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mercoledì 25 marzo 2020

Joseph Ratzinger, la comunicazione della croce

C’è un anniversario, oggi, che passa quasi inosservato, ma che ha un suo significato particolare. Quindici anni fa, il 25 marzo 2005, si teneva la Via Crucis con le meditazioni di Joseph Ratzinger. Era l’ultima con San Giovanni Paolo II papa. Questi sarebbe morto il 2 aprile, e il 19 aprile Joseph Ratzinger sarebbe stato eletto suo successore con il nome di Benedetto XVI.

 Quella Via Crucis, a mio avviso, segna un prima e un dopo nella comunicazione vaticana. Perché quella Via Crucis è una delle testimonianze più lampanti che spesso, troppo spesso, si riduce tutto ad un titolo, seguendo certe categorie di interpretazione, senza però cercare davvero di comprendere il contesto, la storia, la complessità di quello che viene detto.

È un problema generale, nell’informazione religiosa, di cui ho parlato più volte: si usano categorie politiche per comprendere temi spirituali. E si usano categorie di tipo secolare per inquadrare i Papi all’interno di schemi precostituiti. Questo è vero anche per Papa Francesco, e lo si è visto in particolare con le anticipazioni sulla Querida Amazonia. Ma è vero soprattutto per Benedetto XVI.

E questo perché nessuno dei ragionamenti umani si applica realmente al pensiero di Benedetto XVI. Basta leggere i suoi scritti di teologia per comprenderlo. C’è un indirizzo, nel pensiero di Joseph Ratzinger, che è dato sin dalla scelta di svolgere la sua tesi di dottorato su San Bonaventura, (L’idea di Rivelazione e la  Teologia della Storia di Bonaventura). Perché San Bonaventura parlava di un itinerarium mentis in Deum, l’itinerario dell’uomo verso Dio. E tutto, in Benedetto XVI, è teso a guardare verso Dio, a guardare verso l’alto.

Così erano le meditazioni della Via Crucis del 2005. Meditazioni che sono state quasi sempre racchiuse semplicemente in quella della Nona Stazione, in cui Joseph Ratzinger parlava della “sporcizia” nella Chiesa.

Scriveva Ratzinger: “Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! Quanto poco rispettiamo il sacramento della riconciliazione, nel quale egli ci aspetta, per rialzarci dalle nostre cadute! Tutto ciò è presente nella sua passione”.

C’era, in quella frase, un peso drammatico, un mea culpa forte, l'immagine di una Chiesa in rovina e anche la conferma di tutti i pregiudizi sulla Chiesa che tutti volevano avere. Ma non era quello il punto di quella frase. Non era solo un attacco alla pedofilia nella Chiesa. Era un qualcosa di più grande. C’era la ricerca di un significato nel male nella Chiesa. Un male che viene dal rifiuto di Dio, dal rifiuto di credere.

In quanti possono dire, però, di aver guardato al testo nella sua interezza? In quanti possono dire di aver cercato di comprendere cosa Ratzinger aveva da dirci con quel testo?

Non è solo un problema di comunicazione. I media hanno bisogno di un titolo, hanno bisogno di una storia. Ma fare informazione religiosa, fare vaticanismo, necessita anche un quid in più. Necessità la capacità di guardare alla storia minuta con il senso della Storia del mondo. Non ci sono salti storici, non ci sono periodi che iniziano qui ed ora: tutto è collegato. E, per il teologo, non ci sono contingenze. Le contingenze sono parte di un disegno più grande, sono punti interrogativi in un percorso che porta a cercare il volto di Dio, a comprenderlo. Non c’è fede senza ragione. Per questo si devono comprendere le ragioni della fede.

Vale la pena andare a rileggere quella Via Crucis integralmente, per comprendere cosa voleva veramente dire Benedetto XVI. A partire dalla preghiera iniziale, che dice già tutto. La linea guida è quella del “chicco di grano che morendo porta molto frutto”, ed è così che “il Signore interpreta il suo percorso terreno”, tanto che “la Via Crucis diventa una via che conduce fin dentro il mistero eucaristico”, in cui “la pietà popolare e la pietà sacramentale della Chiesa si fondono”.

Non solo. Ratzinger sottolinea che il rischio è quello di una “comprensione puramente sentimentale” della Via Crucis, ma questo non basta. Il sentimento non va escluso, e lo sanno già i Padri della Chiesa, che dicono che i Pagani hanno come primo vizio “la mancanza di cuore”. Ma ci vuole prima di tutto la fede.

Tutto il percorso della Via Crucis di Joseph Ratzinger è un percorso per andare al cuore della fede, per comprendere perché Gesù ha fatto quello che ha fatto. Ci si vedono i riflessi dell’oggi, ma non riguardano solo la sporcizia nella Chiesa. C’è il riferimento al dramma dell’aborto, alle nuove ideologie (diventerà famosa, poi, l’espressione “dittatura del relativismo”), all’incapacità di guardare la redenzione attraverso gli occhi di Dio.

