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domenica 12 dicembre 2021

Benny Lai, otto anni dopo

Fa riflettere che Benny Lai, il decano dei vaticanisti italiani e l’uomo che inventò il nome stesso di vaticanista, se ne sia andato otto anni fa. Del pontificato di Papa Francesco non ha visto che l’inizio, ma ha fatto in tempo a vedere, cosa unica nella storia moderna, la rinuncia di un Papa, Benedetto XVI, che lui aveva seguito con attenzione, seppur ormai con lo sguardo del “grande vecchio”, di colui che ne aveva viste tante e che poteva fare un passo indietro ed osservare dall’alto. Non scriveva più giorno dopo giorno, Benny Lai, e questo si addiceva di più al suo modo di fare giornalismo, riflessivo, attento ai segni e ai simboli, con un fare un po’ sornione e un po’ ironico che era davvero la sua salvezza.

Il giornalismo di Benny Lai si era formato prima del Concilio Vaticano II. Era arrivato al Vaticano quasi per caso, come succede con quelle vocazioni che non sai di avere, ma che poi prorompono nella tua vita senza un perché. Ma, nell’approccio con le cose, aveva mantenuto un particolare disincanto, che gli permetteva di guardare alle cose con un animo distaccato e con la curiosità del neofita, anche quando ormai aveva una esperienza senza pari.

Fu così che passò indenne dalle polarizzazioni che erano necessariamente sorte nel dibattito del Concilio Vaticano II, quando anche i vaticanisti venivano invitati alle cene e agli incontri fuori assise dei padri conciliari, si sentivano parte del dibattito, volevano in qualche modo influire pensando che davvero stessero avendo un ruolo nella Chiesa.

Un po’ li sono andati a cercare, questi giornalisti, mi sono fatto raccontare da loro quello che succedeva in quei tempi. Giancarlo Zizola non faceva mistero che a volte addirittura scendeva in tipografia per fare le ultime correzioni ai pezzi secondo quello che gli chiedevano le sue fonti, quando il giornale era già in stampa e il suo direttore non poteva nemmeno controllare. Ettore Masina, seduto su un divano insieme a sua moglie mentre mi faceva sorseggiare un menta e orzata, ricordava di quando metteva insieme alcuni padri e conciliari e periti nel suo salotto, per parlare dei grandi temi. Temi di cui poi ovviamente scriveva.

Era un periodo di grande fervore intellettuale, di una energia forte che poi sarebbe sfociata negli Anni del Sessantotto, nel fiorire dei movimenti ecclesiali, ma anche nelle grandi ideologie che hanno distorto tutto, mostrando una realtà con le lenti distorte della malafede che vede complotti anche quando le spiegazioni sono semplici. Tuttora questa mentalità è presente, i protagonisti di quegli anni ancora leggono la realtà in quel modo, e tutti ne siamo in qualche modo vittime, me compreso.

Benny Lai, però, passò indenne da quegli anni. Era diventato, un po’ per gioco, un po’ per caso, confidente del Cardinale Giuseppe Siri, che era tra l’altro annoverato tra i conservatori. Ma Siri non era un conservatore ideologico. Era un conservatore logico, un uomo che sapeva mantenere un equilibrio e che anche lui era passato indenne a tutte le mode del pensiero. Lui e Benny Lai si erano trovati proprio in questo, nell’essere concreti, nel comprendere che il mondo era certamente più semplice di come veniva descritto. Semplice e complesso, allo stesso tempo. Un mondo da capire, con i suoi segni, con i suoi linguaggi. Un mondo cui applicare, inesorabilmente, con un sano cinismo, anche il rasoio di Ockham, per distinguere verità da fantasia, ideologia da fatti.

Benny Lai era un giornalista con il taccuino, e i suoi appunti erano ambitissimi. Ma chi poteva davvero leggere quel taccuino – e un assaggio lo si trova nei suoi Diari Vaticani pubblicati poi con Rubbettino – avrebbe poco capito quello che ci andava dentro. Perché Benny Lai guardava ai dettagli, era un deduttore e un induttore. Gli interessava comprendere i simboli, e scavare dentro le persone. Era un uomo in cui l’umanità veniva prima dell’ideologia, perché l’ideologia in fondo era meno interessante dell’umanità, era più costruzione di pensiero che non realtà.

