1. La Chiesa
dell’ascolto. Parlare di Chiesa dell’ascolto è diventato quasi di moda,
come tutte le espressioni che fanno davvero presa. Nella mia esperienza di
giornalista, ho imparato
però a diffidare dell’idea che ci possano essere delle vere rotture nella
storia. Non esistono scoop, esistono evoluzioni e novità. Le rotture,
quelle vere, sono pochissime. Mi sono chiesto, quando ho visto l’espressione,
se davvero la Chiesa di prima non fosse una Chiesa dell’ascolto. Mi sono risposto che invece sì, lo era.
Perché alla fine la Chiesa si è sempre messa in ascolto della realtà, delle
persone, ha sempre cercato di guardare ai loro bisogni, di rispondere alle loro
esigenze. Senza andare troppo indietro nel tempo, basti pensare che lo stesso Concilio Vaticano II era la risposta a
moltissime istanze che venivano da tutto il mondo, incontri, gridi di
allarme, risposte. La Chiesa non lavora per slogan, cerca un kairos, un tempo opportuno perché le
cose avvengano. È importante, dunque,
sottolineare la continuità, evitare le cesure. Ne usciamo più credibili.
Forse meno letti, ma sicuramente più credibili.
2. Il tema della pandemia. Si dice che
durante la pandemia la Chiesa sia stata portata ad ascoltare le persone, e
magari è vero. Io penso però che, durante la pandemia, la Chiesa era chiamata a dare delle risposte, più che ad ascoltare le
persone. Non bastava descrivere e seguire il momento, serviva guardare al
futuro, e dare una speranza. Serviva essere Chiesa. L’immagine della statio
orbis di Papa Francesco, con quel cammino solitario sul sagrato della
Basilica di San Pietro, era stata iconica, potente, comunicativa. Ma lasciava
l’impressione di un Papa che si prendeva sulle spalle la croce, non che aiutava
l’umanità ad avere risposte. C’era
il Papa. Non c’era la Chiesa. E la Chiesa sarebbe dovuta essere
presente. Con questo non voglio dire sia colpa del Papa. Penso però che, anche
per l’informazione religiosa, sia stata una occasione fallita. Non c’era bisogno di un Salvatore. C’era
bisogno di salvarsi. In questo, forse si è ascoltata più la voce
dell’emozione di pancia. A volte, per avere un vero impatto, si perdono di
vista delle cose importanti.
3. La comunicazione istituzionale. È un
rischio, questo, che vive molto la comunicazione istituzionale. Sono grato alla Pontificia Università della
Santa Croce, che per prima ha pensato ad una facoltà per formare quelli che
sarebbero stati i comunicatori delle diocesi. Non è piaggeria.
Dimentichiamo, nella Chiesa e nell’informazione religiosa, che c’è bisogno di
professionisti, di persone che conoscono il mestiere davvero. Sono utili,
necessari. E però c’è un rischio: la comunicazione istituzionale, per avere
impatto sui media, per essere presente, è
chiamata ad avere un approccio molto simile al marketing. Spesso, si
impacchettano prodotti già pronti per essere passati sui media, a costo anche
di semplificare, perdere sfumature, pur di essere rilevanti nei media
generalisti. Fino ad ora, è stato necessario. Io personalmente ritengo che sia
necessario ora un salto di qualità.
4. Il salto di qualità necessario. Si
tratta, in poche parole, di rovesciare il ragionamento. Più che produrre cose,
si devono individuare persone. Più che
dare ai giornalisti un prodotto finito, si devono individuare, scegliere ed
avere rapporti con quei giornalisti in grado di prendere un qualcosa di rozzo e
trasformarlo in notizia. Non spiegare ai giornalisti cosa è bene scrivere,
ma trovare giornalisti che comprendano da soli cosa scrivere, che abbiano il fiuto di riconoscere una potenziale notizia
o analisi anche laddove chi sta dando le informazioni non lo vede. Si è
lavorato molto, e giustamente, sulla tecnica. Ora è venuto il tempo di lavorare
sul materiale umano.
