Processo Palazzo di Londra

domenica 3 maggio 2020

Essere vaticanisti, perché oggi è così difficile

L’ultima polemica è stata lanciata con le anticipazioni della biografia di Benedetto XVI scritta dal suo intervistatore Peter Seewald, che con il Papa emerito da tempo ha un rapporto di confidenza e con il quale ha pubblicato già tre libri intervista.

Per scrivere il libro, Seewald ha anche parlato con Benedetto XVI, e parte di queste conversazioni sono finite sulla stampa come anticipazioni. Non c’è niente di nuovo nelle parole di Benedetto XVI, niente di cui scandalizzarsi, niente che non abbia già mai detto prima.

Per la cronaca, Benedetto XVI ha parlato del vero pericolo dato dalle ideologie umanitariste, ha sottolineato come l’aborto, la produzione di persone in laboratorio, persino il matrimonio omosessuale non possono nemmeno essere criticate, ha detto che  “la società moderna è in procinto di formulare un credo anticristiano e chi vi si oppone è colpito dalla scomunica”. E ha sottolineato che è naturale avere paura dell’anti Cristo.

Onestamente parlando, sono temi che Benedetto XVI non ha solo sviluppato nel suo pontificato, ma anche durante tutta una vita da teologo. Benedetto XVI ha sempre cercato la verità, e non si è mai accontentato  delle cause penultime, ma ha sempre cercato quelle ultime. Non si legge Benedetto XVI pensando che darà una spiegazione pragmatica o una risposta pragmatica. Si legge Benedetto XVI pensando che ci sarà una risposta di senso, una intuizione, uno scenario che punti a cercare la verità ultima, una verità ultima che per Benedetto XVI non può che  essere connessa con la fede.

Questo, però, non è quello che succede nel clima di oggi, sempre più polarizzato. Ci si ritrova di fronte alla solita diatriba tra conservatori e progressisti che è vaga e fa sorridere,  se detta così,  ma nella quale in molti si identificano e credono. E lo fanno soprattutto gli intellettuali e gli operatori della comunicazione, che si chiudono così in un ghetto senza dare all’altra parte il beneficio del dubbio o di una analisi.

È successo, ancora una volta, con Benedetto XVI. Da una parte i conservatori, a usare il Papa emerito come uno spauracchio per definire il loro modello di Chiesa, e  anzi andando a trovare proprio nelle parole del Papa emerito le possibili cause della rinuncia, in maniera ovviamente faziosa. Dall’altra, i progressisti, che si sentono sempre punti sul vivo quando viene data parola a Benedetto XVI, e allora cercano di sminuire le sue affermazioni o di ridicolizzarle, senza nemmeno andare davvero ad analizzare quello che davvero voleva dire.

Questa eccessiva polarizzazione è solo uno degli esempi che rende  particolarmente difficile il lavoro  del vaticanista oggi. Facile dire che la polarizzazione è effetto della particolare situazione della Chiesa, con un Papa e un Papa emerito. Una affermazione del genere rappresenta solo la ricerca di un capro espiatorio. La polarizzazione non è data dalla situazione, è una forma mentale. È parte di un pregiudizio che non permette  di comprendere davvero quello che c’è in gioco.

Raccontare la Chiesa è diventato particolarmente difficile perché è la Chiesa stessa che si percepisce in termini di polarizzazione. Lo fa perché gli uomini di Chiesa sembrano aver perso il senso delle istituzioni e delle grandi sfide culturali. Soprattutto,  gli uomini di Chiesa hanno perso il senso delle grandi idee e profezie, un guardare avanti necessario per poter davvero essere nel mondo.

Lo si è perso soprattutto durante questo pontificato, ma questo non significa dare la colpa della situazione a Papa Francesco. Non è questo il punto, e chi non se ne rende conto è in malafede.

Come sempre, si deve guardare alla storia in profondità. Dopo il Concilio Vaticano II, in molti hanno cercato di sganciare la Chiesa dalla sua storia, come se si dovesse creare una nuova Chiesa, più secolare, più pragmatica, più adatta al mondo. Giovanni Paolo II prima e Benedetto XVI dopo hanno combattuto perché questo non avvenisse. In 35 anni, si è cercato di stabilire una continuità con la tradizione della Chiesa, affermarla nella lettura non pregiudiziale della storia, tornare alla fede e alle grandi sfide. Alcuni potrebbero dire che si è trattato di un passo indietro. È un pregiudizio.

