Dieci anni fa, dopo l’elezione e dopo la Messa di inizio del ministero petrino, Papa Francesco prendeva l’elicottero e si recava a Castel Gandolfo per incontrare, per la prima volta da quando era Papa, il Papa emerito Benedetto XVI. In quel momento, per la prima volta evidente, plasticamente, che vivevamo in una nuova era. La coabitazione tra un Papa e un Papa emerito non era mai stata sperimentata in epoca moderna. Soprattutto, non era stata mai sperimentata in un’epoca in cui i media potevano essere così pervasivi.
Abbiamo avuto quasi dieci anni di coabitazione tra Papa Francesco e Benedetto XVI, e questa coabitazione ha anche creato una narrativa di polarizzazione: quelli che erano fedeli a Francesco, quelli che erano fedeli a Benedetto XVI, quelli che volevano il modello di Chiesa incarnata da Papa Francesco, quelli che volevano il modello di Chiesa incarnato da Benedetto XVI.
Parliamoci chiaro: la polarizzazione era un errore a prescindere, perché non esistono due modelli di Chiesa, ma esiste la Chiesa che si incarna nel tempo. E tuttavia devo ammettere che ho sempre seguito le gesta di questo pontificato, quello di Papa Francesco, con un sano scetticismo.
Sano scetticismo, dico, perché di fatto credo che questo sia l’atteggiamento del giornalista. Avevo seguito il lavoro di Benedetto XVI, lo avevo studiato, avevo cominciato a comprendere alcuni meccanismi e punti di vista, avevo deciso di guardare le cose a distanza di sicurezza, fuori dalla prospettiva italiana, fuori da ogni prospettiva ideologica. Uscire dalla Chiesa e tornare nella Chiesa, insomma, uscire dal linguaggio laico che caratterizzava il racconto sulla Chiesa e ritornare al linguaggio della Chiesa: questo era il mio obiettivo.
Con Benedetto XVI, avevo avuto la convinzione che i testi fossero più importanti dei gesti, che i gesti liturgici o cerimoniali avevano un senso solo se radicati nella storia. Avevo imparato che ogni “tradizione inventata”, come diceva Hobsbawm, corrispondeva una cancellazione del passato, la necessità di ripartire da zero. Avevo imparato che i cristiani, proprio perché amano l’essere umano, non ripartono da zero. Non distruggono, ma trasformano con l’amore.
Ecco, l’arrivo del pontificato di Papa Francesco mi ha dato subito l’idea che ci trovassimo in un altro linguaggio. Ed è vero che Papa Francesco, nella Messa di inizio pontificato, parla del potere del servizio (in fondo il Papa è servo dei servi di Dio), ma lo fa includendo anche un accenno molto vago alla creazione, un appello che va al di fuori della tradizione cattolica dell’appello a tutti gli uomini di buona volontà semplicemente perché resta vago, non si colora di dottrina sociale. Un appello non valido per tutti, ma buono per tutte le stagioni.
Nei giorni precedenti, il Papa aveva invitato a pregare “vescovo e popolo insieme”, chiesto al popolo di benedirlo, fatto la sua comparsa nella residenza dove era prima del Conclave per pagare (e sì che era il Papa, e la residenza era sua), si era mostrato a Santa Maria Maggiore. Aveva incontrato i giornalisti, aveva con loro usato lo slogan di volere “una Chiesa povera per i poveri”, aveva fatto il gesto di non benedirli per rispettare i non cristiani o non credenti che erano nella platea.
Tutto era molto esaltato, in una sorta di isteria collettiva che viene sempre quando c’è qualcosa di nuovo. Tutto era presentato come una novità, con grande speranza. Ma io ero scettico. E ci ho messo anni a capire perché quello scetticismo, uno scetticismo che in fondo mi viene sempre quando vedo troppe persone entusiaste, troppe narrative che calcano la mano sulle novità assolute e sui venti di cambiamento.
Papa Francesco, pur riferendosi ai santi, alla tradizione popolare, alla cura del creato, ai poveri, stava creando un nuovo cerimoniale, che non era più un cerimoniale di Chiesa, ma un cerimoniale personale. Era un cerimoniale più “laico”, che faceva riferimento a cose che avrebbero sicuramente fatto presa sull’opinione pubblica, ma che, per linguaggio e modi, non erano mai stati parte della tradizione dei Papi.
Bello, verrebbe da dire. Io penso che più che bello sia problematico. Perché ogni cosa ha i suoi linguaggi, e l’errore che si è sempre fatto sulla Chiesa è stato quello di aspettarsi che la Chiesa si adeguasse ai linguaggi del mondo. Questo adeguamento, che va al di là dell’evangelizzazione e passa attraverso la presenza sociale e pubblica, rende la Chiesa una struttura come le altre. Si parlava di un cristianesimo senza Cristo, per dire che la Chiesa era diventata troppo “guerriera culturale”. A un certo punto, c’è stato un Cristo laico, ma senza cristianesimo.
