Processo Palazzo di Londra

giovedì 12 dicembre 2019

Quel vaticanismo antico di Benny Lai di cui oggi ci sarebbe tanto bisogno



È difficile non pensare a Benny Lai, quando si pensa al mestiere del vaticanista. Difficile, perché Benny Lai è stato uno dei pionieri di questo mestiere. Quando c’era la prima Sala Stampa della Santa Sede annessa all’Osservatore Romano, dopo la Seconda Guerra Mondiale, lui era lì. Ed era lì durante la transizione da Pio XII a Giovanni XXIII, era lì quando è iniziato il Concilio Vaticano II, era lì durante il pontificato di Paolo VI e l’arrivo di San Giovanni Paolo II. Era lì con Benedetto XVI. E c’è stato per i primi mesi del Pontificato di Papa Francesco. Ma era da tempo che continuava a dire: “Questo non è più il mio vaticano”.


 Il mio Vaticano” è intitolato appunto uno dei libri di Benny Lai. Forse quello di meno facile lettura, perché si tratta semplicemente della trascrizione del suo diario. Eppure, è quello probabilmente più interessante, per lo meno per chi vuole comprendere le pieghe di questo mestiere. Perché in quel libro si ritrovano appunti che poi Benny Lai sviluppa in altri capolavori, come “Vaticano sottovoce”. Vi si trova, soprattutto, il senso del cronista.

Sei anni dopo la sua scomparsa, il vaticanismo che insegnava Benny Lai sembra non esistere più. Si potrebbe dire che è normale che non esista più, che i tempi sono cambiati, che quello stile non si adatta più ai tempi di oggi. Ma io non credo sia così. Perché non è semplicemente questione di stile.

Benny Lai era prima di tutto un cronista. Un osservatore disincantato della realtà, cui si avvicinava con curiosità e umiltà epistemologica. Non aveva pregiudizi, e se ne aveva li sapeva mettere da parte. Aveva un sano cinismo, non cattivo, nell’approcciarsi alle persone. Sapeva riconoscere chi lo usava e chi poteva usare, e in entrambi i casi poteva accettare o non accettare la sfida. Ma lo faceva sempre con un sereno distacco.

Benny Lai era in secondo luogo uno storico. Amava girare gli archivi, leggere, comprendere. Il lavoro documentale era fondamentale, specialmente in volumi come “Affari del Papa. Storia di monsignori, nobiluomini e faccendieri nella Roma dell’Ottocento”; o “Finanze Vaticane”. Benny Lai si approcciava alle carte come si approcciava alle persone: con curiosità, sano cinismo, ironia. Perché anche i dettagli necessitano di una lettura di insieme, e il colpo d’occhio istintivo è fondamentale per farlo.

Benny Lai era in terzo luogo un analista. Nessuna delle analisi che faceva mancava di un riferimento alla cronaca o alla storia. Tutto doveva essere concreto, perché amava toccare le cose con mano. Era materialista, a suo modo, ed era materialista anche nel gestire l’informazione. Ci sono suoi articoli davvero poetici per il modo in cui descrivono il Vaticano, analisi mascherate da cronache che lui rende con pochi, ma incisivi dettagli.

Benny Lai era infine uno scrittore. Non dava mai solo la notizia, forniva la storia e dava descrizioni dettagliatissime. Celebre un suo ritratto di Madre Teresa di Calcutta, come i suoi racconti a viva voce del suo incontro con l’allora sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Giovanbattista Montini - che divenne poi Papa Paolo VI - quando andò a ritirare l’accredito della Sala Stampa Vaticana. “Aveva gli occhi che si aprivano quando ti guardava,” amava sottolineare Benny Lai di Montini.

Sono quattro caratteristiche fondamentali, in un giornalista, e in particolare in un giornalista che si occupa di Vaticano. Non possono essere scisse, eppure sono difficilissime da trovare in una sola persona. Non c’è nemmeno una ricetta innata. Vaticanisti si diventa, ma si devono comprendere linguaggio, uscire dai pregiudizi, mettere da parte la terminologia politica che va tanto di moda oggi come lo andava cinquanta anni fa, ai tempi del Concilio Vaticano II. Terminologia che Benny Lai tendeva a non usare, perché lui giudicava i fatti, non le persone, alle quali concedeva sempre il sano diritto di non essere perfette.

