C’è un confine sottile tra marketing e
giornalismo, un confine che viene sempre più oltrerpassato, quasi fino a
scomparire, con i media di oggi, a colpi di click baiting, informazione usa e getta e, perché no, anche propaganda.
Ed è stato forse questo il tema centrale della discussione al Premio Giuseppe De Carli il 16 gennaio,
sul tema “Come rendere attraente l’informazione religiosa”.
E qui
devo confessarmi colpevole: Daniel è un
amico, oltre che un collega. Abbiamo viaggiato insieme con il Papa in
Albania e in Turchia e a Bari e Loppiano, siamo stati in Iraq nel 2015 quando
c’era ancora la guerra. Daniel lavora sulle immagini con il disincanto che ha una persona che come lui ha meno di 30 anni e
la cura di un veterano. Cerca volti e mani, più che le situazioni, sebbene
sia perfettamente consapevole che sia necessario inquadrare volti e mani
all’interno di una situazione. Ed ha anche il
piglio del giornalista, perché comprende quando una foto deve essere
scattata per fare da corollario ad un evento.
Per
questo vale la pena di partire dalla
presentazione di Daniel, che vive questa esperienza a Roma anche con
l’entusiasmo del cattolico che sa di avere il privilegio di poter osservare il
Papa da vicino. Mentre noi siamo impegnati in dibattiti sul modo di governare
del Papa o sulla sua dottrina, Daniel
cerca di cogliere l’essenza della personalità del Papa in un particolare
frangente: quella del contatto con le persone, delle celebrazioni
pubbliche. Le sue foto non sono retroscena, ma scena. Ma sono autentiche perché
fatte con la cura di chi la realtà la vuole raccontare per immagini, senza
manipolazione. Sono vere. Ed è per
questo che sono belle.
Ma
davvero le cose non vere possono essere rese belle? È questa la domanda di
fondo che resta dopo il dibattito che ha preceduto la cerimonia di premiazione
del premio Giuseppe De Carli. “Come
rendere attraente l’informazione religiosa” è un tema sicuramente
accattivante, ma lascia un convitato di pietra: il tema della verità.
Il vescovo Domenico Pompili di Rieti ci ha
tenuto a sottolineare che il giornalista ha smesso di essere un narratore ed è diventato un duplicatore, nonché un
animale da sedia che non ha più bisogno di andare sul posto per raccogliere le
notizie, ma le riceve direttamente sul suo telefonino.
Il professor Sergio Tapia Velasco,
coordinatore degli studi della Facoltà di Comunicazione della Santa Croce, ha
posto l’accento sulla necessità di cercare il lato bello delle notizie
religiose, ma soprattutto di essere in grado di comunicare la fede.
Barbara Carfagna, giornalista del Tg1, ha messo
in luce come il fatto religioso sia anche al centro della riflessione sulle
nuove frontiere digitali, e in particolare in quella intelligenza artificiale
che punta a costruire robot sempre più somiglianti all’uomo in scenari che ricordano vagamente Blade Runner.
Ci sarebbero varie sfumature da
cogliere in ogni intervento, e varie osservazioni da fare.
La
questione della narrativa messa in luce dal
vescovo Pompili è per esempio tutta da discutere. Il tema della narrazione
prevede non tanto un racconto, quanto la costruzione di un racconto. E in
questo senso il giornalista è diventato un narratore, perché è una persona che cerca di rendere gustosa
l’informazione e raccogliere più lettori possibili. In un panorama di
informazione sempre più veloce e varia, la necessità di “truccare” una notizia
con una narrazione adeguata è cruciale per la sopravvivenza stessa dei media,
che hanno bisogno di audience. Al giornalista è richiesto, oggi più che mai, di
essere narratore.
E il
giornalista è, oggi più che mai, un
duplicatore, perché non esiste più la notizia originale. Esiste la notizia mainstream,
che tutti devono avere perché altrimenti la hanno “bucata”, come si dice in
gergo. Così, diventano notizie fatti apparentemente marginali solo perché
si è sicuri che facciano audience, mentre non assurgono al rango di notizie
fatti di cruciale importanza perché magari considerati troppo sofisticati per
l’audience.
È la
legge del mercato, bellezza!
Detto
questo, resta sempre il convitato di
pietra della verità. La non notizia truccata da notizia per attirare
audience e click è come la vecchia descritta da Luigi Pirandello nel suo saggio sull’Umorismo, che si trucca e imbelletta come una giovane. Da
lontano può anche apparire bella e piacente, ma man mano che ci si avvicina ci
si accorge che non solo non è bella, ma è piuttosto ridicola.
Ed è
probabilmente questo il problema che abbiamo in generale nell’informazione
religiosa, e in particolare
nella comunicazione che riguarda Papa Francesco. Presi dai gesti
eclatanti del Papa, che siano le frasi ad effetto come “una Chiesa povera per i
poveri” o “i cristiani da pasticceria” o le sue piccole intemperanze; presi a
volte dall’idea di dover difendere la Chiesa
da una narrativa che è tradizionalmente contro; presi dalla necessità
di voler a forza raccontare le cose come “belle”; perdiamo di vista la
necessità di raccontare le cose come vere.