Non dico di guardare alla straordinaria modernità di Benedetto XVI – così moderno da rinunciare al pontificato – ma non credo si possa dire che Giovanni Paolo II sia stato un Papa che non ha portato una nuova freschezza nella Chiesa,  condita anche da grandi gesti. E che dire di Paolo VI? Si tratta probabilmente del Papa più sottovalutato del secolo, ma l’unico ad avere il coraggio di celebrare una Messa di Natale in una fabbrica, l’Ilva di Taranto, nel 1968.

Il problema è che la Chiesa non esiste senza la sua storia. Con i suoi alti e bassi, con i suoi problemi terreni e anche, a volte, una impropria alleanza tra trono e altare, la Chiesa è comunque sempre stata lì, a costruire civiltà, e quindi sempre oggetto di attacchi, perché nessun potere secolare può accettare che ci sia qualcosa come la  fede cristiana, che non solo non può essere sottomesso, ma che in  realtà libera gli uomini da  ogni sudditanza nei confronti dei potenti.

Fare il vaticanista oggi è difficile proprio perché sembra impossibile potersi situare in maniera differente tra quanti pensano che la Chiesa debba adeguarsi al mondo perdendo la sua forza profetica e quanti invece ritengono che la forza profetica della Chiesa stia solo in un modo specifico di vivere la dottrina. Sono entrambi visioni totalitarie, di cui però è pregno il dibattito attuale.

Fare il vaticanista oggi è difficile perché tutti si sentono in dovere di prendere una posizione, e parlano solo con le fonti che confermeranno questa  posizione, senza nemmeno cercare di guardare alle posizioni degli altri o di prendere altri punti di vista. È un giornalismo di guerrieri, e dovrebbe essere un giornalismo di analisti. È un giornalismo di influencer (e lo è da prima che il termine fosse di moda, da quando si è cominciato a pensare di cambiare i punti  di vista  della Chiesa attraverso le campagne stampa), e dovrebbe essere un giornalismo di ricerca della verità. È un giornalismo di storia minuta,  e dovrebbe essere un giornalismo di grandi scenari.

Fare il vaticanista oggi è difficile perché ogni punto di vista ti condanna a stare da una parte, anche se tu non vuoi. È un qualcosa che si è esasperato, arrivando oggi a dover individuare ovunque i “nemici del pontificato”.
Ma si è nemici del pontificato anche se si presenta un punto di vista diverso, o una analisi critica che mette in luce alcuni aspetti. Il populismo di Papa Francesco è stato analizzato nel 2016 da Loris Zanatta, professore dell’Università di Bologna che ne ha tirato fuori un articolo e un volume. Ma le sue analisi sono state fortemente criticate, creando un dibattito anche duro. Zanatta, però, guardava all’estrazione  di Papa Francesco, al populismo argentino, all’idea di popolo come “categoria mistica”. Non era una  critica al pontificato, era una analisi sulle origini intellettuali del Papa.

Viene da pensare che, se le analisi fossero prese per analisi e non semplicemente per prese di posizione, si potrebbe  comprendere meglio Papa Francesco.  Forse non si sarebbe nemmeno sorpresi di alcune decisioni, come la decisione di non affrontare il tema dei viri probati nella esortazione post-sinodale Querida Amazonia.

Il punto però è un altro: non analizzare i fatti permette di portare avanti una propria narrativa. Non è il Papa reale, è il Papa rappresentato. E questo diventa un problema anche per la comunicazione vaticana, sempre più centrata sui gesti del Papa e sulla sua personalità.

Ma si può essere vaticanisti centrando tutto sui gesti e la  comunicazione del Papa? E si può essere vaticanisti avendo a che fare con un mondo che non guarda alle analisi, ma piuttosto vive di “veline” e si nutre della guerra di fronti contrapposti?

