È difficile non pensare a Benny Lai, quando si pensa al mestiere del vaticanista. Difficile,
perché Benny Lai è stato uno dei
pionieri di questo mestiere. Quando c’era la prima Sala Stampa della Santa
Sede annessa all’Osservatore Romano,
dopo la Seconda Guerra Mondiale, lui era lì. Ed era lì durante la transizione
da Pio XII a Giovanni XXIII, era lì
quando è iniziato il Concilio Vaticano II, era lì durante il pontificato di Paolo VI e l’arrivo di San Giovanni Paolo
II. Era lì con Benedetto XVI. E
c’è stato per i primi mesi del Pontificato di Papa Francesco. Ma era da tempo
che continuava a dire: “Questo non è più
il mio vaticano”.
Sei anni dopo la sua scomparsa, il vaticanismo che insegnava
Benny Lai sembra non esistere più. Si potrebbe dire che è normale che non
esista più, che i tempi sono cambiati, che quello stile non si adatta più ai
tempi di oggi. Ma io non credo sia così. Perché
non è semplicemente questione di stile.
Benny Lai era prima
di tutto un cronista. Un osservatore disincantato della realtà, cui si
avvicinava con curiosità e umiltà epistemologica. Non aveva pregiudizi, e se ne
aveva li sapeva mettere da parte. Aveva
un sano cinismo, non cattivo, nell’approcciarsi alle persone. Sapeva
riconoscere chi lo usava e chi poteva usare, e in entrambi i casi poteva
accettare o non accettare la sfida. Ma lo faceva sempre con un sereno distacco.
Benny Lai era in
secondo luogo uno storico. Amava girare gli archivi, leggere, comprendere.
Il lavoro documentale era fondamentale, specialmente in volumi come “Affari del
Papa. Storia di monsignori, nobiluomini e faccendieri nella Roma
dell’Ottocento”; o “Finanze Vaticane”. Benny
Lai si approcciava alle carte come si approcciava alle persone: con
curiosità, sano cinismo, ironia. Perché anche i dettagli necessitano di una
lettura di insieme, e il colpo d’occhio istintivo è fondamentale per farlo.
Benny Lai era in terzo
luogo un analista. Nessuna delle analisi che faceva mancava di un
riferimento alla cronaca o alla storia. Tutto doveva essere concreto, perché
amava toccare le cose con mano. Era
materialista, a suo modo, ed era materialista anche nel gestire l’informazione.
Ci sono suoi articoli davvero poetici per il modo in cui descrivono il
Vaticano, analisi mascherate da cronache che lui rende con pochi, ma incisivi
dettagli.
Benny Lai era infine
uno scrittore. Non dava mai solo la notizia, forniva la storia e dava descrizioni
dettagliatissime. Celebre un suo ritratto di Madre Teresa di Calcutta, come i
suoi racconti a viva voce del suo incontro con l’allora sostituto della
Segreteria di Stato, monsignor
Giovanbattista Montini - che divenne poi Papa Paolo VI - quando andò a
ritirare l’accredito della Sala Stampa Vaticana. “Aveva
gli occhi che si aprivano quando ti guardava,” amava sottolineare Benny Lai di
Montini.
Sono quattro
caratteristiche fondamentali, in un giornalista, e in particolare in un
giornalista che si occupa di Vaticano. Non possono essere scisse, eppure
sono difficilissime da trovare in una sola persona. Non c’è nemmeno una ricetta
innata. Vaticanisti si diventa, ma si devono comprendere linguaggio, uscire dai
pregiudizi, mettere da parte la terminologia
politica che va tanto di moda oggi come lo andava cinquanta anni fa, ai tempi
del Concilio Vaticano II. Terminologia che Benny Lai tendeva a non usare,
perché lui giudicava i fatti, non le persone, alle quali concedeva sempre il sano diritto di non essere perfette.