Da una parte,
c’è il mondo dei media secolari, che
apprezzano della Chiesa tutto ciò che possono assimilare a loro, e a cui
possono dare un linguaggio politico, e da qui viene la straordinaria attenzione
data alle parole di Papa Francesco
su ecologia ed economia, mentre il totale disinteresse quando il Papa parla di
misericordia o quando prende posizioni politiche scomode, come quando attacca
l’aborto.
Dall’altra,
ci sono i media cattolici, che è invece di
usare un loro linguaggio, creando modelli narrativi che siano veri invece
che belli, riprendono i modelli comunicativi generali, e li applicano al fatto
religioso (si parla in generale, ovviamente, perché ci sono esempi luminosi di
differenza in giro). Questo crea un
paradosso dell’informazione, perché anche cose vere appaiono ridicole
perché mascherate da tecniche narrative che a volte sanno di propaganda.
Per
fare un esempio concreto e critico, senza voler attaccare personalmente
nessuno, anche il lancio di hashtags
come #francescoterapia per riferirsi al lavoro che fa Papa Francesco o
#uomodidio per riferirsi allo stesso Papa Francesco sanno di marketing, più
che di giornalismo. Puntano ad orientare chi legge verso un pensiero
pre-costituito, più che ad informare davvero. E chi va oltre questo approccio di marketing non può non sentirsi infastidito
dal modo in cui viene guidato, perché le sfumature contano e le sfumature
dicono cose diverse.
Alla
fine, l’unico vero modo di rendere
attraente un fatto religioso è semplicemente quello di approcciarsi al fatto
religioso con uno spirito “vergine”, cercando di eliminare tutti i
pregiudizi e allo stesso tempo ammettere di averne, mantenendo l’onestà di sapere che si sta raccontando
un punto di vista e cercando di raccontare questo punto di vista senza esagerazioni
retoriche.
È
difficile, nel mondo dell’informazione di oggi. Perché
al giornalista oggi, e al giornalista vaticanista in particolare, viene
chiesta una competenza molto alta, da sviluppare velocemente in un articolo che
sia approfondito e preciso, e che sia credibile.
Alla
fine la questione della verità chiede
anche di fare un passo indietro, di avere un plus di riflessione. Come spiegavo nell’analisi dei
trend della comunicazione del 2020, la soluzione sta nel festina lente, nell’affrettarsi lentamente.
In
fondo, come ha sottolineato il vicedirettore editoriale del Dicastero della
comunicazione vaticano Alessandro
Gisotti aprendo i lavori del Premio De Carli, la “tecnologia non prenderà
mai il nostro posto. Ci sarà sempre bisogno di bravi giornalisti”. Verissimo. Ma vale fin quando il giornalista riesce a
sviluppare l’amore per il vero, e l’umiltà
epistemologica per raccontarlo senza infingimenti e senza trucchi. Anche
ammettendo i propri limiti personali. Ma sempre cercando di comprendere perché,
l’unica domanda che valga davvero la pena di fare (e non è un caso che il
passaaggio più esaltante e vero dei bambini è quello in cui domandano sempre
perché).
È
fondamentale, oggi, in un mondo pieno di narrazioni. Barbara Carfagna notava che oggi, con la profilazione dei social
network, si potrebbe creare una Bibbia personalizzata per ciascuna persona,
e anche velocemente. Sicuramente sarebbe attraente.
Ma la Bibbia, una grande storia di storie di un popolo in cammino che siamo noi,
è “il libro” per eccellenza perché si basa su una verità fondamentale: la
presenza di Dio nella storia. Non ha avuto bisogno di fare marketing, anche se
qualcuno potrebbe dire che la lotta di Giacobbe
con Dio, la divisione delle acque che si riversano poi sugli egiziani, la
camminata sulle acque e l’iconico Sansone che butta giù la casa e tutti i
filistei, nonché lo straordinario diluvio universali, siano stati attrezzi
scenici non male utilizzati da Dio per dare una narrazione. E, in fondo, a
leggere la Bibbia, ci rendiamo conto che anche
il buon Dio usava una serie di frasi ad effetto, che tutti noi ricordiamo
(il Vangelo di domenica aveva la famosissima “Tu sei il mio figlio prediletto
nel quale mi sono compiaciuto”).
Eppure,
nonostante questo marketing divino
(e per divertirsi basterebbe leggersi la “Recensione preventiva” della
Bibbia di Umberto Eco nel Diario Minimo), la Bibbia è una storia che ancora attrae semplicemente
perché è vera. Attrae anche nei passaggi che un editore, per riprendere
sempre Eco, avrebbe declinato perché noiosi o troppo filosofici. Attrae perché,
alla fine dei conti, quando tutte le storie sono finite, lascia una domanda di
senso su una storia che è realmente
accaduta e che per questo noi cerchiamo di raccontarla.
In
fondo, fu questa la grande intuizione di
Giuseppe De Carli, quando lanciò la lettura integrale della Bibbia in
televisione nell’iniziativa “La Bibbia giorno e notte”. In fondo, il confine
tra marketing e giornalismo è lo stesso che c’è tra sofisti e filosofi, secondo
una distinzione evidenziata dal professor
Tapia.
De Carli aveva scelto di essere
filosofo. E noi, che giornalisti vogliamo essere? Filosofi o sofisti?
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