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giovedì 16 aprile 2020

Ad multos annos, Benedetto XVI! La sua eredità

Dovremo fare in modo che una idea conti più di una immagine”, aveva detto Benedetto XVI a Joaquin Navarro Valls, direttore della Sala Stampa della Santa Sede. Ed è stata questa la grande sfida di Benedetto XVI da Papa, e di Joseph Ratzinger da teologo e professore: mettere in luce le idee, portarle avanti, nutrirle, perché attraverso le idee si cerca la verità. Per farlo, utilizza un mezzo di comunicazione straordinario, eppure così sottovalutato oggi: il libro.


 Benedetto XVI è un uomo che comunica con i libri, o che comunque dà al suo pensiero il respiro di un libro. Sbaglia chi pensa che i “mezzi” della comunicazione siano neutri. Tutti hanno un loro linguaggio, e tutti vanno letti secondo il loro linguaggio. Ma sbaglia anche chi pensa che il mezzo cambi le persone. Ogni persona dà ad un mezzo il suo respiro, il suo ritmo, le sue caratteristiche. E Benedetto XVI ha il respiro dei libri.

Per questo, si devono leggere i suoi libri per apprezzarne in appieno il suo  ragionamento. E si devono leggere i suoi libri per comprendere la sua vita e il suo pontificato. C’è, in Benedetto XVI, una aderenza cristallina a quello che scrive. Lui scrive perché crede, e crede perché sente che tutto è ragionevole, logico, consequenziale. Ed è così che lo racconta.

Nel giorno del 93esimo compleanno di Benedetto XVI, vale la pena ripercorrere la sua biografia a partire proprio dai suoi libri. Ed è necessario partire da un libro centrale: il secondo volume del Gesù di Nazareth.

La chiave di tutta la vita e la storia di Benedetto XVI è stato questo approccio alla storia di Gesù. Un approccio genuino, vero, che si scrollava di dosso della freddezza del metodo storico critico. I Vangeli sono veri, e dunque raccontano una storia vera. Si deve partire da quella prospettiva, e non da altre prospettive.

Il capitolo sulla Resurrezione del secondo volume di Gesù di Nazareth è stato probabilmente quello più difficile da scrivere, per Benedetto XVI. Come raccontare lo stupore degli apostoli di fronte a un Dio crocifisso. Come definire un Messia che era arrivato, ma aveva portato un mondo nuovo completamente diverso da quello che si pensava? C’era un mondo nuovo, dato dalla Resurrezione. Ma continuava a persistere il mondo vecchio, non era arrivata la fine dei tempi. Si chiedeva ai cristiani di vivere, e di vivere pienamente. E si chiedeva di avere l’apertura di mente di rileggere i segni della storia, reinterpretare la scrittura. Quella di Gesù crocifisso e risorto è una verità che si propone all’uomo. E l’uomo deve saperla cogliere.

La trilogia di libri su Gesù è un progetto che Benedetto XVI aveva accarezzato a lungo. Era parte di un lavoro teologico lungo una vita, che si era nutrito però anche di vita vera. Ratzinger aveva cominciato la sua carriera di teologo dopo una esperienza pastorale come viceparroco nella Chiesa del Preziosissimo Sangue. Fu una esperienza determinante.

L’ascolto delle confessioni gli fece comprendere che non c’è più una Chiesa di pagani diventati cristiani, ma c’era piuttosto una Chiesa di cristiani che si autodefiniscono cristiani eppure sono pagani. Ne venne fuori un saggio, “I nuovi pagani e la Chiesa”, che parte da un dettaglio per guardare all’universale. È l’Europa stessa la culla di questa perdita di identità, è l’Europa che ha favorito questa “paganizzazione”.

Questo tema resta forte in tutto il pensiero di Ratzinger, tanto che nel 1992 scriverà il volume “Una svolta per l’Europa”, e poi nel 2004 “Senza radici” con Marcello Pera.

L’Opera Omnia di Benedetto XVI consta di 16 volumi, ed è significativo che il primo volume pubblicato sia stato “Teologia della Liturgia”, l’undicesimo della serie. Lo ha deciso lo stesso Benedetto XVI, il quale ha spiegato nell’introduzione che “la liturgia della Chiesa è stata per me, sin dalla mia infanzia, l’attività centrale della mia vita”.

Si comprende da qui la “rivoluzione tranquilla” di Benedetto XVI. Questa non aveva riguardato solo la riforma delle strutture, che era piuttosto una conseguenza. Nasceva  proprio dall’esigenza di mettere al centro la fede nella verità di Cristo.

A piccoli passi, il Papa ha chiesto che il crocifisso fosse posizionato al centro dell’altare, poi ha disposto che quanti prendevano la comunione dalle sue mani l’avrebbero dovuta prendere in ginocchio, poi ha liberalizzato il rito straordinario, con una decisione che ha creato polemiche e controversie ma che in realtà era parte di un progetto di unire la comunità cristiana.

Perché “la Chiesa si costituisce sempre intorno ad un altare”, sottolineava Ratzinger ne “Il Popolo di Dio in Sant’Agostino”, primo volume della serie dell’Opera Omnia che non è altro che la tesi di dottorato che Ratzinger portò a termine nel 1950. E il popolo di Dio – continuava Ratzinger – è un popolo eucaristico.

