domenica 26 luglio 2020

C'è ancora una cultura cattolica?

Molto si dibatte e molto si dibatterà sulla decisione del governo turco di ritrasformare Santa Sofia in moschea. Ma forse troppo poco si sta dicendo di come questa decisione sia parte di un lavoro culturale molto più ampio che sta facendo il governo turco. Un lavoro culturale che ha alla base la stessa identità turca, e che si ritrova in un piano molto più ampio.


 Lo ha spiegato Ines Murzaku, in un ampio articolo sul Catholic World Report lo scorso 15 luglio, prendendo spunto da una realtà che conosce bene, la realtà albanese, per averla frequentata molto mentre scriveva il suo ultimo libro su Madre Teresa.

Murzaku – nella traduzione provvista dal blog di Sabino Paciolla – spiega che “se visitate Tirana, la capitale dell’Albania, è impossibile non vedere la maestosa struttura di una nuova moschea di Erdogan, ancora in costruzione. La moschea, con la sua biblioteca, luoghi per conferenze, centro islamico e scuola islamica attaccata al complesso, è la più grande moschea nei Balcani. È posizionata strategicamente, vicino al parlamento albanese, alla sede del partito democratico d’Albania, all’intersezione di una nuova strada intitolata a George W. Bush, e può contenere 5000 fedeli; i 64.583 piedi quadrati comprendono spazi per quattro minareti”.

Ma non è tutto. “Insieme alla moschea, un blando Sunnismo Turco si sta propagando in Albania, che può facilmente vincere le forme estreme di Wahabitismo ed altre sette estremiste, che si sono fatte conoscere in Albania”, continua Murzaku.

Il tutto condito dal “soft power della propaganda turca tramite soap opera. Sono trasmesse dalla televisione albanese e sono un successo in Albania, Kosovo e altri paesi nei Balcani”, anche attraverso “soap opera come EzelLaleDevri ed altre trasmesse attraverso la televisione albanese mostrano lo stile di vita, la lingua e la storia turchi come esempi da imitare. Di conseguenza, gli albanesi hanno una predilezione e una fiducia speciali nei prodotti turchi. La Turchia di Erdogan sta definitivamente lasciando un’impronta politica, religiosa e culturale dura e delicata tra i suoi popoli e territori precedentemente soggiogati”.

Non si tratta solo di religione. Si tratta di utilizzare la religione per ricostruire quell’identità ottomana che è andata perduta, e che in fondo pure Kemal Ataturk aveva lasciato alle spalle, addirittura abolendo il fez, il cappello tipico, che è ricomparso nell’abbigliamento di molti che hanno partecipato alla prima preghiera islamica a Santa Sofia lo scorso 24 luglio.

Tutto contribuisce a creare una cultura comune, persino le monete coniate con la doppia data 1453 – 2020, dalla conversione di Hagia Sophia in Moschea dopo la caduta di Costantinopoli a quella di oggi.

Tutto concorre a far pensare che, quando si parla di una cultura islamica, si stia sbagliando bersaglio. Si parla di una politica nazionalista con sfumature ‘imperiali’ che utilizza l’Islam come collante, come parte di un modello identitario di una nazione o di un impero. E, in fondo le religioni si prestano a questo gioco quando la fede delle persone perde di vista il sistema religioso e si trasforma in fideismo. La questione di Santa Sofia, lo ho già detto, è il sintomo del fallimento delle religioni, che oggi sembrano non avere più niente da dire. Così poco che, in fondo, la politica e il linguaggio politico può appropriarsene e utilizzarle, senza che i leader religiosi siano in realtà minimamente ascoltati.

Poi, però, si deve guardare anche più in dettaglio e si deve considerare un fatto: non si è stati capaci di creare e difendere una vera cultura cattolica. Non c’è un contrasto né all’opera culturale – imperiale turca, né a quella di tanti altri attori in gioco che vogliono le religioni ai margini della storia.