Essere vaticanisti oggi è difficile perché continuiamo a leggere un mondo nuovo con le lenti vecchie. Così entusiasti dei dettagli “pop”, perdiamo di vista la storia, quella vera. Leggiamo ogni gesto del Papa secondo criteri vecchi di secoli, e non partiamo dal presupposto che a questo Papa quei criteri non interessano.

Tra le ultime notizie vaticane, c’è la decisione di Papa Francesco di rompere la tradizione dei  cardinali dell’ordine dei vescovi, espandendo l’ordine (prima erano solo 6, legati alle sette vecchie diocesi suburbicarie  di Roma) e includendo ora anche il Cardinale Luis Antonio Tagle, prefetto di Propaganda Fide, nell’Ordine dei  vescovi. Tutti leggono la mossa come una “investitura” in vista del Conclave oppure come una necessità di bruciare un candidato per il prossimo conclave esponendolo molto.  E se invece Papa Francesco avesse fatto solo un ragionamento funzionale? Se invece semplicemente avesse pensato che il prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli debba stare tra i cardinali dell’ordine dei vescovi, sempre?

Spesso si va a sovrainterpretare Papa Francesco, dando un peso e una sottostruttura alle sue parole e ai suoi gesti che va ben al di là la personalità del Papa. Ma dire questo significa macchiarsi di lesa maestà. Eppure, la critica non è al Papa, ma al modo in cui viene comunicato il Papa.

La sovrainterpretazione è un problema di tutti, non solo di certe parti del dibattito. E questo rende complicatissimo essere vaticanisti. Il giornalista deve avere a che fare con la realtà. Ma cosa succede quando la realtà diventa banale o triste? Quando i complotti di cui ci nutriamo ogni giorno si mostrano in realtà per semplici situazioni contingenti? Quando le persone si presentano nella loro complessità che le rende anche ingenue a volte? 

Così abituati a pensare ai complotti, non riusciamo a riconoscerli e a definirli proprio perché dimentichiamo il fattore umano di tutto. Così abituati a concentrarci sui dettagli, non riusciamo a vedere quando ci sono davvero dei significati in ogni gesto, e quando invece questi significati sono meno importanti di quello che si pensa essere.

Non è decisamente una buona stagione in cui essere vaticanisti. Si moltiplicano i libri che leggono ogni cosa come un complotto contro il Papa (e in genere provengono dal fronte progressista, perché è quello che sente la sua narrativa attaccata), presto arriverà probabilmente un altro Vatileaks, con documenti passati ai giornali per dare segnali e giornali non in grado di proporre analisi, ma solo di mettere insieme pettegolezzi.

Non è una buona stagione perché è una stagione di transizione. Ci si trova di fronte ad una Chiesa che a volte sembra non essere in grado di comunicare i suoi simboli, un Papa che ha un modo di operare e di ragionare completamente diverso dai suoi predecessori. Nessuno schema è quello di prima, perché semplicemente è finita quella stagione in cui si cercava di mettere insieme il nuovo con la storia. È un riflesso del mondo, in cui la storia viene dimenticata e in cui tutto sembra accadere qui ed ora. La cosa grave è che la Chiesa non dovrebbe riflettere il mondo.

Difficile essere vaticanisti oggi, cercando di raccontare la Chiesa nella sua interezza, e non nelle contingenze.

Difficile essere vaticanisti come lo è per Ratzinger essere se stesso. Si è destinati a non essere compresi, o ad essere messi ai margini. Perché, in fondo, quando si guarda alle ragioni ultime, si è sempre sovrastati da chi si ferma alle ragioni penultime. È facile, in fondo, guardare alle contingenze e rispondere in maniera pragmatica. Molto più difficile rispondere con una idea e formare il mondo ad una idea. Ed è facile, in fondo, avere una idea precostituita e leggere tutto attraverso quelle lenti. Molto più difficile guardare ad ogni cosa con distacco. Che non significa senza passione o senza idee. Ma con una sana umiltà che permette di non ingannare i lettori, non polarizzare tutto e non decidere prima cosa sia giusto e cosa sia sbagliato.

È difficile, insomma, essere vaticanisti davvero.

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