Ma c’è anche la straordinaria speranza di un Dio che si fa uomo e che vive le nostre sofferenze, e di una Madre di Dio che è in grado di accettare la morte del figlio.

Ripercorrere quella Via Crucis è utile per comprendere le grandi sfide di oggi.

Nella I Stazione, Ratzinger ricorda che Gesù è stato condannato a morte perché “la paura dello sguardo altrui ha soffocato la voce della coscienza”, e questo succede “lungo tutta la storia”. Sempre degli innocenti “vengono maltrattati, condannati e uccisi”, e persino noi  abbiamo “preferito il successo alla verità, la nostra reputazione alla giustizia”.

Perché, spiega nella II Stazione, “il prezzo della giustizia è sofferenza in questo mondo”, e allora la  preghiera è quella di “saper accettare la croce”, di “percorrere la via dell’amore e, obbedendo alle sue esigenze” a raggiungere la vera gioia. C’è già il martirio di ogni cristiano in queste parole. Ma un martirio che non è solo di sangue. È anche testimonianza quotidiana, nel bene e nel male.

Ma i cristiani non sono soli. Nella III Stazione, Ratzinger ricorda che Gesù è venuto “incontro a noi che, per la nostra superbia, giacciamo per terra”. Ed è la superbia “di pensare che siamo in grado di produrre l’uomo ha fatto sì che gli uomini siano diventati una sorta di merce, che vengano comprati e venduti, che siano come un serbatoio di materiale per i nostri esperimenti, con i quali speriamo di superare da noi stessi la morte, mentre, in verità, non facciamo altro che umiliare sempre più profondamente la dignità dell’uomo”.

Papa Francesco parla spesso della cultura dello scarto. Ma è qui, in questa superbia dell’uomo, in questa ybris, che si trovano le ragioni di questa cultura. È da qui che si deve agire per estirpare questa cultura dello scarto.

La IV Stazione è un omaggio a Maria, che ha “coraggio di servire”, e la V presenta la richiesta di imparare ad “assistere il nostro prossimo che soffre, anche se questa chiamata dovesse essere in contraddizione con i nostri progetti e le nostre simpatie”. Prima il prossimo, insomma, perché è così che si è in cammino con Cristo.

Ma Cristo va cercato. E allora, nella VI Stazione, Ratzinger prega Dio di donare “l’inquietudine del cuore che cerca il Tuo volto” e di proteggere “dall’ottenebramento del cuore che vede solo la superficie delle cose”.

La preghiera continua: “Donaci quella schiettezza e purezza che ci rendono capaci di vedere la tua presenza nel mondo. Quando non siamo capaci di compiere grandi cose, donaci il coraggio di un’umile bontà. Imprimi il tuo volto nei nostri cuori, così che possiamo incontrarti e mostrare al mondo la tua immagine”.

Non si può essere cristiani se non si cerca Dio. La fede non è qualcosa di irrazionale, ma è qualcosa da vivere e comprendere. Nella VII Stazione, Ratzinger prega che “al posto di un cuore di pietra” Dio ci doni “un cuore di carne”, e chiede a Dio di “non permettere che il muro del materialismo diventi insuperabile. Fa’ che ti percepiamo di nuovo. Rendici sobri e attenti per poter resistere alle forze del male e aiutaci a riconoscere i bisogni interiori ed esteriori degli altri, a sostenerli. Rialzaci, così che possiamo rialzare gli altri. Donaci speranza in mezzo a tutta questa oscurità, perché possiamo diventare portatori di speranza per il mondo”.

Ed è da qui che comincia un altro grande tema. La banalità del male. Il male diventa banale perché non si cerca il volto di Dio. Nell’VII Stazione, Ratzinger nota, riferendosi a Dio: “Ci chiami a uscire dalla banalizzazione del male con cui ci tranquillizziamo, così da poter continuare la nostra vita di sempre. Ci mostri la serietà della nostra responsabilità, il pericolo di essere trovati, nel Giudizio, colpevoli e infecondi”.

Dunque, Ratzinger prega: “Fa’ che non ci limitiamo a camminare accanto a te, offrendo soltanto parole di compassione”. Non basta la compassione. Serve vivere la fede. Si arriva così alla famosa IX stazione, quella della sporcizia nella Chiesa. Una sporcizia che riguardava uomini di Dio che non si comportano da uomini di Dio. Non casi particolari, anche se a quelli si guardava, certamente. È piuttosto quello che succede, sempre, quando l’uomo di Dio perde di vista Dio.

Da lì è un crescendo. X Stazione: “Donaci un profondo rispetto dell’uomo in tutte le fasi della sua esistenza e in tutte le situazioni nelle quali lo incontriamo. Donaci la veste di luce della tua grazia”. XI Stazione: “Aiutaci a non fuggire di fronte a ciò che siamo chiamati ad adempiere. Aiutaci a farci legare strettamente a te. Aiutaci a smascherare quella falsa libertà che ci vuole allontanare da te. Aiutaci ad accettare la tua libertà “legata” e a trovare nello stretto legame con te la vera libertà.”

