Oddio, alcuni dicono “il giorno che Benedetto XVI si è dimesso”, in maniera un po’ impropria, mentre in pochi dicono l’anno, e pochissimi ricordano la data. Che poi, era un 11 febbraio. Giorno della Nostra Signora di Lourdes, in ricordo della prima apparizione. Anniversario dei Patti Lateranensi, e per questo festivo in Vaticano.
L’11 febbraio 2013, con una breve declaratio, in latino, al termine di un concistoro per la decisione su alcune date di canonizzazione, Benedetto XVI cambiava il corso della storia, in un modo inaspettato come solo le persone che non vogliono fare la storia sanno fare.
Con quella rinuncia, è cambiato anche il modo di essere vaticanisti. C’è un prima e un dopo della rinuncia di Benedetto XVI. E c’è, ovviamente, un durante il pontificato di Benedetto XVI, che pure aveva contribuito a ridefinire molte cose.
Per un vaticanista, Benedetto XVI rappresentava una sfida continua e bella. Il pontificato di Giovanni Paolo II non aveva dissolto, ma aveva superato le diatribe del Concilio Vaticano II. Era un pontificato ricco di simboli e significati, tutti da decifrare, e cadeva in una epoca storica straordinariamente densa, di cui il Papa polacco fu protagonista. Il Giubileo del 2000 fu il grande spartiacque, e traghettò verso un mondo nuovo. L’11 settembre, appunto, nel 2001, diede un’altra virata alla storia. Ma poi, gli ultimi anni di pontificato di Giovanni Paolo II erano stati più emozioni che gesti simbolici – che pure non erano mancati – più accompagnamento del Papa che reale analisi.
Era una transizione dolorosa e necessaria, dopo 27 anni, e in fondo gli ultimi quattro anni di Giovanni Paolo II avevano creato anche una sorta di mitologia della figura del Papa. Al punto che ci si divideva, in maniera assurda, tra chi criticava ogni passaggio del lungo pontificato e chi lo esaltava del tutto. Senza equilibrio, senza soluzione di continuità.
Eletto Papa, Benedetto XVI cercò di superare questa mancanza di equilibrio, perché aveva intuito che era la mancanza di equilibrio che colpiva la Chiesa. Rese evidente lo sforzo di superare le diatribe del Concilio, mettendo al centro l’ermeneutica della continuità che aveva sempre difeso. Mise, prima di tutto, al centro Gesù Cristo, chiedendo a tutti di conformarsi ad un salto di qualità che non poteva essere solo formale. Non c’erano riforme strutturali o scelte politiche, c’era al centro l’immagine di Cristo, simboleggiata dalla scelta di portare la croce al centro dell’altare durante le celebrazioni, perché lo sguardo delle persone sia sempre rivolto a Cristo, prima che al Papa o ai celebranti.
L’11 febbraio 2013 rappresenta l’ultimo salto di qualità richiesto dal pontificato ai vaticanisti. Benedetto XVI non sta raccontando un fallimento. Sta, piuttosto, rendendo pubblico un rispetto profondo della figura del Papa, grazie ad una personalità scevra da ogni desiderio di potere, ma piuttosto desiderosa di servire l’unità della Chiesa. Il Papa è il vicario di Cristo, ma cosa succede quando il vicario di Cristo rischia di diventare solo un povero Cristo?
C’è chi dice che il Papa deve rimanere sulla croce fino alla fine, chi contesta la decisione di Benedetto XVI. E chi, invece, vede in quella decisione proprio uno stare sulla croce, un accettare che il corso della storia continui anche senza che lui lo stia governando, anzi, che il corso della storia arrivi persino a contraddire il Papa emerito mentre questi è ancora vivo. Non c’è, probabilmente, croce più grande di questa, di vedere smantellato il proprio mondo mentre uno nuovo non viene costruito.
Raccontare tutto questo, però, richiede sensibilità e amore. Benedetto XVI non ha chiesto solo alla Chiesa di demondanizzarsi. Lo ha chiesto anche a noi giornalisti, sostanzialmente dando l’esempio. Demondanizzarsi significa abbandonare la logica della notizia per guardare alla logica della redenzione. Significa abbandonare le logiche del potere per comprendere il potere della logica.
Ma noi siamo riusciti a raccogliere la sfida di Benedetto XVI?
La domanda non ha una risposta definitiva e finale, ma tante sfumature. L’istinto dice che no, non abbiamo colta la sfida. Privati del Maestro chi ci sfidava ad andare oltre i nostri limiti di comprensione, i media sono tornati alla logica dell’opinione pubblicata. Prima è stata l’epopea dei gesti di Papa Francesco, poi l’epopea della rivoluzione di Papa Francesco, e quindi le varie narrative costruite intorno allo stesso Papa. Francesco non è il professor Ratzinger, o il Papa teologo, ma ha una immediatezza nella comunicazione che, in fondo, rischia di rendere pigri. Si racconta il Papa, e già questo fa notizia.