Per un uomo arrivato al giornalismo perché doveva vivere di fronte ad una storia d’amore che gli prosciugava i conti (anche se poi lui raccontava la cosa in maniera più prosaica di così), l’umanità era la sola misura. Ed era questa umanità che applicava alla Chiesa, ai suoi personaggi, a quello che succedeva. Era questa umanità che gli permetteva di andare a fondo nelle questioni, e di raccogliere nelle storie una simbologia che poi si ritrovava solo nei simboli.

Uno deve leggere i suoi Racconti Vaticani, cui teneva moltissimo (“Sto cercando un editore, ma non deve essere un editore cheap”, mi diceva mentre il manoscritto era pronto) in controluce con il suo racconto della Messa di inizio pontificato di Giovanni XXIII, dove il dettaglio dei simboli scelti dal Papa diventava LA notizia, per comprendere come Benny Lai giudicasse ciò che era importante.

 Non le parole del Papa, non l’inizio di un nuovo pontificato, ma i simboli scelti che raccontavano una persona, e di fatto che prevedevano un pontificato. Perché Giovanni XXIII avrebbe dato il via al Concilio, e nessuno lo prevedeva. Ma se si legge quel racconto di Benny Lai, qualcosa si poteva già intuire.

Allora mi viene da pensare che non sia casuale che Benny Lai sia andato via agli albori di una nuova era, ripetendo verso la fine della vita che quello non era più “il suo Vaticano”. Perché ormai si perde il senso dei simboli, il pragmatismo non si lega all’umanità ma ad una ideologia che vuole dimostrare più che raccontare qualcosa, il Vaticano stesso sta perdendo la contezza dei suoi simboli e questo cambia incredibilmente gli uomini e i personaggi, li rende sradicati dalla loro storia e dalla loro memoria.

Benny Lai probabilmente direbbe che è una Chiesa che va in periferia, ma che in fondo non fa comunità. Che è una Chiesa sola nell’essere con gli altri perché si svuota di linguaggi ed ha accettato di usare il linguaggio degli altri. O forse questo lo dico io, però sempre partendo dalle parole che mi disse Benny Lai tornando, nel 2010, dall’ultimo dibattito pubblico cui aveva partecipato, a CortinaIncontra: “Dicono che la crisi della Chiesa viene dal fatto che non si adegua al mondo. Io credo che la Chiesa sia diventata troppo secolare, che si sia adattata troppo al mondo, e così ha perso se stessa”.

In quel dibattito, c’erano Gianluigi Nuzzi, reduce da Vaticano S.p.A., e Giacomo Galeazzi de La Stampa, che avrebbe poi scritto due libri con Ferruccio Pinotti, legandosi a quel nuovo filone di giornalisti che raccontano il Vaticano dall’esterno, con chiavi di lettura laiche e dunque inadeguate per comprenderne la storia.

L’esatto inverso di quello che Benny Lai imputava a Benedetto XVI, che invece considerava troppo buono nel giudicare la Curia. “È un uomo che viene dalla Curia, ma non conosce la Curia”, diceva, come a rimproverare il fatto che no, il Papa emerito non avrebbe mai visto la malafede di alcuni.

Oggi, un po’ manca quella voce di analisi. Il giornalismo si è fatto veloce, troppo veloce per poter davvero analizzare, e ci vuole una ottima struttura personale per poter essere veloci e approfonditi e non cedere all’ideologia, con la consapevolezza che mancherebbe sempre qualcosa alla lettura dei fatti. Questa velocità ha fatto perdere il contatto con l’umanità, che invece Benny Lai cercava prima di ogni altra cosa. Ed è incredibile a dirsi, in un uomo che poi viveva in una sana dose di materialismo.

Otto anni dopo, non è solo Benny Lai che è mancato. È mancata la voce autorevole di un giornalismo non urlato, non scandalistico, che non chiude gli occhi di fronte ai problemi, ma che sa in qualche modo anche contestualizzarli. Un giornalismo che parla con tutti e non si lega davvero a nessuno. Un giornalismo che sa davvero essere sottovoce, perché in fondo i signori non hanno bisogno di urlare: basta la loro presenza. E Benny Lai, in fondo, era un signore.

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