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martedì 17 novembre 2020

Rapporto McCarrick, come un Vatileaks partito dall'interno della Chiesa stessa

La pubblicazione del Rapporto McCarrick farà ancora parlare per molto. In 461 pagine, il rapporto dettaglia superficialità, errori di valutazione e situazioni che hanno portato all’ascesa dell’ex Cardinale Theodore McCarrick, caduto improvvisamente in disgrazia solo quando, nel 2017, ci fu la prima circostanziata, accusa di abuso su un minore, che portò ad una denuncia e poi al radicale crollo: le dimissioni da cardinale di McCarrick e poi la sua riduzione allo stato laicale.

Il rapporto è un buon affresco di come le decisioni vengano prese, in Vaticano. Ma crea anche alcuni problemi per la stessa informazione religiosa, e in particolare per l’informazione che riguarda la Santa Sede.

Un rapporto di questo genere costringe, ovviamente, a far cadere l’occhio su dettagli e situazioni, e per questo si parlerà ancora molto a lungo del rapporto. Come è successo per i file di Wikileaks, tutti andranno a cercare nel rapporto dettagli che potranno confermare le loro ipotesi, e poi utilizzarle. Già negli anni Quaranta il sociologo Paul Lazarsfeld, nel libro “The People’s choice”, notava come i media, in fondo, avessero effetti limitati nel cambiare le opinioni delle persone, che cercavano sempre piuttosto conferme in quello che pensavano.

Se questa teoria – chiamata teoria degli effetti limitati dei media – valeva negli Anni Quaranta, con uno spettro molto limitato di mezzi di comunicazione di massa – vale ancora di più oggi, quando il web non ha tanto moltiplicato i mezzi, quanto i canali attraverso cui le informazioni si diffondono. E, incredibile a dirsi, questo ha colpito anche il mondo del giornalismo, che, più che cercare le informazioni e processarle, punta piuttosto a sviluppare una idea del mondo, e poi a cercare prove che stiano a supportare la teoria.

Con la comunicazione che riguarda il Vaticano in particolare, e la Chiesa in generale, si devono considerare una serie di varianti differenti per poter comprendere fino in fondo la realtà di cui si parla. Questo, ovviamente, non è possibile con un rapporto documentale, come quello McCarrick, ma non è nemmeno possibile seguendo le letture contrapposte di diversi opinion leaders, al di là di quante prove possano portare a sostegno delle loro tesi.

Per fare un esempio preciso, il rapporto McCarrick è l’opposto delle dichiarazioni dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò, eppure entrambi hanno degli elementi di non credibilità, in maniera simile e contrapposta allo stesso tempo. Non possiamo credere fino in fondo al rapporto McCarrick perché sappiamo che lì ci sarà la sola verità parziale dei documenti, e che questa non racconta il processo di decisione e anche le circostanze che portano a fare delle scelte. A volte, si arriva a delle posizioni di responsabilità per abilità e fortuna, e l’una non è disgiunta dall’altra.

Allo stesso tempo, non possiamo credere fino in fondo alle accuse dell’arcivescovo Viganò, che pure fa dei rapporti circostanziati, fornendo nomi, dati, fatti. Ma li fa dal suo punto di vista, e dal punto di vista di una persona che comunque si trova in questo momento ai margini. Per quanto il suo sforzo per la Chiesa possa essere lodevole, non si può dare per scontato tutto quello che dice. Va verificato, compreso, contestualizzato.

Tutto questo, ovviamente, scompare quando ci si trova alla cruda necessità di leggere i documenti e di interpretare la realtà attraverso procedure. Le procedure devono aiutare a vivere, non devono essere delle gabbie in cui chiudere ogni iniziativa. Questo è sempre valso in Vaticano, perché c’è sempre stato un modo umano di gestire le situazioni, con una scala di valori fortissima e decisiva: prima di tutto, la difesa dell’istituzione Chiesa; poi, la necessità di aiutare la missione della Chiesa; quindi, la necessità di salvare la reputazione di ogni essere umano. 

Come ogni mondo, e come ogni mondo piccolo direi, il Vaticano è un luogo dove il pettegolezzo è diffuso, e spesso questo pettegolezzo si concretizza in biglietti, lettere anonime, accuse, voci di cui non si può non tenere conto. Allo stesso tempo, vanno ponderate e inquadrate in dei contesti.

Come ogni mondo, e come ogni mondo piccolo direi, il Vaticano ha la sua quota di persone corrotte, e ironicamente (ma non troppo) si potrebbe dire che questo corrisponde al Vangelo e alla necessità di far crescere insieme grano e zizzania. Ma questa corruzione non sta a dire che la Chiesa è corrotta, o che lo sia la Santa Sede. Lo sono le persone.

Il rapporto McCarrick, invece, inserisce in Vaticano il principio tutto aziendale della accountability. È la ricerca di un responsabile ad ogni costo, fatta in un modo in cui il confine tra responsabile e capro espiatorio è molto labile. Si va a vedere nelle procedure per comprendere chi ha sbagliato, ma – soprattutto – si rendono pubbliche le procedure, in modo che tutti vedano gli errori degli altri.

