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mercoledì 16 ottobre 2024

Punto di vista: la comunicazione al Sinodo

La grande novità del Sinodo dei vescovi di quest’anno sono i forum teologico pastorali, aperti a tutti, che intendono dare un maggiore approfondimento alle questioni dibattute non solo durante l’assise sinodale, ma in generale nella Chiesa.

La presenza dei teologi era stata ampiamente richiesta lo scorso anno, specialmente di fronte a bozze del testo finale che mostravano, a volte, visioni teologiche abbastanza ardite, se non quasi inaccettabili dai padri sinodali, che infatti hanno emendato il testo finale centinaia di volte.

 

Insomma, il Sinodo ha bisogno di teologi, per allargare la discussione, per parlare dei grandi temi, per cercare di trovare un senso a tutto quello che si fa.

 

Questa presenza dei teologi, però, porta ad un ragionamento ulteriore: qual è l’impatto della riflessione teologica oggigiorno?

 

Ai tempi del Concilio Vaticano II, le grandi questioni erano discusse da fior di teologi di posizioni a volte contrapposte, ma in generale tutte approfondite. Parliamo di personaggi del calibro di Ratzinger, Rahner, Küng, Congar, Balthasar, tanto per fare alcuni nomi. C’era una sostanza profonda nelle loro istanze, che portava la teologia ad avere un posto di primo piano nel mondo culturale. La teologia era parte della cultura, non era considerata solo la scienza di chi crede o di chi deve spiegare il credo.

 

Il Concilio Vaticano II è anche il momento in cui la teologia e la comunicazione si incontrano. Da una parte c’è la curiosità dei giornalisti, dall’altra c’è la volontà dei padri conciliari di spiegare all’opinione pubblica il senso delle loro argomentazioni, e anche in qualche caso di influenzare l’opinione pubblica.

 

Era cominciato un processo di osmosi che aveva portato i giornalisti ad identificarsi con le istanze teologiche e i teologi a cercare di comunicarsi attraverso la stampa. Erano, però, anche tempi differenti. C’era un fermento culturale, una ricerca di un nuovo senso. Il Concilio Vaticano II anticipava un cambiamento d’epoca, quello del 1968. E, con quel cambiamento d’epoca, anche la Chiesa era chiamata a rinnovarsi, a trovare nuove vie di raccontarsi.

 

Teologia e comunicazione si uniscono in maniera quasi inconsutile durante l’epoca della nascita dei movimenti cattolici, i nuovi carismi cercano di farsi largo e lo fanno con la formazione. Il giornalista diventa parte del dibattito teologico, il teologo non può fare a meno del giornalista.

 

Un legame pericoloso, forse, perché si mischia una vocazione polemica ad una vocazione che dovrebbe essere di servizio. Il giornalismo, anche nel mondo vaticano, diventa improvvisamente “quarto potere”, viene usato come mezzo per raccontarsi al mondo, e anche per influenzare le decisioni interne della Chiesa – come nel caso dell’Humanae Vitae, quando, prima della pubblicazione dell’enciclica, tre riviste internazionali pubblicarono un rapporto di minoranza che chiedeva al Papa di cambiare l’insegnamento sulla contraccezione, dando così l’impressione (poi rivelatasi infondata) che Paolo VI avesse sovvertito tutte le richieste e fosse andato contro tutti i consigli.

 

Questo legame funzionava, però, fin quando la teologia sfornava grandi teologi e i giornalisti erano in grado di raccontare i dibattiti in profondità. Basta sfogliare le riviste di quaranta anni fa per notare la profondità dei temi, la qualità del linguaggio, la ricercatezza delle questioni affrontate. In effetti, mi è capitato oggi di guardare una classifica dei libri più venduti del 1988, e mi trovo al primo posto le Lezioni Americane di Calvino, al secondo L’insostenibile Leggerezza dell’Essere di Kundera e al terzo Le Menzogne della Notte di Gesualdo Bufalino. E parliamo di tre pesi massimi della letteratura, di grandi classici. Forse i libri più venduti oggi saranno grandi classici un giorno, così come i loro autori, ma niente dà la percezione che lo possano essere.

 

Il mondo, insomma, si è alleggerito, ha cambiato prospettiva. La teologia è diventata così un tema di nicchia, tanto che sono pochissimi i teologi che sono riconosciuti a livello internazionale per il loro lavoro – e parlo di lavoro sistematico, non di libri pop in cui rappresentano parte della loro poetica, anche questi, tra l’altro, oggi profondamente di nicchia.

 

Il giornalismo, al contrario, è diventato il luogo in cui si formano le opinioni. Abbiamo un giornalismo fatto di molti commenti, poche analisi, e in cui gli analisti diventano improvvisamente esperti di diversi temi. Un tempo, per definirsi vaticanista ci volevano anni, e per definirsi teologo ci voleva uno studio serio di pubblicazioni sistematiche. Oggi, basta una visione del mondo minimamente più approfondita perché siano esaltate le doti teologiche di un giornalista. Il giornalista diventa teologo se ha studiato un po’ di teologia, e il teologo diventa un comunicatore perché il suo obiettivo non è il pensiero, ma che il suo pensiero sia conosciuto e apprezzato.

 

Si viene così al punto del Sinodo. Se è vero, come è vero, che c’è bisogno di teologi, è anche vero che nessuno dei grandi dibattiti che vediamo qui ed ora sembra destinato a restare. Si stanno affrontando questioni probabilmente marginali, che spesso non toccano il popolo di Dio e che non andranno davvero a cambiare la Chiesa.

