deve dire senza però fare davvero dibattito. È paura, forse, o timidezza, o sindrome di inferiorità.

 

In che modo questo impatta sulle relazioni internazionali? Perché, di fatto, se la Chiesa perde il senso principale della sua missione, che è poi l’Eucarestia, perde il centro vero. Dall’Eucarestia, ovvero dalla presenza di Cristo vero Dio e vero uomo in mezzo a noi, che scaturisce dalla venuta storica di Gesù, nasce tutto il resto. Non c’è povero, orfano o vedova da accogliere se non nella consapevolezza che in ognuno di loro c’è Cristo, e che se Cristo è stato uomo allora ogni uomo conta. Se si diventa una religione umanista, con un concetto vago di Dio buono per tutte le stagioni e alcune sfide (senz’altro lodevoli, ma vuote alla fine) umaniste, allora il cristianesimo non ha più ragione di essere. Si trasforma – è la denuncia di Papa Francesco – in una “Ong pietosa”.

 

Ma se è una Ong pietosa, allora quale è il motivo per cui la Santa Sede dovrebbe essere accreditata alle Nazioni Unite come Osservatore Permanente? Basterebbe chiamare la Caritas, o inserire la Chiesa tra le Ong appunto – e ci furono campagne, come la campagna See Change, che dicevano proprio questa cosa, e lo facevano a metà degli anni Novanta, in tempi non sospetti.

 

In questa crisi di identità si trova dunque una crisi profonda della Chiesa che diventa anche crisi di presenza nelle relazioni internazionali. Non basta, infatti, la terzietà. Serve qualcosa di più. Oggi, con la guerra nel cuore dell’Europa, si parla molto di un nuovo spirito di Helsinki, ovvero di un nuovo spirito che porti a quella dichiarazione che fondò l’Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa.

 

Al di là del fatto che mancano gli uomini di Helsinki, c’è però da dire quell’incontro era stato promosso dall’Unione Sovietica, e fu l’Unione Sovietica a volervi la Santa Sede. E fu poi la Santa Sede a inserire, in maniera brillante, la questione della libertà religiosa nella Carta di Helsinki, che io ritengo il vero grimaldello che ha portato alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Ho scritto un libro sulla storia del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (qui le informazioni), cioè un libro su quell’organismo profetico nato da una semplice nota al Concilio Vaticano II che, negli anni Sessanta, guardava già all’Europa come continente a due polmoni, dall’Atlantico agli Urali, nonostante la Cortina di Ferro allora imperante e preminente. E in quell’occasione, ho scoperto che il Cardinale Karol Wojtyla, quando ancora non era Papa, comprese subito la portata storica di quel documento di Helsinki, esortando i vescovi europei, e in particolare quelli di là della Cortina di Ferro, a puntare proprio sul tema della libertà religiosa nei loro discorsi, nelle loro attività, nei loro programmi. Lo fece anche da Papa, e fu una idea vincente.

 

Oggi, in un mondo in cui la libertà religiosa viene confusa per la libertà di espressione, e in cui la libertà di espressione permette addirittura di prendersi gioco delle religioni mentre alle religioni non viene concessa nemmeno la libertà di sostenere, ad esempio, che un bambino nasce da un uomo e una donna (discorso di odio, viene chiamato); ecco, in questo mondo si fatica a trovare una posizione profetica della Santa Sede in tal senso. Ed è un peccato, perché sono proprio le religioni ad essere chiamate a costruire la pace, e a superare le impasse storiche che fanno dell’Europa un continente omogeneo e diviso allo stesso tempo, unito e ferito da un passato che non vuole tornare, ancora recalcitrante a superare le grandi cicatrici lasciate dalle dissoluzioni degli imperi che poi crearono l’attuale ordine mondiale, ma anche i grandi genocidi nati intorno ai nuovi Stati nazione.