Ormai, però, la narrativa ha preso il sopravvento su tutto. E la narrativa viene forzata anche nei modi in cui si ottengono le informazioni. Le stesse interviste sono mirate ad avere certe risposte, non sono aperte alla comprensione.

Così, perché tutte queste caratteristiche siano presenti in un vaticanista, c’è bisogno di un’altra caratteristica tipica di Benny Lai: il garbo un po’ sornione con cui approcciava le persone con cui doveva relazionarsi per avere le informazioni.

Ed è lì che entra in gioco il mito del Vaticano sottovoce. Un Vaticano che veniva sussurrato, perché le cose non venivano messe in piazza, e nemmeno venivano raccontate. Venivano spiegate per parabole e perifrasi, e un vaticanista – cronista come Benny Lai doveva comprenderlo. E lo faceva adottandone il linguaggio, le mezze parole, la simbologia. Era un interprete che si immergeva totalmente nell’altro linguaggio, fino a rimanerne affascinato e a volte a usarlo anche nella vita reale. Se c’è una Sindrome di Stoccolma applicabile agli ambienti che viviamo nostro malgrado e di cui siamo permeati, Benny Lai ne era affetto.

Sono tutte qualità necessarie ancora oggi. Perché, è vero, i tempi sono cambiati, ma il mestiere vero resta quello di sempre. Vale a dire, quello di parlare con le persone, farsi una idea, dare una sintesi, raccontare storie, ma sempre ricordandosi la necessità di avere uno sguardo disincantato su quello che è il mondo di cui ci occupiamo.

Non è più il Vaticano di Benny Lai perché non ci sono più equilibri. La caccia allo scoop è diventata quasi feroce, e questo a tutto discapito della conoscenza delle persone, che magari permetterebbe di raccontare le cose in maniera migliore e più approfondita. Diceva Benny Lai che non è importante dare la notizia per primi, ma spiegare il perché della notizia, andare a fondo. È un discorso molto difficile da comprendere oggi, sebbene sia validissimo e vero.  

Non è più il Vaticano di Benny Lai perché questo Vaticano sembra mettere da parte l’istituzione, quasi a volersene liberare. Eppure, queste strutture hanno fatto bene, e potrebbero fare anche meglio.

Non è più il Vaticano di Benny Lai perché è un Vaticano che non ha più impatto nella società, e sembra non volerne avere. È un Vaticano che dà meno peso alle istituzioni e al linguaggio delle istituzioni, ma che utilizza nuovi linguaggi.

E non è più il giornalismo di Benny Lai perché, in fondo, si continuano ad usare schemi di interpretazione vecchi in un mondo nuovo, sempre giudicandolo, in bene o in male.

Ma Benny Lai insegna che il giudizio viene dopo la cronaca, che la storia è un veicolo che deve trasportare il lettore e non può essere trasportato dall’ideologia, che i tempi vanno compresi prima che criticati.

No, quello di Benny Lai non è un vaticanismo vecchio. Forse è un vaticanismo antico, ma questo deve essere detto con tutto il rispetto e la reverenza che si dà alle cose antiche. E il fatto che queste cose antiche si stiano estinguendo non è un buon segnale.

Lo penso ogni volta che rileggo un pezzo di Benny, che ascolto l’audio di una delle sue interviste nelle cassette che mi ha lasciato, che mi capita di leggere alcuni dei suoi appunti. Oggi, sei anni dopo la sua scomparsa, si può dire che c’è una cosa che è fortemente mancata: una scuola reale di vaticanismo, un qualcosa che potesse rendere concreta l’eredità lasciata da Benny Lai e da altri straordinari cantori vaticani della sua generazione.

1 commento:

  1. Una riflessione che è una fotografia ineccepibile. Purtroppo. Tempi andati, ormai. E oggi i rappresentanti giovani di quel vaticanismo antiche sono pochi, troppo pochi.

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