Papa Francesco ha celebrato i suoi dieci anni di pontificato dando diverse interviste, ai media più disparati, e facendo un podcast per Vatican News. Una scelta di campo precisa, perché – come ha spiegato lo stesso Papa Francesco in una intervista a La Naciòn – “non ho diritto a non parlare dopo questi dieci anni. È un simbolo, per la gente significa qualcosa e dunque io sono al servizio della gente, così la pianto con le sciocchezze e do interviste”.
Si diceva che il Papa avesse un rapporto conflittuale con la stampa. In effetti, le interviste che aveva dato prima dell’elezione a Papa erano poche, e sempre a persone selezionate. Eppure, tutto dava l’idea di una particolare cura nello scegliere la sua comunicazione. Quando il nome di Jorge Mario Bergoglio comparve la prima volta sulla scena internazionale, nel 2002, fu con un articolo del noto vaticanista Sandro Magister. Tra le informazioni che erano arrivate, c’era anche la narrativa sulla sobrietà de Papa, il suo usare i mezzi pubblici, il suo muoversi nelle periferie.
E sin dall’inizio del pontificato, il Papa ha voluto marcare questo stile, che già portava avanti in Argentina. Aveva fatto sapere che lasciava la porpora a Roma, solo per gli incontri ufficiali (ma la porpora viene portata da un cardinale anche nei momenti pubblici, in segno di rispetto per chi invita) e il primo gesto del suo pontificato fu quello di non portare la mozzetta.
Quindi, una serie di atti di presunta normalità, dalla prima di molte visite a Santa Maria Maggiore al pagamento della Domus Sacerdotalis di via della Scrofa dove aveva risieduto durante le congregazioni generali prima del conclave, fino alle passeggiate all’ottico in piazza del Popolo.
Era evidente la volontà di mostrare un profilo diverso, meno ufficiale, più informale. Lo stesso è stato con le conferenze stampa che, da Giovanni Paolo II in poi, i Papi tengono in volo durante i viaggi apostolici. Papa Francesco la ha spostata dall’inizio al termine del viaggio, e la ha resa libera, aperto ad ogni domanda, anche a quelle cui non era preparato (anche se poi ci sono stati vari aggiustamenti, e il Papa stesso ha cominciato a privilegiare le domande riguardanti il viaggio).
Così, tra gesti, parole, opere quello di Papa Francesco può essere considerato un vero e proprio papato mediatico, forse più di quelli che lo hanno preceduto, perché usa i media e se ne fa usare, perché comunica e vuole comunicare qualcosa e lo fa guardando alle prassi, non al linguaggio storico della Chiesa.
Ma c’è qualcosa che manca nelle ultime interviste papali? C’è qualcosa che si sarebbe potuto dire o di cui si sarebbe dovuto parlare?
Ecco qualche esempio di ciò che, dal mio punto di vista, è mancato nelle interviste papali.
1. Le domande che vengono fatte al Papa riguardano sempre gli stessi argomenti, e sono argomenti più sociologico – secolari che teologici. Anche quando si parla di teologia, si parla in termini di cambio della dottrina o dei temi che si pensa vadano per la maggiore, per esempio del celibato dei preti. Manca, però, il tema del rapporto di Francesco con i vescovi e soprattutto cosa si aspetti il Papa dai vescovi. Abbiamo, in questo momento, una Chiesa in stato di sinodo permanente. Ma quale è il ruolo dei vescovi? E quando si parla mai dell’insegnamento che dovrebbero dare i vescovi?