 

Ovviamente, se manca l’identità, mancano le vocazioni, e questo non è solo vero per la Chiesa Cattolica, ma per tutte le grandi confessioni religiose. Mentre le sette protestanti, con la loro teologia della prosperità che si concretizza in aiuti e denaro e la promozione del successo, fanno proseliti, cattolici, ortodossi, protestanti si incagliano nei loro dibattiti interni. In Germania abbiamo un sinodo che vuole addirittura prendere decisioni vincolanti su temi come il celibato e la morale sessuale, gli ortodossi hanno il grande problema delle relazioni con gli Stati in cui si trovano, gli anglicani lasciano la loro confessione originaria, spesso per diventare cattolici, per superare i nuovi dibattito su vescovi donne e sacerdoti gay, i protestanti puntano il loro discorso sui diritti umani mettendo da parte la teologia. Anche qui, si generalizza per amore di esagerazione, ma non si può dire che chi conosca queste situazioni non si sia riconosciuto in qualcosa che ho appena detto.

 

Mancano le vocazioni. Ma mancano le vocazioni perché manca un contatto con il territorio. Ed è qui che si trova anche il problema del pontificato di Papa Francesco. Papa Francesco vuole una Chiesa che vada alle periferie, una Chiesa in uscita, una Chiesa missionaria, e il Papa è il primo che deve essere periferico, fuori e missionario. Ma il Papa non è lì per fare tutto questo. Per quello ci sono sacerdoti, missionari, vescovi. Il Papa c’è per garantire l’unità della Chiesa. C’è perché alla fine serve quello che Battiato chiamerebbe “un centro di gravità permanente”.

 

La Chiesa non è mai stata omogenea, c’è stato sempre discernimento, modi anche pragmatici di vivere il Vangelo e la fede. Ma ci potevano essere perché c’era a Roma una direttiva precisa, un centro, che interveniva ogni qual volta la deriva rischiava di diventare eresia. Ovviamente, a volte questo è stato un intervento esagerato, altre volte un intervento inesistente. Ci vuole equilibrio in tutte le cose, e le cose umane hanno sempre delle problematiche. Ma è quello il senso.

 

Insomma, il Papa non è un condottiero solitario y final. È piuttosto un generale, e i suoi colonnelli sono i vescovi. I vescovi, però, devono essere molti, devono conoscere il territorio. Oggi abbiamo l’idea che i vescovi sono amministratori e sono troppi, e che fare il vescovo sia un titolo e un privilegio. Ma l’anomalia non è che l’Italia abbia più di duecento diocesi, è che alcuni territori come il Brasile ne abbiano troppo pochi, anzi ci sono luoghi dove nemmeno il prete arriva più di una volta al mese – è un tema di cui si è molto parlato al Sinodo Speciale per la Regione Panamazzonica nel 2019. Insomma, se non ci sono vescovi, questi non possono seguire e scegliere i sacerdoti, se non ci sono i sacerdoti, non c’è formazione di fedeli, e se il Papa non fa da coordinamento, ma a volte si sostituisce con la sua persona e la sua autorità a vescovi e sacerdoti, allora ci troviamo di fronte a qualcosa che non può funzionare.

 

Poi, c’è la concessione all’umanitarismo, che è il secondo problema. Cito sempre Padre Piero Gheddo, il grande missionario italiano che nel 2014, di fronte alla scomparsa della rivista missionaria Ad Gentes, scrisse un testo per ricordare che se scemava l’interesse per la missione era perché la missione era diventata una agenzia sociale, non aveva più la volontà primaria di portare Cristo e parlare di Cristo (qui il post del blog cui mi riferisco). Se, insomma, il messaggio evangelico si politicizza o sociologizza, alla fine si perde proprio il senso della fede.

 

Mi si dirà: perché questo ha un impatto sulle relazioni internazionali? Perché tutto deve avere uno scopo, e perché lo scopo della Chiesa nelle relazioni internazionali nasce proprio da questo primario messaggio di Cristo e da questa volontà di stare vicino all’uomo e a quello che Paolo VI, con felice sintesi, chiamò “sviluppo umano integrale”. Se viene a mancare questo, viene a mancare la missione della Chiesa. Eppure, la Chiesa avrebbe una missione da compiere oggi per la pace, a partire proprio dalla cura delle ferite dei popoli e della storia in Europa, per insegnare quel perdono e quel taglio con il passato necessario per voltare pagina e chiudere la porta ad ogni conflitto.