Molti pensano che lo scetticismo voglia dire che io rimpiango i bei tempi passati, e che adesso non voglio accettare il vento di novità che è arrivato con il pontificato di Papa Francesco. Il mio scetticismo, però, non è venato di nostalgia. So che le strutture vanno rinnovate, e lo auspico. Ma io sono scettico sulla narrativa che vuole dire a tutti i costi che tutto sia cambiato e che finalmente il nuovo sistema sia meglio del vecchio.
Non trovo differenze tra i cortigiani di ieri e i cortigiani di oggi. Gli “scandali” di un tempo sono anche gli “scandali” di oggi, e l’unica differenza è che oggi c’è l’attenzione mediatica di mostrare che si stanno risolvendo. Ma l’attenzione mediatica è vera soluzione o solo uno specchietto per le allodole? E, soprattutto, quanto l’attenzione mediatica giova ad una istituzione, considerando che poi l’istituzione stessa sarà costretta a prendere decisioni popolari anche quando c’è la necessità di non essere popolare?
Da giornalista a caccia dello scoop, e da giornalista che era cresciuto con la forte ideologia della necessità della discontinuità della Chiesa, mi sono trasformato negli anni in un giornalista che ha abbandonato la retorica della novità per andare, invece, a guardare oltre le apparenza, applicando il principio del rasoio di Ockham ad ogni cosa. Se una novità nasconde la stessa filosofia di ciò che c’era prima, solo con un linguaggio nuovo, semplicemente la critico, dimostro che non ci sono differenze, e che anzi c’era del buono prima che non viene considerato.
Sono convinto che cancellare la storia non solo sia inutile, ma anche dannoso. E sono convinto che tutti debbano parlare la loro lingua. Quella della Chiesa non è quella della riforma delle istituzioni, dell’inclusività ad ogni costo, dell’amore per gli emarginati. È anche quello, ma parte dal radicamento in Cristo e nell’Eucarestia. La Chiesa non è solo dottrina né casistica, ma io diffido di chi dice che non si debba fare casistica nelle cose di spirito e poi comunque la applica nelle cose pragmatiche, e rende pragmatiche anche le cose di spirito.
Non sono temi solo per la Chiesa, ma sono temi generali, che vanno a toccare proprio il senso stesso della professione. L’incontro tra Benedetto e Francesco, dieci anni fa, incarnava forse il passaggio dall’epoca spirituale all’epoca materiale, in una rappresentazione che solo la Chiesa, preconizzando i tempi, è in grado di dare.
E non mi si deve fraintendere: non è che Francesco non abbia dei tratti spirituali, che non inviti alla preghiera, che non promuova la devozione popolare. Ma lo fa con un linguaggio che più che essere un linguaggio spirituale è un linguaggio laico. C’è il misticismo del pueblo fiel, molto presente in America Latina, in cui il popolo diventa una categoria mitica. Tutto diventa religioso, e nel momento in cui tutto è religioso, niente lo è. C’è come una saldatura tra lo spazio pubblico e lo spazio religioso, la chiusura di un cerchio che si era spezzato con l’Illuminismo e che ora però ritorna tutto a favore dello spazio pubblico, più che di quello religioso. La religione è parte del quadro, e nel quadro viene assorbita.
Io cerco semplicemente di non farmi prendere dall’emozione. Ogni volta che succede qualcosa, guardo a quello che è successo prima. Come buona pratica, relativizzo sempre, senza pregiudizi. Non apprezzavo tutte le scelte di governo di Benedetto XVI. Non apprezzo tutte le scelte di governo di Papa Francesco. Cerco di capirne la logica, sempre, e questo mi sembra il servizio migliore che io possa fare.
Ma, nel cercare di capire la logica, si arriva al messaggio. E il messaggio di Papa Francesco sembra andare avanti per tentativi ed errori, come ha dimostrato Sandro Magister in una analisi delle sue ultime interviste. È un approccio che guarda alle reazioni dell’opinione pubblica, e aggiusta il tiro secondo quelle reazioni.
Forse è solo l’apparenza, forse sto sotto-interpretando Francesco mentre vedo altri che lo sovra-interpretano e ne magnificano le sorti progressive. Forse nessuno di noi giornalisti ha, o ha avuto, un equilibrio. Io, personalmente, mantengo un sano scetticismo. E lo faccio con tutto l’amore possibile per la Chiesa, e cercando di garantire sempre un anticipo di simpatia nei confronti dell’istituzione e del modo in cui si è formata, nonostante gli uomini che la hanno conformata.
Non c’è nostalgia, non c’è voglia di rottura. C’è, piuttosto, la ricerca di un modo di costruire meno mediatico, ma più reale. E una visione delle cose, lo ammetto, piuttosto cinica.
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