2. Il tema dei vescovi porta ad un'altra domanda secondo me cruciale: in che modo il Papa interpreta la sua collegialità con i vescovi? Il potere del Papa è quello di un sovrano assoluto, e si dice che il “Papa bolla e il Papa sbolla”. Eppure, mentre il Papa agisce da sovrano assoluto nello Stato di Città del Vaticano, il suo potere per quanto riguarda gli aspetti spirituali è sempre stato considerato collegiale. Il Papa non agisce per sé, ma per la Chiesa universale. Era il motivo per cui i capi dicastero dovessero essere vescovi: perché fossero in collegialità con il Papa. Era il motivo per cui Giovanni XXIII stabilì che i cardinali fossero almeno arcivescovi (ci sono eccezione per i cardinali creati oltre gli 80 anni, ma sono eccezioni): perché fossero in collegialità con il Papa. Papa Francesco utilizza molto il criterio della sinodalità, ha messo la Chiesa in una sorta di Stato di sinodo permanente, e la sinodalità è interpretata nel senso che tutto il popolo di Dio debba essere ascoltato. Ma quale è il ruolo del vescovo in questo ascolto? C’è ancora un munus docendi del Papa e dei vescovi? Questo è un tema che spesso manca nelle interviste, ma che credo debba essere approfondito.
3. Altra questione: l’essere vescovi è solo da considerare una funzione? Il Papa sembra avere una doppia visione delle questioni. Il vescovo ha piena autorità quando deve decidere, magari, nei casi di nullità del matrimonio, e lo ha ribadito in maniera netta. Ma il vescovo è solo una funzione quando si tratta di governo della Chiesa, e infatti la nuova costituzione apostolica prevede che la potestà derivi dalla missione canonica, che è conferita dal Papa. Tutto, dunque, è centralizzato, mentre l’ordinazione episcopale perde molto di peso. Sembra non ci sia la differenza tra “ordine” e “giurisdizione”, e questo è un tema cruciale. Troppo specialistico? Forse. Ma comprendere cosa il Papa pensi a questo proposito potrebbe chiarire anche molte delle linee guida del pontificato.
4. Tanto più che il Papa sta attuando in Italia un taglio feroce di diocesi unendo in persona episcopi che testimonia come, in effetti, il vescovo sia considerato soprattutto una questione amministrativa. Si parte dall’idea che in Italia ci sono troppe diocesi e troppi vescovi, comparati con il resto del mondo. Ma questa era una realtà storica che nasceva da una scelta di prossimità. Il Papa parla con i vescovi che conoscono il popolo proprio perché non amministrano territori sterminati, non hanno sedi a centinaia di chilometri di distanza dai fatti, ma sono lì, con la popolazione, nel mezzo del gregge, come direbbe il Papa. Più che di una eccezione italiana, si sarebbe dovuto parlare di un problema internazionale. La soluzione non è quella dei viri probati, ma quella di lavorare per le vocazioni, perché ci siano più sacerdoti e perché sempre più di questi sacerdoti possano essere vescovi e agire in prossimità con il loro popolo. I vescovi, in fondo, sono i generali dell’esercito del Papa, e sono chiamati a insegnare, ad evangelizzare, e stare con la popolazione. Come fanno se le loro diocesi hanno territori sterminati? In che modo riescono ad equilibrarsi tra popolazioni molto diverse? L’idea di accorpare funziona solo se si considerano i vescovi come funzionari e le diocesi come dipartimenti. Ma sia vescovi che diocesi hanno un senso molto più profondo. Sarebbe bello se il Papa potesse chiarire questo tema.
5. L’importanza dei simboli. Abbiamo visto che la narrativa del Papa si è basata molto sull’idea di togliere i segni di quello che è considerato potere. Eppure, le insegne del potere sono sempre state reinterpretate dalla Chiesa. C’è una imitatio imperii nell’uso dei colori bianco e porpora (e la porpora è colore imperiale), ma l’impero della Chiesa, l’impero di Cristo, è quello del servizio per l’uomo figlio di Dio e discepolo di Gesù Cristo vero Dio e vero uomo. Tutta la simbologia della Chiesa ha un significato molto profondo, storico, che va compreso e raccontato, e non secolarizzato. Ma il Papa considera i simboli come espressione di mondanità o ne conosce la storia? E, se ne conosce la storia, perché ha ritenuto la necessità di aggiornare i simboli, o di eliminarli, come ha fatto non indossando la mozzetta papale? Anche questo è un tema che mi sembra mancare dal dibattito, eppure è sostanziale.