Se, ad esempio, il Diyanet turco finanzia moschee ovunque nel mondo, i cristiani non sono stati capaci di difendere i loro luoghi di culto, maestosi e splendidi, nati per volontà del popolo a raccontare una storia comune, una fede vera.

Il mondo vive con orrore gli incendi nelle cattedrali di Nantes e Notre Dame perché sente di perdere un patrimonio culturale ancora vivo, ma in fondo quel patrimonio culturale è presente, ma sconosciuto per molti. Come se ci venisse tolto il cuore senza che fossimo consapevoli di averne uno, in fondo.

Ci mancano gli edifici, perché ci siamo abituati a vederli lì, ma la verità è che non sappiamo più leggerne i linguaggi e i significati. Un uomo del Medioevo, analfabeta, entrava in Notre Dame e sapeva “leggere” le storie di ogni vetrata, trovava in quelle storie della Bibbia un patrimonio comune e un sistema di valori cui appellarsi. Oggi, il colto uomo contemporaneo, magari cattolico praticante, si trova sgomento di fronte a tanta bellezza fatta di codici che non sa neppure più decifrare.

E così, il cristiano moderno si trova in qualche modo sovrastato da una sapienza di millenni che apprezza per istinto e un bombardamento culturale di altri modelli cui non riesce ad avere difese.

L’incendio di Notre Dame non è un incendio doloso, ma colpisce per la sua vastità, per l’impatto mediatico. Il cattolico medio, però, resta quasi indifferente ai quasi mille edifici religiosi vandalizzati in Francia nel 2018, e agli altrettanti dell’anno precedente, si trova sorpreso a scoprire che in tutta europea vengono vandalizzate statue e cimiteri, e non sa come rispondere alla cancel culture che colpisce monumenti della storia comune, come quello di San Junipero Serra, trovandosi alla fine quasi d’accordo con i movimenti che promuovono questa cancellazione della memoria sulla base della lotta al razzismo.

Manca la cultura cattolica, perché questa cultura è stata sacrificata sull’altare del politicamente corretto. Si è ridotto lo stesso cristianesimo ad una serie di valori così ampi che è difficile non trovarsi d’accordo: la cura per il povero, l’orfano, la vedova, la vicinanza agli ultimi, il dialogo con gli altri leader religiosi per il bene comune. Eppure, tutti questi temi sono “obiettivi secondi” del cattolicesimo, che fa partire tutto dall’Eucarestia e da un solido sistema di valori che si fonda nella Bibbia, si compie nel Vangelo e si è diffuso nell’arte, nella storia, nella cultura.

La Chiesa era l’unica azienda culturale in territorio italiano, e fu quella azienda che diede le basi al Rinascimento. Ma fu anche quel solido sistema di valori a poter dialogare con l’Islam senza però rimanerne soggiogato, che trovò giovamento dagli scambi con Avicenna e Averroè in Spagna, ma che allo stesso tempo comprese quando i suoi valori erano sotto attacco e li difese con forza a Lepanto e Vienna, e prima ancora a Poitiers.

Furono quei valori che tennero viva la Spagna fino alla reconquista, e che poi ispirarono l’evangelizzazione del nuovo mondo da parte dei re di Spagna. Perché, in fondo – lo ha spiegato la storica Angela Pellicciari nel libro Una storia unica – anche la storia dei conquistadores andrebbe vista da un altro punto di vista.

Tutto questo patrimonio culturale si è andato via via perdendo, e non è stata solo la propaganda illuminista che ha poi messo il cattolicesimo dal lato sbagliato della storia. Sono stati gli stessi cattolici che, alla fine, hanno perso il senso della loro storia, e hanno accolto completamente la storia degli altri. Fino a svuotare le proprie chiese dei simboli che ne raccontano la fede.

