Il giornalismo di Benny Lai si era formato prima del Concilio Vaticano II. Era arrivato al Vaticano quasi per caso, come succede con quelle vocazioni che non sai di avere, ma che poi prorompono nella tua vita senza un perché. Ma, nell’approccio con le cose, aveva mantenuto un particolare disincanto, che gli permetteva di guardare alle cose con un animo distaccato e con la curiosità del neofita, anche quando ormai aveva una esperienza senza pari.
Fu così che passò
indenne dalle polarizzazioni che erano necessariamente sorte nel dibattito del
Concilio Vaticano II, quando anche i vaticanisti venivano invitati alle
cene e agli incontri fuori assise dei padri conciliari, si sentivano parte del
dibattito, volevano in qualche modo influire pensando che davvero stessero
avendo un ruolo nella Chiesa.
Un po’ li sono andati a cercare, questi giornalisti, mi sono
fatto raccontare da loro quello che succedeva in quei tempi. Giancarlo Zizola non faceva mistero che
a volte addirittura scendeva in tipografia per fare le ultime correzioni ai
pezzi secondo quello che gli chiedevano le sue fonti, quando il giornale era
già in stampa e il suo direttore non poteva nemmeno controllare. Ettore Masina, seduto su un divano
insieme a sua moglie mentre mi faceva sorseggiare un menta e orzata, ricordava
di quando metteva insieme alcuni padri e conciliari e periti nel suo salotto,
per parlare dei grandi temi. Temi di cui poi ovviamente scriveva.
Era un periodo di
grande fervore intellettuale, di una energia forte che poi sarebbe sfociata
negli Anni del Sessantotto, nel fiorire dei movimenti ecclesiali, ma anche
nelle grandi ideologie che hanno distorto tutto, mostrando una realtà con le
lenti distorte della malafede che vede
complotti anche quando le spiegazioni sono semplici. Tuttora questa mentalità è
presente, i protagonisti di quegli anni ancora leggono la realtà in quel
modo, e tutti ne siamo in qualche modo vittime, me compreso.
Benny Lai, però,
passò indenne da quegli anni. Era diventato, un po’ per gioco, un po’ per caso,
confidente del Cardinale Giuseppe Siri, che era tra l’altro annoverato tra i
conservatori. Ma Siri non era un conservatore ideologico. Era un conservatore
logico, un uomo che sapeva mantenere un equilibrio e che anche lui era passato
indenne a tutte le mode del pensiero. Lui
e Benny Lai si erano trovati proprio in questo, nell’essere concreti, nel
comprendere che il mondo era certamente più semplice di come veniva descritto. Semplice e complesso, allo stesso tempo.
Un mondo da capire, con i suoi segni, con i suoi linguaggi. Un mondo cui
applicare, inesorabilmente, con un sano cinismo, anche il rasoio di Ockham, per distinguere verità da fantasia,
ideologia da fatti.
Benny Lai era un
giornalista con il taccuino, e i suoi appunti erano ambitissimi. Ma chi poteva
davvero leggere quel taccuino – e un assaggio lo si trova nei suoi Diari
Vaticani pubblicati poi con Rubbettino
– avrebbe poco capito quello che ci andava dentro. Perché Benny Lai guardava ai dettagli, era un deduttore e un induttore. Gli
interessava comprendere i simboli, e scavare dentro le persone. Era un uomo
in cui l’umanità veniva prima dell’ideologia, perché l’ideologia in fondo era
meno interessante dell’umanità, era più costruzione di pensiero che non realtà.
Per un uomo arrivato
al giornalismo perché doveva vivere di fronte ad una storia d’amore che gli
prosciugava i conti (anche se poi lui raccontava la cosa in maniera più
prosaica di così), l’umanità era la sola misura. Ed era questa umanità che
applicava alla Chiesa, ai suoi
personaggi, a quello che succedeva. Era questa umanità che gli permetteva
di andare a fondo nelle questioni, e di raccogliere nelle storie una simbologia
che poi si ritrovava solo nei simboli.