Quindi la XII Stazione, la morte di Gesù. E lì c’è la chiave fondamentale di tutto il pensiero di Benedetto XVI. “Gesù stesso non aveva accettato il titolo di Messia, in quanto avrebbe richiamato un’idea sbagliata, umana, di potere e di salvezza”, scrive Ratzinger. È quello il problema. Il vedere la Chiesa con le logiche umane. È il tema centrale di tutti gli scritti, tutte le interlocuzione di Benedetto XVI. Non si può leggere la Chiesa con occhi umani, perché Gesù non è un Messia dai criteri umani. Lo diventa, Messia, solo quando muore, perché “nella sua discesa, è salito”.

E così, nella XIII Stazione, c’è l’osservazione amara: “Com’è facile che noi uomini ci allontaniamo e diciamo a noi stessi: Dio è morto”. È un uomo disperato, quello che si trova di fronte a Dio. Perché è un uomo che non può bastare a se stesso.

Nella XIV Stazione, però, c’è la speranza: “Gesù – scrive Joseph Ratzinger - è il chicco di grano che muore. Dal chicco di grano morto comincia la grande moltiplicazione del pane che dura fino alla fine del mondo: egli è il pane di vita capace di sfamare in misura sovrabbondante l’umanità intera e di donarle il nutrimento vitale: il Verbo eterno di Dio, che è diventato carne e anche pane, per noi, attraverso la croce e la risurrezione. Sopra la sepoltura di Gesù risplende il mistero dell’Eucaristia”.

Ci sono tanti temi in questa Via Crucis, e non riguardano la sporcizia nella Chiesa. Riguardano tutti la necessità di cercare Dio. Quello che Ratzinger mette in luce è un problema culturale. Un problema profondamente culturale, che però è anche un problema di fede. Perché noi crediamo? Davvero noi conosciamo le ragioni della nostra fede? Davvero noi siamo in grado di dare le ragioni della nostra speranza?

È evidente che la risposta è no. Non siamo in grado perché umani, perfettibili. “Umani, troppo umani”, direbbe Nietsche. Ma è lì che entra la storia della salvezza. Ed è lì che è necessario andare a capire. È necessario studiare, comprendere, vivere.

Noi non sappiamo dare le ragioni della nostra fede, e per quello non sappiamo nemmeno raccontarla. Quando c’è qualcuno che lo comunica, non viene compreso, o piuttosto viene ridotto a schemi precostituiti.

Sta proprio lì il problema. È una questione culturale, di profondità. Non si risolve nulla se non si conoscono le ragioni profonde dei problemi. La pietà popolare è un palliativo, ma non basta. La pietà popolare funzionava perché nutrita di vita, storia e fede. La pietà popolare funzionava perché un qualunque contadino, nel Medioevo, entrava in chiesa e leggeva nelle grandi vetrate della cattedrali gotiche le storie della Bibbia, e le traeva ad esempio. E non sapeva leggere e scrivere.

Noi, che sappiamo leggere e scrivere, non sappiamo più comprendere quella Biblia Pauperum. Viviamo la fede come qualcosa di distaccato dalla nostra vita, e per questo analizziamo le conseguenze senza però comprendere le cause.

Quindici anni fa, Ratzinger  ci metteva in guardia da tutto questo, e inaugurava allora un percorso che è stato comunicato fino all’ultimo minuto del pontificato. Tuttora, però, ci ostiniamo a non vederlo. Perché ci ostiniamo a non vedere la croce per quella che è.

E allora, si deve tornare all’introduzione di quella Via Crucis, che terminava con questa preghiera: “Liberaci dalla paura della croce, dalla paura di fronte all’altrui derisione, dalla paura che la nostra vita possa sfuggirci se non afferriamo tutto ciò che essa offre. Aiutaci a smascherare le tentazioni che promettono vita, ma le cui profferte, alla fine, ci lasciano soltanto vuoti e delusi. Aiutaci a non impadronirci della vita, ma a donarla. Aiutaci, accompagnandoti sulla via del chicco di grano, a trovare, nel ‘perdere la vita’, la via dell’amore, la via che veramente ci dona vita, vita in abbondanza”.

È questa una preghiera attualissima. Il vero problema è culturale. Solo la cultura che viene dalla fede può aiutare a “smascherare le tentazioni che promettono vita”. Ed è questa cultura che manca. Nella comunicazione religiosa, nella società, persino, in molti casi, negli stessi uomini di Chiesa. Questa mancanza di contesto ci ha portato a non comprendere il messaggio dirimente della Via Crucis del 2005. E sta a noi, oggi, non farne una delle tante profezie rimaste inascoltate.

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