 

Ma il punto è che queste idee sono portate avanti dai media mainstream, che apprezzano le posizioni secolarizzate dei teologi cattolici, anzi le incoraggiano, sperando in un cambio di dottrina che renda la Chiesa sempre più vicina al mondo.

 

Benny Lai, se ricordo bene (o forse era Giancarlo Zizola), scriveva nei suoi diari che, durante il Concilio fu avvicinato da un massone progressista che disse: “Non vogliamo che la Chiesa cambi, perché se cambierà non sapremo dove trovarla”. È una frase (non l’autore, come vedete, ma la frase) che mi è rimasta impressa, e che mi ha fatto pensare che, ogni volta che si vuole che la Chiesa cambi, in fondo si vuole fare in modo che la Chiesa non si trovi più.

 

Il punto è che prima i teologi venivano conosciuti per le loro idee, mentre oggi vengono conosciuti per il loro impatto mediatico. Sono i media che creano le immagini effimere dei teologi, che decidono di sposare alcune linee invece di altre, che decidono di dare importanza ad alcuni invece che ad altri. Molti degli esperti di cui si parla e si magnificano le sorti progressive sono magnificati solo nell’ambito dei media, vengono promossi solo da alcuni circoli, hanno una buona trazione da parte di certi maitre a penser, ma difficilmente lasceranno un segno reale nella teologia del futuro.

 

I media, d’altra parte, sono diventati portatori di ideologia. Buona parte dell’informazione religiosa si gioca sul confutare o rafforzare una tesi, le domande che vengono fatte sono maliziosamente intese in modo da permettere al proprio punto di vista di emergere. I media si sono polarizzati, e la polarizzazione porta una mancanza di umiltà epistemologica e una mancata volontà di guardare ai fatti da punti di vista differenti.  

 

La domanda, dunque, è: come riuscire a comunicare il Sinodo se ci si trova di fronte all’influenza dei media, ad una opinione pubblicata particolarmente pervasiva, a uomini di Chiesa che si comportano come PR di loro stessi? Come comprendere quali sono i grandi temi nel mezzo del “rumore” delle questioni che probabilmente saranno solo laterali?

 

Era il grande tema al Concilio Vaticano II, e il dibattito si è trascinato fino ai nostri tempi. Ma la risposta dei grandi teologi cattolici, a partire da Ratzinger, fu quello di centrare lo sguardo su Dio, Gesù, la Chiesa. Fu quello di dare priorità ad una visione del mondo che nasceva da un incontro personale con Cristo, superando così anche le diatribe tra progressisti e conservatori, utilizzando categorie non laiche, ma più tipiche del linguaggio religioso, superando le divisioni con la comunione.

 

Si tratta di focalizzare lo sguardo sui grandi temi e non sulle piccole questioni. Si dice che il Sinodo è una “montagna russa” di speranza, ma ci si deve chiedere piuttosto se la speranza non sia stata semplicemente sottovalutata. Si parla di partecipazione del popolo di Dio, ma ci si deve chiedere piuttosto se davvero non c’è stata partecipazione, perché, in fondo, il modo in cui la partecipazione dei fedeli viene gestita dipende molto dalla personalità e dall’apertura di chi prende le decisioni. Si parla, poi, di cambiamenti dottrinali, e si travisa il Sinodo, perché il Sinodo non è chiamato a proporre queste decisioni.

 

Il problema, probabilmente, è che il dibattito nella Chiesa sembra essersi scollato dalla realtà concreta dei fedeli. Quanto una Chiesa sinodale nel senso di para-democratica avrà davvero un impatto nella vita dei fedeli? E quanto, invece, lo hanno sacerdoti fedeli, che credono davvero nell’Eucarestia che consacrano, e che fanno dell’attività sociale una conseguenza di uno sguardo più ampio che nasce proprio dalla fede in Gesù?

 

Ci troviamo di fronte ad un mondo che, lo ripeto, che tratta i grandi temi con leggerezza. Tutti possono dire qualcosa su tutto, anzi devono. La partecipazione è più importante della cultura. L’apparire ha preso il posto dell’essere.

 

Ed è qui che i media cattolici sono chiamati a distinguersi, a trovare nuovi punti di vista, a superare la necessità dell’apparenza. I media cattolici non creano fenomeni mediatici, né devono creare il profilo dei teologi del futuro. I media cattolici sono chiamati a pensare e far pensare. I teologi sono chiamati a guardare in profondità alle questioni, a creare modelli di pensiero e non modelli di Chiesa – in quel caso si tratta di micro-manager, e sarebbe una cosa diversa.

 

Oggi non è più il tempo del Concilio Vaticano II. Ci troviamo di fronte ad un panorama culturale estremamente più povero. Di questo, probabilmente, risente la comunicazione del Sinodo. E questa potrà essere funzionale solo se supererà il problema di dover raccontare un mondo in un certo modo, con la paura di essere messa in discussione. Altrimenti, il rischio è che in pochi ricorderanno il Sinodo, ma tutti ricorderanno le decisioni successive del Papa sul Sinodo. Il risultato sarà una ulteriore centralizzazione. Non è questo l’obiettivo.

 

P.S. Su Sinodo e dintorni, la mia riflessione in questo libro: “La Chiesa del Futuro. Dieci Sfide per i Sinodi che verranno”

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