Uno deve leggere i suoi Racconti
Vaticani, cui teneva
moltissimo (“Sto cercando un editore, ma non deve essere un editore cheap”, mi diceva mentre il manoscritto
era pronto) in controluce con il suo racconto della Messa di inizio pontificato
di Giovanni XXIII, dove il dettaglio dei simboli scelti dal Papa diventava LA notizia, per comprendere come
Benny Lai giudicasse ciò che era importante.
Non le parole del
Papa, non l’inizio di un nuovo pontificato, ma i simboli scelti che
raccontavano una persona, e di fatto che prevedevano un pontificato. Perché Giovanni XXIII avrebbe dato il via al
Concilio, e nessuno lo prevedeva. Ma se si legge quel racconto di Benny Lai, qualcosa si poteva già intuire.
Allora mi viene da pensare che non sia casuale che Benny Lai
sia andato via agli albori di una nuova era, ripetendo verso la fine della vita
che quello non era più “il suo Vaticano”. Perché
ormai si perde il senso dei simboli, il pragmatismo non si lega all’umanità ma
ad una ideologia che vuole dimostrare più che raccontare qualcosa, il
Vaticano stesso sta perdendo la contezza dei suoi simboli e questo cambia
incredibilmente gli uomini e i personaggi, li rende sradicati dalla loro storia
e dalla loro memoria.
Benny Lai
probabilmente direbbe che è una Chiesa che va in periferia, ma che in fondo non
fa comunità. Che è una Chiesa sola nell’essere con gli altri perché si
svuota di linguaggi ed ha accettato di usare il linguaggio degli altri. O forse
questo lo dico io, però sempre partendo dalle parole che mi disse Benny Lai tornando, nel 2010,
dall’ultimo dibattito pubblico cui aveva partecipato, a CortinaIncontra: “Dicono che la crisi della Chiesa viene dal fatto
che non si adegua al mondo. Io credo che la Chiesa sia diventata troppo secolare, che si sia adattata troppo al
mondo, e così ha perso se stessa”.
In quel dibattito, c’erano Gianluigi Nuzzi, reduce da Vaticano S.p.A., e Giacomo Galeazzi de La Stampa, che avrebbe poi scritto due
libri con Ferruccio Pinotti, legandosi a quel nuovo filone di giornalisti
che raccontano il Vaticano dall’esterno, con chiavi di lettura laiche e dunque
inadeguate per comprenderne la storia.
L’esatto inverso di quello che Benny Lai imputava a Benedetto XVI, che invece considerava troppo
buono nel giudicare la Curia. “È un uomo che viene dalla Curia, ma non conosce
la Curia”, diceva, come a rimproverare il fatto che no, il Papa emerito non
avrebbe mai visto la malafede di alcuni.
Oggi, un po’ manca quella voce di analisi. Il giornalismo si è fatto veloce, troppo
veloce per poter davvero analizzare, e ci vuole una ottima struttura
personale per poter essere veloci e approfonditi e non cedere all’ideologia,
con la consapevolezza che mancherebbe sempre qualcosa alla lettura dei fatti. Questa velocità ha fatto perdere il
contatto con l’umanità, che invece Benny Lai cercava prima di ogni altra
cosa. Ed è incredibile a dirsi, in un uomo che poi viveva in una sana dose di
materialismo.
Otto anni dopo, non è solo Benny Lai che è mancato. È mancata la voce autorevole di un
giornalismo non urlato, non scandalistico, che non chiude gli occhi di fronte
ai problemi, ma che sa in qualche modo anche contestualizzarli. Un giornalismo che parla con tutti e non si
lega davvero a nessuno. Un giornalismo che sa davvero essere sottovoce,
perché in fondo i signori non hanno bisogno di urlare: basta la loro presenza.
E Benny Lai, in fondo, era un signore.
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