 

Oggi, in fondo, non è vero che gli uomini non credano in Dio. Credono in un Dio della scienza, un Dio tecnocrate dalle magnifiche sorti e progressive che sarebbe persino capace di far scendere le temperature della terra di 1,5 gradi quando ancora, con tutta la sua scienza, non è in grado di prevedere terremoti ed eruzioni, e non può fare altro che ritardare la morte con la sua scienza, ma non può evitarla.

 

E come si può credere così ciecamente in una scienza che aiuta ma non dà niente altro che la vita delle cose alle persone, e non dà nessun ideale cui aspirare? Si può perché se le religioni mancano, mancano le comunità. Religo, in fondo, significa collegare, ed ecclesia significa “comunità”. Durante l’atroce epopea del lock down, ci siamo riscoperti tutti più fragili, in fondo, perché individualizzati. Non potevamo pregare insieme, non potevamo essere insieme di fronte l’Eucarestia, non potevamo fare comunità, credendo in qualcosa di superiore che dava un senso alla nostra vita. Eravamo individui.

 

Ebbene, l’individuo è controllabile. Gli resta un po’ di piacere edonistico, sempre concesso, ma gli resta al prezzo di essere tremendamente solo, anche di fronte a scelte cruciali per la sua vita. E, da solo, è manipolabile. Ha paura. Mentre, se c’è una comunità vicino, ha una forza che nessun potere può spezzare. È una forza che viene da una fede condivisa che c’è un qualcosa per cui combattere, perché trascende la sua vita e guarda al futuro. In fondo, chi pensava costruiva le grandi cattedrali gotiche del Medioevo sapeva che non avrebbe visto la fine di quell’opera durante la sua vita, ma lasciava una eredità, pensava a quello che sarebbe rimasto dopo di lui, perché viveva in una prospettiva di eternità. E lo faceva in un mondo in cui l’aspettativa di vita era ridicola. Oggi che la nostra aspettativa di vita è altissima, ci troviamo ad essere senza futuro, senza scopo, quasi senza voglia di migliorare.

 

L’antidoto a questa dittatura del tempo presente era proprio la fede, qualunque fede fosse, che con il suo credo trascendente permetteva di voler creare un futuro migliore. Se lo si vuole vedere da un punto di vista pragmatico, le relazioni internazionali dovrebbero partire da questo per creare un nuovo ordine mondiale, se non altro perché sarebbe un ordine mondiale per l’uomo. Ma oggi facciamo un uomo per l’ordine mondiale, e lo facciamo perché si vuole un ordine mondiale senza Dio, dove l’uomo è solo un ingranaggio nel grande mosaico tecnocratico.

 

Non è un ordine internazionale che può reggere, perché la vita sempre trova la strada, come dice Jurassic Park. Di certo, oggi le religioni potrebbero avere un impatto enorme se solo comprendessero come poter essere nel mondo secondo il loro linguaggio. Perché è facile parlare di religioni violente, religioni retrograde e così via. Ma, in fondo, ci si deve mettere d’accordo su cosa è la religione. Se è il gruppo di uomini che ne costituisce la gerarchia, allora sì, ci sono guerre religiose, violenze in nome della fede. Ma quella non è la religione. Sono le persone che vivono (e usano) la religione. È una cosa diversa.

 

Se invece la religione è quella fede comune in tutti gli uomini, allora si può, si deve lavorare. E si deve lavorare soprattutto per la libertà. Se le religioni non si sentiranno libere di dire quello che pensano, senza infingimenti, non potranno contare a livello internazionale. Non solo: perderanno di impatto e di credibilità. Perché non bastano gli scandali a far crollare tutto. Non sono mai bastati. Serve che chi ha fede smetta di credere. Ed è questo, probabilmente, uno degli obiettivi dell’ordine mondiale di oggi. Le religioni conteranno, allora, quando lo capiranno e riusciranno ad essere davvero libere.

 

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