6. Il Papa ha parlato spesso della necessità di liberarsi dalla corte papale, e addirittura – ma non sappiamo se abbia usato queste parole, era una intervista a Scalfari – ha detto che “la corte è la lebbra del papato”. La corte, però, significa semplicemente i collaboratori. La corte è una istituzione, è una cosa diversa dalla cortigianeria, che è una espressione dei vizi dell’istituzione. Si può dire che eliminata la corte sia eliminata la cortigianeria?
7. Se essere vescovi è una funzione, allora quale è il ruolo del sacerdote? In alcuni Paesi, per esempio in Svizzera, i sacerdoti sono anche loro funzionari, intervengono solo al momento della consacrazione, mentre la gestione della Messa, inclusa l’omelia, è affidata ad altri. Ma se essere sacerdoti significa solo consacrare, quale è il ruolo del sacerdote? E perché essere sacerdote dovrebbe essere una vocazione, dato che può essere interpretata come un ufficio speciale di un incarico impiegatizio?
8. Si parla molto di essere missionari. Eppure, viviamo una crisi delle missioni, rappresentata anche dalla perdita di molte riviste missionarie. Padre Piero Gheddo sottolineò che questa crisi era dovuta proprio alla erosione dell’annuncio della fede cristiana, sostituita invece da molte categorie sociali. Il Papa che dice che la Chiesa non è una ONG non ha timore che anche il suo “fare politica”, come lo ha definito in un’altra intervista, non si risolva semplicemente in una necessità sociale e non nella proclamazione del Vangelo?
9. La Chiesa davvero sta guardando i tempi e precorrendo i tempi, o invece è intrappolata in un dibattito vecchio ormai di cinquanta anni? Si parla di progressisti e di conservatori, si puniscono quanti non si sono adeguati al Concilio secondo le forme liturgiche, ma l’impressione è che la Chiesa sia lontana dalle grandi sfide del futuro: l’intelligenza artificiale, la necssità di parlare al cuore dell’uomo quando si fa sempre più largo “l’uomo elettrico”, secondo la definizione di Newman, la necessità di una nuova prossimità (e invece con le super-diocesi perdiamo ancora prossimità), il mondo parcellizzato che ha bisogno di un messaggio forte. Parliamo ancora di temi vecchi, leggiamo il mondo con categorie vecchie, eppure pensiamo che basti andare nelle periferie per trovare nuovi adepti. Non è che forse guardiamo troppo con gli occhi dell’uomo e poco con gli occhi di Dio?
10. Perché nessuno si pone le domande ultime di senso? Si parla del Papa come un leader globale, si chiedono le sue opinioni sui fatti del mondo, e si accetta una visione di una Chiesa disincarnata, cioè meno partecipe delle vicende umane nel timore di evangelizzare, di proclamare il Vangelo. C’è il rischio che l’opinione pubblica detti l’agenda alla Chiesa? E quanto l’opinione pubblica ha dettato l’agenda a questo pontificato?
Dieci anni dopo, dopo aver a lungo osservato (e in maniera spesso critica, non lo nascondo) il pontificato, queste sono le domande che farei. Sperando dal Papa non una valutazione contingente, ma parole che siano di ispirazione e riflessione per gli anni a venire. La Chiesa deve ispirare, non dire cosa fare. Deve dare un’ideale universale, con la consapevolezza che questo ideale sia difficile da raggiungere, e su questo ideale insegnare a costruire la civiltà dell'amore.
D’altronde, la Chiesa è “intransigente sui principi perché crede, tollerante nella pratica perché ama” (Réginald Garrigou-Lagrange, Dieu, son existence et sa nature, Paris 1923). È il contrario del mondo, che invece è tollerante nei principi e intransigente in alcune pratiche. Quanto è forte, oggi, il rischio per la Chiesa di ribaltare la prospettiva? È questo il grande tema cui deve rispondere il Papa.
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