5. Tornare al passato per guardare al futuro. Si
tratta, in qualche modo, di tornare al passato, a quando i giornalisti
lavoravano sulle relazioni e parlavano davvero con le persone. C’era meno pigrizia e forse anche meno
tecnica. Ma era un periodo romantico e letterario, in cui la ricerca per lo
scrivere o l’esprimersi bene era sostanza. Si era profondi perché si cercava di
scrivere profondi. La tecnica era subordinata al fatto, ma il racconto del
fatto permetteva di sviluppare la tecnica. Tornare all’essere umano, tornare ai
rapporti personali, non solo è il futuro, ma è l’unico futuro possibile per
chiunque faccia comunicazione.
6. Il ruolo dell’informazione religiosa.
In questo, il ruolo dell’informazione religiosa è tutto da definire. C’è una informazione religiosa
approfondita, ben fatta, che non cede alla dittatura del lettore ma si affida
piuttosto alla democrazia del fatto da raccontare. Non del racconto, ma del
fatto da raccontare. Tra le riviste, mi viene in mente come prima Il Regno, ma anche Tempi, che sembrano essere di nicchia, ma in realtà raccontano la
Chiesa a 360 gradi, senza timori e senza paura di avere meno lettori. Ma c’è
anche una informazione religiosa che ha
ceduto il passo alla dittatura dell’opinione pubblicata, o che semplicemente ha
cominciato a cercare umori diversi da quelli dell’informazione e dell’analisi.
L’impegno, per chi fa informazione religiosa oggi, è quello di lavorare per
questo salto di qualità. Per tornare al contatto umano, per raccontare i fatti
dalla prospettiva delle persone. Se il giornalismo si fa sul campo, ancora di
più si fa sul campo l’informazione religiosa. Perché, in fondo, non si parla di
temi astratti. Si parla di uomini, di carne e di sangue, e di come grandi idee
e verità di fede cambiano la loro vita, e per questo cambiano il mondo.
7. La necessità di ripartire dalla cultura.
Perché si riesca a mettere davvero in pratica la Chiesa dell’ascolto, si
deve anche qui rovesciare il paradigma. Si devono ascoltare le grandi idee,
si deve guardare in alto, e da lì poi costruire anche per il basso, per il
“povero, l’orfano e la vedova”, secondo il dettame biblico. Si parla molto di
impatto della comunicazione, ci si lamenta che i giornalisti sono divisi in
tifoseria, ma questo è sicuramente un problema minore. Non servono le grandi piattaforme per essere rilevanti. Possono essere
utili, ma non sono il centro del problema. Per essere rilevanti bisogna
essere veri, bisogna studiare, bisogna comprendere e far comprendere. La cultura
serve per aiutare il povero, l’orfano e la vedova. Non è qualcosa di separato
dai loro bisogni alimentari, alla necessità di mettere un tetto sopra la loro
testa. Si deve andare per analisi, non
per sintesi. Con la sintesi, in fondo, si perde sempre qualcosa.
Il giornalismo è morto? Il giornalismo non è morto, dunque, come molti vogliono far credere. Il giornalismo esiste, perché tutti possono dare una notizia, specialmente oggi, ma non tutti sono giornalisti. Il giornalista è chiamato ad analizzare, a spiegare, a far entrare le persone in storie in cui probabilmente non sarebbero mai riuscite ad entrare. Il giornalista è un mediatore. Ci si riempie la bocca del giornalismo come “quarto potere”, ma questa idea del potere snatura l’essenza stessa del giornalismo. Il giornalismo è servizio, curiosità, vita. Per questo, il giornalismo non è morto, né può morire. Certo, deve evolversi. Deve trovare nuove chiavi di lettura. Fu Giuseppe De Carli, nel libro Eminenza, mi permette?, a spiegare che ormai non avevano più senso le categorie di conservatori e progressisti per distinguere un mondo cattolico che era andato oltre quel dibattito. Ma il fatto che questo non si sia ancora davvero capito testimonia quanto sia difficile fare il salto di qualità, perché è più facile mantenere i vecchi schemi. La Chiesa, però, è di più di quelli schemi. È di più di un Papa solo su un sagrato a prendersi la croce per tutti. È di più anche della nostra limitata storia. E lo è l’umanità, allo stesso modo. Si tratta, oggi, di allargare lo sguardo, andare oltre gli schemi. Io mi riferisco sempre all’ambito dell’informazione religiosa, perché è quello in cui vivo. Ma credo che sia un ragionamento che si possa applicare al giornalismo tout court.
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