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lunedì 23 marzo 2020

Papa Francesco e la risposta al coronavirus

Lo scorso 15 marzo, Papa Francesco ha fatto uno dei gesti potenti cui ci è abituato: in un momento in cui la città di Roma è completamente chiusa per la pandemia del COVID 19, il Papa è andato prima a Santa Maria Maggiore e poi nella chiesa di San Marcello al Corso. In quest’ultima chiesa, che ha raggiunto facendo un breve pellegrinaggio a piedi, è custodita una croce che ha salvato Roma dalla peste del 1522. Lì il Papa ha pregato che il Signore stendesse la sua mano e facesse terminare la pandemia.

Il gesto è arrivato al termine di una settimana che è stata, però, particolarmente convulsa. Subito, la Chiesa italiana ha deciso di adeguarsi alle disposizioni del governo per contrastare la pandemia. Subito, sono state annullate le Messe pubbliche e le possibilità di assembramento di persone.

Il 12 marzo, però, un comunicato della Conferenza Episcopale Italiana lasciava intendere anche la possibile chiusura delle chiese, e non “perché lo Stato ce lo imponga, ma per un senso di appartenenza alla famiglia umana, esposta a un virus di cui ancora non conosciamo la natura né la propagazione”.

La sera del 12 marzo, il Cardinale Angelo de Donatis, vicario del Papa per la diocesi di Roma, disponeva la chiusura di tutte le chiese. Ma il giorno dopo, il 13 marzo, Papa Francesco sottolineava durante la Messa a Santa Marta che “le misure drastiche non sempre sono buone”. Parole che suonavano come una sconfessione della decisione del vicario della diocesi di Roma.

Il Cardinale de Donatis, con un nuovo decreto, disponeva che almeno le parrocchie rimanessero aperte, facendo sapere però che aveva comunque preso la decisione in accordo con il Santo Padre.

Cosa era successo nel frattempo? Varie cose. Il cardinale Konrad Krajewski, Elemosiniere del Papa, aveva aperto la chiesa di cui era rettore con un “atto di disobbedienza” inteso a dare coraggio. Il segretario del Papa, monsignor Ioannis Lahzi Gaid, aveva diffuso una sua riflessione personale, poi finita pubblicata, sul guardarsi dall’epidemia della paura. E c’è da immaginare che il dibattito sia stato forte all’interno dei Sacri Palazzi.

Colpisce, ancora una volta, che non ci sia una linea comune di azione. E colpisce soprattutto che la decisione di chiudere o non chiudere le chiese avvenga senza tenere in considerazione un tema cruciale: la sovranità della Santa Sede.

Un esempio cruciale è quello della basilica di San Pietro. Piazza San Pietro gode di una doppia sovranità: è gestita dalla Polizia italiana fino al sagrato quando il Papa non è in piazza, è sotto giurisdizione della Gendarmeria vaticana quando il Papa è in piazza. La polizia italiana ha deciso di bloccare l’accesso alla piazza per evitare assembramenti, come stabilito dal decreto della presidenza del Consiglio Italiana. Ma bloccare l’accesso alla piazza significa bloccare l’accesso alla Basilica di San Pietro.

Solo in seguito è stato spiegato che la Santa Sede era “in pieno accordo con le autorità italiane”. Ma questo pieno accordo, se davvero c’è stato, viene pagato a caro prezzo.

Il problema non è tanto che la risposta all’emergenza coronavirus sia sconnessa. Il problema è che, nell’emergenza, la Chiesa non pensi a difendere nemmeno quello che dovrebbe assolutamente difendere: la libertà di culto.

Il caso italiano aiuta particolarmente. C’è un divieto di movimento in tutta Italia, se non per ragioni di stretta necessità. Ma tra queste ragioni di stretta necessità non vengono citate le ragioni del culto. Si va a contravvenire, dunque, a un diritto fondamentale della Costituzione italiana, che è appunto la libertà di culto.

Cosa fa un fedele se ha bisogno della confessione? Cosa fa un sacerdote se deve andare a dare l’Unzione degli Infermi? Formalmente, si può dire che si tratta di una stretta necessità. Ma, non essendo le ragioni di culto contemplate,  un poliziotto particolarmente pignolo potrebbe opporsi, o persino multare il sacerdote.

Il problema non è se chiudere o meno le chiese o se ammettere o meno le funzioni pubbliche. I vertici della Chiesa decidono autonomamente e lo possono fare, perché hanno una loro sovranità. Se si decide di seguire le direttive dello Stato, si decide di operare una scelta responsabile, come hanno spiegato i vescovi italiani.

Si sarebbe però dovuta mettere in chiaro la necessità di garantire la libertà di culto. Lo si sarebbe dovuto fare formalmente, con una protesta veemente, perché questa normativa crea un precedente. Se un giorno si vorrà negare la libertà di culto, ci si ricorderà sempre di quando questa non è stata difesa.

Provvedimenti simili avvengono ovunque nel mondo, ma in tutti i casi la Santa Sede dovrebbe chiarire che questo viene fatto spontaneamente, e dovrebbe chiedere agli Stati di garantire la libertà di culto.

È un tema diplomatico, di altissima importanza. Ma non viene considerato, perché non viene considerata l’istituzione Chiesa. Non c’è una linea comune perché non c’è una linea istituzionale.

Colpisce anche il silenzio delle varie associazioni di giuristi cattolici, che forse non comprendono che in gioco non è solo la sovranità della Santa Sede, ma la libertà di culto tout court.

Può sembrare un problema marginale, in tempi di emergenza sanitaria. Si è, però, in un mondo in cui ogni cosa marginale diventa un pretesto per attaccare le istituzioni religiose. I precedenti sono molteplici, e il più recente è particolarmente allarmanete. Il 2 marzo, un rapporto ONU sulla libertà religiosa arrivava persino a chiedere cambi dottrinali alle religioni perché accettassero i nuovi diritti, cioè i diritti LGBT.

Tutto è collegato, tutto è connesso. E però il dibattito si è ridotto al tema di “Chiese aperte sì” o “Chiese aperte no”, con tutto uno strascico emozionale. La parte pastorale è fondamentale, e sarebbe stato bene concordarla prima. Ma la parte istituzionale è altrettanto fondamentale. È l’istituzione che permette ai sacerdoti di essere protetti. Se l’istituzione manca di difendere i suoi diritti, si perde un pezzo fondamentale. Il coronavirus può dunque diventare una occasione per limitare la libertà di culto. E questo nonostante i grandi gesti di Papa Francesco. E nonostante i grandi gesti dei sacerdoti, sempre in prima linea nell’aiutare e portare i sacramenti.  


Articolo pubblicato nell’originale inglese su Mondayvatican il 23 marzo 2020

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