Ormai, però, la
narrativa ha preso il sopravvento su tutto. E la narrativa viene forzata
anche nei modi in cui si ottengono le informazioni. Le stesse interviste sono
mirate ad avere certe risposte, non sono aperte alla comprensione.
Così, perché tutte queste caratteristiche siano presenti in
un vaticanista, c’è bisogno di un’altra caratteristica
tipica di Benny Lai: il garbo un po’ sornione con cui approcciava le
persone con cui doveva relazionarsi per avere le informazioni.
Ed è lì che entra in
gioco il mito del Vaticano sottovoce. Un Vaticano che veniva sussurrato,
perché le cose non venivano messe in piazza, e nemmeno venivano raccontate. Venivano
spiegate per parabole e perifrasi, e un vaticanista – cronista come Benny Lai doveva comprenderlo. E lo
faceva adottandone il linguaggio, le mezze parole, la simbologia. Era un interprete che si immergeva
totalmente nell’altro linguaggio, fino a rimanerne affascinato e a volte a
usarlo anche nella vita reale. Se c’è una Sindrome di Stoccolma applicabile
agli ambienti che viviamo nostro malgrado e di cui siamo permeati, Benny Lai ne era affetto.
Sono tutte qualità necessarie ancora oggi. Perché, è vero, i tempi sono cambiati, ma
il mestiere vero resta quello di sempre. Vale a dire, quello di parlare con
le persone, farsi una idea, dare una sintesi, raccontare storie, ma sempre
ricordandosi la necessità di avere uno sguardo
disincantato su quello che è il mondo di cui ci occupiamo.
Non è più il Vaticano
di Benny Lai perché non ci sono più equilibri. La caccia allo scoop è
diventata quasi feroce, e questo a tutto discapito della conoscenza delle
persone, che magari permetterebbe di raccontare le cose in maniera migliore e
più approfondita. Diceva Benny Lai che
non è importante dare la notizia per primi, ma spiegare il perché della
notizia, andare a fondo. È un discorso molto difficile da comprendere oggi,
sebbene sia validissimo e vero.
Non è più il Vaticano
di Benny Lai perché questo Vaticano sembra mettere da parte l’istituzione,
quasi a volersene liberare. Eppure, queste strutture hanno fatto bene, e
potrebbero fare anche meglio.
Non è più il Vaticano
di Benny Lai perché è un Vaticano che non ha più impatto nella società, e
sembra non volerne avere. È un Vaticano che dà meno peso alle istituzioni e
al linguaggio delle istituzioni, ma che utilizza nuovi linguaggi.
E non è più il giornalismo di Benny Lai perché, in fondo, si continuano ad usare schemi di
interpretazione vecchi in un mondo nuovo, sempre giudicandolo, in bene o in
male.
Ma Benny Lai insegna
che il giudizio viene dopo la cronaca, che la storia è un veicolo che deve
trasportare il lettore e non può essere trasportato dall’ideologia, che i tempi
vanno compresi prima che criticati.
No, quello di Benny Lai non è un vaticanismo vecchio. Forse
è un vaticanismo antico, ma questo
deve essere detto con tutto il rispetto e la reverenza che si dà alle cose
antiche. E il fatto che queste cose antiche si stiano estinguendo non è un buon
segnale.
Lo penso ogni volta
che rileggo un pezzo di Benny, che ascolto l’audio di una delle sue interviste
nelle cassette che mi ha lasciato, che mi capita di leggere alcuni dei suoi
appunti. Oggi, sei anni dopo la sua scomparsa, si può dire che c’è una cosa
che è fortemente mancata: una scuola
reale di vaticanismo, un qualcosa che potesse rendere concreta l’eredità
lasciata da Benny Lai e da altri straordinari cantori vaticani della sua
generazione.
Una riflessione che è una fotografia ineccepibile. Purtroppo. Tempi andati, ormai. E oggi i rappresentanti giovani di quel vaticanismo antiche sono pochi, troppo pochi.
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