Così è successo per Benedetto XVI, un Papa moderno e tradizionale allo stesso tempo, un albero con le radici ben piantate nella storia e nella tradizione della Chiesa e con le fronde così alte che in pochi potevano guardarle, figuriamoci avventurarsi a quell’altezza. E così abbiamo lasciato indietro un intero magistero che è rimasto nascosto non solo dal luccicare del presente, che abbaglia e non permette di vedere oltre, ma anche dalla cecità dell’oggi, che ci ha portato a cercare rivoluzioni, a magnificare cambiamenti, e decidere, per il gusto della notizia o dell’iperbole, che la Chiesa era qui ed ora, e che il pontificato che arrivava sarebbe dovuto giocoforza essere diverso.
E lo è, diverso, perché diverso è il Papa, diverse le priorità, diverse le
prospettive, diverso il modo di vivere. Ma oggi, mentre Benedetto XVI ha
trascorso più anni da Papa emerito che da Papa, viene logico pensare se
molti degli entusiasmi che ci sono stati con il nuovo pontificato fossero
giustificati o meno. Perché c’è un intero magistero nascosto che magari
abbiamo raccontato, ma che poi abbiamo dimenticato. O che abbiamo
raccontato con categorie ideologiche e politiche, ma con le categorie di
Benedetto XVI.
Categorie che erano diverse, più cattoliche direi: la fede (e infatti la prima eredità, la più immediata, di Benedetto XVI è l’Anno della Fede); la famiglia (perché Benedetto XVI sentiva profondamente i legami famigliari); la gioia (perché, al di là di ogni amarezza, per Benedetto XVI vivere il Vangelo non poteva che portare gioia); la Verità (come qualcosa da vivere, non da cercare, perché per Benedetto XVI la verità ti arriva, e non può essere altrimenti venendo da Dio).
Il Papa teologo, il Papa che aveva dedicato tutta la sua vita allo studio, era in fondo prima di tutto un uomo di fede. Sì, belle le discussioni accademiche, ma queste non devono mettere da parte la fede. Si parla di teologia perché si parla di Dio. Ogni sovrastruttura è vana.
Il 24 aprile 2005, nella Messa di inizio del Ministero Petrino, Benedetto XVI ricorda che “una delle caratteristiche fondamentali del pastore deve essere quella di amare gli uomini che gli sono stati affidati, così come ama Cristo, al cui servizio si trova”. E aggiunge: “Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della presenza, che egli ci dona nel Santissimo Sacramento”.
Sono parole che dimostrano quanto, alla fine, Benedetto XVI sia rimasto il confessore – viceparroco che ascoltava la gente comune parlare dei loro peccati, e che cercava di dare loro una strada. Un “pastore con l’odore delle pecore”, si direbbe oggi, che chiedeva a tutti di essere allo stesso modo. Anche questo, un aspetto dimenticato.
Il 25 settembre 2011, Benedetto XVI incontra a Friburgo i cattolici impegnati nella Chiesa e nella società. E ci sono tre passaggi fondamentali per comprendere come Benedetto XVI guarda alla storia della Chiesa, e ai suoi problemi profondi.
"Nello sviluppo storico della Chiesa – dice il Papa emerito - si manifesta anche una tendenza contraria: quella cioè di una Chiesa soddisfatta di se stessa, che si accomoda in questo mondo, è autosufficiente e si adatta ai criteri del mondo". Ancora: "Non di rado dà così all’organizzazione e all’istituzionalizzazione un’importanza maggiore che non alla sua chiamata all’essere aperta verso Dio e ad un aprire il mondo verso il prossimo". E infine: "Liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo".
Perché in fondo, "non si tratta qui di trovare una nuova tattica per rilanciare la Chiesa. Si tratta piuttosto di deporre tutto ciò che è soltanto tattica e di cercare la piena sincerità, che non trascura né reprime alcunché della verità del nostro oggi, ma realizza la fede pienamente nell’oggi vivendola, appunto, totalmente nella sobrietà dell’oggi, portandola alla sua piena identità, togliendo da essa ciò che solo apparentemente è fede, ma in verità è convenzione ed abitudine”.
Cade, qui, ogni idea di un Benedetto XVI ancorato al potere, o che considera la Santa Sede come una struttura di potere. La Santa Sede, per Benedetto XVI, è uno strumento con il suo linguaggio da rispettare perché è un linguaggio che racconta una storia. Ma, come strumento, non può venire prima di tutto il resto. Ci vuole sobrietà, ci vuole demondanizzazione. Oggi si direbbe “una Chiesa povera per i poveri”, ma sarebbe riduttivo.
Di certo, a Benedetto XVI interessa solo la Verità. Tanto che il 12 settembre 2008, parlando al Colleges des Bernardins a Parigi, sottolinea “Di fatto, i cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti”.
Ed è un Dio misericordioso, come spiega, prima del conclave che lo elegge, nella Missa Pro Eligendo Romani Pontifice del 18 aprile 2005: “Gesù Cristo è la misericordia divina in persona: incontrare Cristo significa incontrare la misericordia di Dio. Il mandato di Cristo è divenuto mandato nostro attraverso l’unzione sacerdotale; siamo chiamati a promulgare – non solo a parole ma con la vita, e con i segni efficaci dei sacramenti, l’anno di misericordia del Signore”.