Si arriva così alle chiese moderne, come la “Chiesa del Millennio” di Mayer a Roma, come il nuovo santuario di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, che non prendono il loro linguaggio dalla tradizione, ma piuttosto raccontano la volontà di essere belli ma simbolicamente senza storia, con l’ansia di trovare nuovi linguaggi e nuovi simboli, con l’ansia di essere moderni, appunto.

E ancora. La famiglia tradizionale è in crisi perché, in fondo, il mondo cattolico non ha saputo raccontarla. Sono anni che i modelli di famiglia presentati in televisione e al cinema sono gli altri, e viene fatto con una naturalezza tale che ormai non ci si pone più il problema. Milioni sono stati investiti in questa operazione, mentre il mondo cristiano stava a guardare e si accontentava di rimanere ai margini.

Facile dire che ormai ci troviamo in un mondo post-cristiano. Il problema non è nelle strutture di potere, non sta nel fatto che la Chiesa aveva una influenza, che ora è stata persa. Il problema è che la Chiesa non è stata in grado di proporre un modello culturale, perché non è stata in grado di guardare avanti ai tempi. È mancata la profezia, è mancata la visione.

Ci si dovrebbe interrogare sull’incapacità del mondo cattolico di lavorare nella cultura, di raccontare una storia e di difendere la sua identità più profonda. Ci si dovrebbe interrogare su questa perdita del fatto religioso, che pure avrebbe terreno fertile su cui attecchire. C’è un mondo che cerca fede, un mondo che cerca risposte.

È che queste risposte non vengono date. Tutto è collegato, e niente accade per caso. In un mondo senza cultura cristiana, è mancata anche una risposta vera della Chiesa all’emergenza del COVID 19, e oggi, quando si cerca di tornare alla normalità, in molti credono ormai che una Messa in streaming equivale alla partecipazione alla Messa stessa. Se manca il senso dell’Eucarestia, se manca il senso ultimo, è facile appassionarsi per i temi penultimi, ma di fatto si è smesso di essere credenti.

Joseph Ratzinger lanciava l’allarme di questa deriva già negli anni Cinquanta, con il saggio “I nuovi pagani e la Chiesa”. È, in fondo, un mondo di neopaganesimo, fatto di monadi e non di comunità. Ma l’essere umano ha bisogno di comunità, ha bisogno di credere in qualcosa.

È facile, allora, che altri linguaggi, altri obiettivi, vadano a riempire quel vuoto che è stato lasciato dalle religioni, e che per ora è riempito solo da un certo fideismo.

Non è un tema nuovo. Nella Ecclesia in Europa del 2003, Giovanni Paolo II scriveva

 “Il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18, 8). La troverà su queste terre della nostra Europa di antica tradizione cristiana? È un interrogativo aperto che indica con lucidità la profondità e drammaticità di una delle sfide più serie che le nostre Chiese sono chiamate ad affrontare. Si può dire – come è stato sottolineato nel Sinodo – che tale sfida consiste spesso non tanto nel battezzare i nuovi convertiti, ma nel condurre i battezzati a convertirsi a Cristo e al suo Vangelo:  nelle nostre comunità occorre preoccuparsi seriamente di portare il Vangelo della speranza a quanti sono lontani dalla fede o si sono allontanati dalla pratica cristiana.

Ritornare a Cristo è l’unico antidoto. Non c’è campagna di comunicazione, conversione pastorale, grande tema che possa prescindere da questo. Altrimenti la Chiesa potrà avere una patina luccicante, piacere al mondo secolare, ma non avrà impatto. E saranno sempre di più coloro che sfrutteranno questo vuoto per creare nuovi imperi, per sfruttare le religioni e per poi marginalizzarle, sottometterle ad altri poteri.

Ritornare a Cristo, dunque, per ricreare la cultura cattolica. È questa la sfida oggi. Perché, in fondo, da quello che si vede, parlare di cultura cattolica, e in maniera più larga di cultura cristiana, sembra forse troppo azzardato.

(nella foto, le vetrate della cattedrale di Metz)

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