Togliere questa dimensione spirituale al pensiero di Benedetto XVI è togliergli tutto. Il pensiero del Papa emerito non si può piegare ad interpretazioni politiche. Guarda in alto, chiede al mondo di guardare alla verità e di approcciarsi alla verità con umiltà e volontà di capire.

Un compito difficile, e difficilmente interpretabile da molti. Eppure, basterebbe questo per riuscire davvero a vedere Benedetto XVI dalla sua prospettiva. Un esempio? L’uso della parola “demondanizzazione” durante il suo ultimo viaggio in Germania, nel 2011.

I discorsi di quel viaggio sono probabilmente tra le pietre miliari del Pontificato. Benedetto XVI ha messo a nudo le pretese politiche di chi pensava che l’ecumenismo potesse essere fatto con iniziative di tipo “politico”, come la revoca delle scomuniche, e ha invece portato come dono ecumenico ad Erfurt la comune preghiera a Dio. Ha messo in crisi la Chiesa tedesca che si nutriva della grandezza e della organizzazione delle sue strutture, e ha sottolineato che la fede deve essere il fondamento, mettendo in luce il rischio di rendere una funzione anche il sacerdozio. E ha parlato della demondanizzazione della Chiesa, necessaria proprio per tornare alle origini. Una demondanizzazione così necessari che Benedetto XVI aveva definito le ondate di secolarizzazione come provvidenziali per riportare la Chiesa alla sua essenza.

Ma questa demondanizzazione va letta proprio a partire dalla ecclesiologia di Ratzinger. Un pensiero che si fondava sul pensiero di Agostino e sui Padri della Chiesa, anticipando molti dei temi del Concilio Vaticano II.

Leggendo il tutto da questa ottica, comprendiamo che per Ratzinger essere “attorno all’altare” non significa chiudersi di fronte al mondo, alla collaborazione con gli stati, all’uso del beni per la carità. Non è uno “spiritualismo” che allontana il Popolo di Dio dalla realtà. Al contrario, permette al credente di essere nel mondo, ma non del mondo. È così che il credente porta la “nuova forza della fede nell’unità degli uomini nel Corpo di Cristo, come un elemento di trasformazione che Dio stesso porterà a compimento quando questa storia sarà ormai giunta al suo traguardo”.

Demondanizzare è trasformare e unire, e per farlo la Chiesa ha un mezzo che ha radici antichissime: il diritto canonico, l’unico diritto realmente globale e universale del mondo, sul quale Benedetto XVI ha incardinato una parte della sua rivoluzione tranquilla.

Antonio Rosmini sosteneva che “la persona umana è l’essenza del diritto”, e Benedetto XVI fece sue queste parole in occasione del ventesimo anniversario della promulgazione del codice di diritto canonico. E poi continuò: “Lo Ius Ecclesiae non è solo un insieme di norme prodotte dal Legislatore ecclesiale. È in primo luogo la dichiarazione autorevole dei doveri e dei diritti che si fondano nei sacramenti e che sono quindi nati dall’istituzione di Cristo stesso”.

Basta riguardare i libri di Ratzinger per rileggere il Pontificato. E serve guardare anche un po’ avanti, a quel terzo volume del Gesù di Nazareth. Perché come la Resurrezione è il compimento della storia, la nascita ne rappresenta l’inizio. In fondo, spiega Benedetto XVI, le parole della scrittura sono “come vagabonde, finché non nasce Gesù”.

In “Immagini di speranza. Le feste cristiane in compagnia del Papa”, Joseph Ratzinger si chiede chi riconobbe Gesù. E trova la risposta nel Vangelo di Matteo: a non riconoscere fu Erode e “tutta Gerusalemme con lui”, ovvero i dotti, gli specialisti dell’interpretazione.

“E la nostra posizione qual è? – si chiede Ratzinger- Siamo tanto lontani dalla stalla appunto perché siamo troppo raffinati e intelligenti per questo? Non ci perdiamo anche noi in una dotta esegesi biblica, nei tentativi di dimostrare l’inautenticità o l’autenticità storica di un certo passo, al punto da divenire ciechi nei confronti del Bambino e non percepire più nulla di lui? Non viviamo anche noi troppo in ‘Gerusalemme’, nel palazzo, racchiusi in noi, nella nostra autonomia, nella nostra paura di persecuzione, sì da non riuscire più a percepire di notte la voce degli angeli, unirci ad essa e adorare?”

Ed è qui che si comprende che il pensiero di Benedetto XVI è un pensiero davvero popolare, perché guarda al popolo. Un popolo reso vivo dalla fede cristiana, in grado di leggere i segni di Dio. Un popolo eucaristico, di credenti, che non vive di contrapposizioni, ma di proposte. Un popolo che accoglie la verità di Dio senza sovrastrutture politiche ed ideologiche, e la porta poi nella vita concreta.

È un popolo che fa il mondo e fa la storia. Ma è un popolo che guarda alle cose di lassù. Rileggere Benedetto XVI è fondamentale. Glielo dobbiamo, per comprendere davvero il suo pontificato. Perché probabilmente quel pontificato non potrà essere capito per anni, in quanto la sua dimensione comunicativa non si fermava nello spazio di un discorso o di un gesto. Era la comunicazione di una vita.

Vale la pena dirlo oggi, nel giorno del compleanno del Papa emerito. Ad multos annos, Benedetto XVI!

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