Si è detto che in quella messa c’era già il programma di governo di Benedetto XVI. Ed è vero. Ma non nel senso che si pensa. Benedetto XVI anticipava già che prima di tutto, per lui, veniva la fede in un Dio misericordioso. Non ci sarebbe stato giustizialismo, ma non ci sarebbero stati programmi di governo se non quello di fare la volontà di Dio.
A Colonia, nel 2005, per la Giornata Mondiale della Gioventù, Benedetto XVI dà voce all’inquietudine del mondo di fronte ad una vita senza Dio. “La gente – afferma - tende ad esclamare: La vita non può essere questa. Ed è vero. E quindi, insieme con la misericordia di Dio c’è una certa nuova esplosione di religione. (…) Ma una religione fai da te non può aiutarci. Può essere confortevole, ma in tempi di crisi siamo lasciati a noi stessi.”
Ma perché il Papa emerito raccontava questo? Perché, spiegava una volta, “tutta la mia vita è sempre stata attraversata da un filo conduttore, questo: il cristianesimo dà gioia, allarga gli orizzonti. In definitiva un'esistenza vissuta sempre e soltanto 'contro' sarebbe insopportabile”.
Eppure, la gioia può essere incrinata. E lo è quando la Chiesa viene considerata una struttura ideologica, e come tale viene trattata dagli uomini di Chiesa, che non guardano alle radici, ma guardano ad altri criteri. Così, la sera dell’11 ottobre 2012, cinquanta anni dopo il “discorso alla luna” di Giovanni XXIII, anche Benedetto XVI si affaccia dalla finestra del suo studio nel Palazzo apostolico.
Guardando le persone arrivate in processione a ricordare quello storico discorso del Papa buono prima del Concilio, dice: “Anche oggi siamo felici, portiamo la gioia nel nostro cuore, ma direi una gioia forse più sobria, una gioia umile: in questi 50 anni abbiamo imparato e esperito che il peccato originale esiste e si traduce sempre di nuovo in peccati personali, che possono divenire strutture di peccato, visto che nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania, che nella rete di Pietro ci sono anche pesci cattivi”.
Sono pezzi di discorsi, estratti, che già raccontano un magistero diverso, ben lontano da quello del Papa conservatore, legato alle strutture, lontano dalle persone e complicato nel modo di parlare. Quello che probabilmente era intollerabile per il mondo è che Benedetto XVI credeva in quello che faceva. Aveva fede. Ogni sua decisione era permeata di fede. Ogni suo atto guardava prima di tutto a come questo avrebbe impattato sulla fede.
C’era sempre Dio al centro, per Benedetto XVI, e lui lo rese plasticamente visibile quando chiese di porre, durante le sue celebrazioni, il crocifisso al centro, davanti l’altare, perché lo sguardo fosse fisso su Cristo, e non sul sacerdote. Si parlò di un ritorno al tradizionalismo, ma non era altro che una mossa per ridare un senso alla Chiesa.
E così, lette in questa ottica, si può comprendere che il Magistero nascosto di Benedetto XVI racconta di una rivoluzione tranquilla che aveva come primo obiettivo quello di rimettere al centro Cristo, senza proclami. Anche in questo, c’era una fede profonda: si doveva lasciare uno spiraglio aperto, perché così Cristo avrebbe potuto passare e ci avrebbe pensato lui ad entrare nel cuore degli uomini.
Ma è un magistero nascosto che abbiamo raccontato e compreso poco. Un magistero nascosto che resta lì, sospeso, ma pronto ad essere raccolto da chiunque abbia voglia di andare a leggere senza pregiudizi i discorsi, i testi, gli atti di Benedetto XVI.
Fino a quell’atto finale, rivoluzionario e straniante della declaratio della rinuncia. E lì viene da chiedersi: ma noi giornalisti ci siamo fatti le domande giuste? Perché sta tutto lì il mestiere. Non guardare al qui ed ora. Non raccontare i fatti. Sta nel farsi le domande giuste.
Quale sarebbe stata, allora, la domanda che Benedetto XVI avrebbe voluto ci facessimo di fronte a quella declaratio? Io credo che avrebbe semplicemente voluto che ci chiedessimo se lui aveva pregato su quella decisione. Se lui la aveva davvero presa in dialogo sincero con Dio. E quindi, avrebbe voluto rivolgessimo la domanda a Cristo, più che al suo vicario. Avrebbe voluto gli chiedessimo: cosa ci vuoi dire con questo? Dove dobbiamo andare?
Parlando con Peter Seewald nella biografia Benedetto XVI. Una vita, il Papa emerito ha detto: “Io non appartengo più al vecchio mondo, ma quello nuovo in realtà non è ancora cominciato…” Ha ragione. Ma forse il nuovo mondo non è cominciato non perché non sia un mondo possibile oggi. Semplicemente perché non si è capaci di farsi le domande giuste. Non lo abbiamo fatto noi giornalisti. Forse non lo hanno fatto neanche altri.
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