In questo modo, si crea un clima in cui tutti hanno paura di sbagliare. In un mondo come quello vaticano, questo può essere fatale.

Guardando, infatti, al rapporto McCarrick, si comprende quanto il fattore umano sia decisivo nelle scelte dei vescovi. Vero, è stato questo fattore umano che ha fatto sollevare ogni dubbio su McCarrick, di cui pure erano state bloccate le candidature ad arcivescovo di Chicago, New York e inizialmente Washington. Ma il fatto che si facciano degli errori, non significa che questi errori siano destinati ad esserci sempre.

Prova ne sono le centinaia di straordinari vescovi e le migliaia di meravigliosi parroci che ci sono nel mondo, e che permettono, in fondo, alla Chiesa di vivere. Ho parlato spesso di un Vaticano nascosto. C’è anche una Chiesa nascosta, che non fa i titoli dei giornali, ma che è presente, viva e va oltre ogni scandalo, piccolo o grande che sia.

Questo non significa che si debbano minimizzare gli scandali. Allo stesso tempo, gli scandali vanno messi nella giusta prospettiva. Questo vale sempre, e per ogni istituzione, non solo per la Chiesa.

E si viene qui al problema dell’informazione religiosa. Se dal mondo secolare ci si aspetta una narrativa tutta basata sulla accountability, anche perché si deve dare forza a un pregiudizio negativo nei confronti della Chiesa che per alcuni è un dato politico e per altri certamente fa vendere, non ci si può aspettare lo stesso dall’informazione religiosa, che è chiamata a comprendere le dinamiche che portano ai fatti, più che ai fatti.

Ci si è trovati, invece, con una serie di articoli in cui si metteva in luce la straordinarietà dell’operazione trasparenza della Chiesa, senza preoccuparsi però delle conseguenze di questa operazione trasparenza. E le conseguenze possono essere letali.

Già si è cominciata una campagna contro il pontificato di San Giovanni Paolo II, tanto che il New York Times ha detto che sarebbe stato canonizzato troppo presto, mentre c’è chi chiede di abolirne il culto pubblico. C’è chi cerca di difendere la memoria di Benedetto XVI, mettendo in luce dettagli e situazioni che mostrano il modo in cui ha agito. C’è chi enfatizza che il primo risultato del rapporto è considerare tutto questo come una vittoria di Papa Francesco.

Ma davvero la Chiesa può ridursi ad un solo pontificato? Davvero la logica del qui ed ora è quella della Chiesa? Nel corso di questi anni, siamo stati riempiti della retorica del Concilio Vaticano II e del mito di Giovanni XXIII, salvo poi comprendere che tutto nasceva da un lavoro che era cominciato molto prima del Papa buono. Abbiamo nascosto lo straordinario pontificato di Paolo VI solo sulla base dell’idea che avesse bloccato il Concilio perché aveva evitato eccessive liberalizzazioni, e soprattutto per la sua posizione sull’Humanae Vitae. Abbiamo odiato Giovanni Paolo II per la sua prospettiva polacca e anti socialisti e anti consumistica allo stesso tempo, salvo poi riscoprirlo negli ultimi anni della sua vita (e, se si vedono i giornali del tempo, non si può non notare questa spaccatura di opinione). Non abbiamo compreso Benedetto XVI, perché Benedetto XVI non parlava alle circostanze, ma parlava alla storia. Oggi, esaltiamo Papa Francesco per l’accountability, ma questa stessa accountability ci impedisce di dare uno sguardo complessivo a tutto il pontificato.

C’era un’altra cosa che Lazarsfeld aveva notato già negli Anni Quaranta, ed è il fatto che la gente tende ad ascoltare i cosiddetti opinion leaders, più che le argomentazioni. Fatto sta che non ci sono opinion leaders nel mondo dell’informazione religiosa che sappiano tenere la barra al centro, andare oltre le circostanze, dare uno sguardo di insieme al tutto.  Anche qui, abbiamo progressisti e conservatori. Ma, ed è triste dirlo, sono tutti legati a logiche esterne a quelle della Chiesa.

Così, il rapporto McCarrick rischia di apparire come un altro Vatileaks, con la differenza che questa volta è un Vatileaks che proviene dall’interno della Chiesa. Crea scandalo, solleva domande, apre porte insperate. Ma rischia di legare la Chiesa e le procedure della Chiesa solo a questo. È mancata una spiegazione di insieme. Non la ha data la Santa Sede, non la ha data l’informazione religiosa.

Il rapporto McCarrick ha certificato, in fondo, l’assenza di un punto di vista sulla Chiesa che sia veramente di Chiesa. Che sappia prenderne i linguaggi. Che sappia guardare alla Chiesa senza pregiudizi. Che non si leghi a delle situazioni contingenti, ma cerchi di comprendere azioni e conseguenze.

A soffrirne è soprattutto l’istituzione Chiesa, specialmente nel momento in cui la sua credibilità si lega a delle situazioni particolari o a dei leader particolari. Questo indebolirà la Santa Sede. E, se la Santa Sede è debole, i cristiani sono deboli, perché restano davvero soli nel mondo. Tutto questo, però, sembra al momento non interessare. 

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