Ma concedere troppo a questa comunicazione immediata eppure studiata, accettando la sfida di condurre una intervista quando già molteplici ne sono state date, di avere una prefazione quando a centinaia ne sono state pubblicate, di raccontare un autobiografia quando sono già tre i libri autobiografici di Francesco da Papa e uno di quando era ancora un cardinale.
Insomma, il rischio con Papa Francesco è quello di tornare alla comfort zone, di parlare delle diatribe solo quando possono essere semplificate, e, in fondo, di parlare soprattutto in termini politici.
Se l’istinto porta ad una risposta incredibilmente cinica, c’è però un altro aspetto, una eredità di Benedetto XVI che non può essere trascurata. Benedetto XVI ci ha costretto a studiare, analizzare, comprendere. Anche quando si voleva criticare il Papa, e si è fatto, si doveva essere sicuri che fosse una critica fondata, perché solo le critiche fondate potevano essere prese sul serio. Benedetto XVI, con il suo martirio della sapienza, ha creato i presupposti perché il giornalismo vaticano si nutrisse di nuove prospettive.
Era un Papa che aveva una fede profonda in Dio, e di conseguenza aveva fiducia negli uomini. Sapeva che, se gli uomini avessero ascoltato la chiamata di Dio, nulla sarebbe stato loro precluso. E così sapeva che, se i giornalisti avessero davvero ascoltato e fossero andati oltre l’opinione pubblicata, ci sarebbe stata la possibilità di una nuova speranza per la professione, di un nuovo modo di raccontare la Storia, e la Storia della Chiesa.
Questo è un ragionamento particolarmente evidente per la terza generazione dei vaticanisti, quella che, come me, ha vissuto Giovanni Paolo II e si è formata con Benedetto XVI. La mia generazione di vaticanisti si è trovata a valutare crisi dure, come quella degli abusi in Irlanda cui Benedetto XVI rispose con una lettera di rara profondità, o come quella dell’annus horribilis 2010, l’Anno del Sacerdozio che è anche l’anno delle campagne mediatiche anti-Chiesa, cui Benedetto XVI risponde mettendo la chiesa in penitenza a Fatima.
Ma siamo stati anche chiamati a conoscere le questioni della demondanizzazione e delle tendenze di secolarizzazione, del fatto che gli atei che a motivo della ricerca di Dio sono più credenti di chi si professa credente. Siamo stati a comprendere i grandi discorsi al mondo della cultura (Ratisbona, Parigi, Berlino), a rivedere la nostra idea di Europa riscoprendone le radici, e, sempre e comunque, a rimettere al centro Cristo, anche necessariamente studiando il Papa nella forma di comunicazione che più gli si addiceva, ovvero i libri. Perché, alla fine, i tre volumi su Gesù di Nazareth, lasciati aperti alla discussione teologica, sono probabilmente il punto più alto di un pontificato luminoso.
Tutto questo è formazione, è vita, è comprensione, da qualunque lato lo si voglia guardare. E forse con la rinuncia Benedetto XVI è stato, ancora una volta, un professore. Ha insegnato che essere vaticanista va oltre le mode del pensiero, e lo ha fatto dimostrando che essere Papa può essere percepito come un servizio, e che il potere fine a sé stesso non serve a nulla.
È una lezione che resta, ed è il motivo per cui, in questi anni e fino alla sua morte, abbiamo guardato con ansia a Benedetto XVI, abbiamo letto voracemente ogni suo intervento, sebbene gli interventi si diradassero, e abbiamo guardato al monte dove Benedetto XVI si era ritirato come ad un punto di riferimento.
Nella sua ultima intervista a Peter Seewald, Benedetto XVI disse di essere l’ultimo uomo del vecchio mondo, ma che il nuovo mondo non era ancora cominciato. E ci troviamo, oggi, come comunicatori vaticani, e ricordare quel giorno che cambiò il corso della storia di dodici anni fa, consapevoli che no, il mondo nuovo non è ancora cominciato. Perché ci sono tante rivoluzioni, ma niente sta ancora mettendo al centro Cristo come aveva fatto Benedetto XVI. E mettere al centro Cristo significa mettere al centro i sacramenti, e di conseguenza mettere al centro la Chiesa.
Dodici anni dopo, anche noi giornalisti siamo in cerca di un equilibrio. È intanto arrivata una generazione nuova, e quello che viene da pensare è che no, non potranno mai avere un maestro come è stato Benedetto XVI per la mia generazione. Quel tipo di esempio, in fondo, non tornerà più.
Grazie, Benedetto XVI, per aver portato la tua croce. Grazie per la tua intercessione continua. E grazie per averci insegnato ad essere giornalisti. Perché la nostra professione ti deve moltissimo, anche se tu, in fondo, diresti che non è così. Ma è così, e lo sappiamo tutti.
Nessun commento:
Posta un commento