Processo Palazzo di Londra

mercoledì 22 giugno 2022

Processo Palazzo di Londra, cosa sappiamo fino ad ora

Versione italiana, leggermente adattata per ragioni linguistiche e ampliata, del testo pubblicato su Catholic News Agency l’8 giugno scorso.

 Gli interrogatori del broker Raffaele Mincione, che per primo ha gestito per la Segreteria di Stato il palazzo di Londra al centro di un intricato processo vaticano, hanno permesso di svelare in qualche modo il pensiero alla base di quello che è stato il disastroso “London deal” vaticano.



L’interrogatorio del broker italiano non solo non smentisce, ma fornisce ulteriori dettagli agli interrogatori del Cardinale Angelo Becciu, dell’altro broker Enrico Crasso, dell’ex officiale di Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi, dell’ex officiale di Segreteria di Stato e segretario del sostituto don Mauro Carlino. Gli stessi interrogatori confermano il contenuto del memoriale di Edgar Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato, che decise i passi finali dell’affare, ovvero la presa di controllo della Segreteria di Stato.


Mincione ha parlato di fronte al tribunale il 6 e 7 giugno, con il supporto di 18 faldoni blu con documentazione varia. Sono state quasi 16 ore di interrogatorio complessive, introdotte da dichiarazioni spontanee di Mincione che rivendicavano la sua rispettata carriera nel mondo della finanza, che ha incluso, negli anni Novanta, anche una collaborazione con l’Istituto per le Opere di Religione.

Prima di addentrarci nei dettagli dell’interrogatorio, vale la pena allora fare un quadro generale di come l’operazione di Londra è maturata, seguendo la storia degli interrogatori resi finora. Si tratta di un quadro ancora parziale, ma che permette di fare luce anche sui meccanismi, anche psicologici, che hanno dominato la vicenda.


Tutto comincia nel 2012, quando viene proposto alla Segreteria di Stato, tramite l’allora sostituto Angelo Becciu, un investimento su una società di estrazione petrolifera in Angola, la Falcon Oil. La proposta viene da Antonio Mosquito, un imprenditore e benefattore della nunziatura a Lwanda, che Becciu aveva guidato come ambasciatore del Papa per sette anni.

Becciu propone l’affare, ma senza fare pressione. “Se vale la pena, andate avanti, altrimenti non c’è problema,” dice. È una versione dei fatti confermata dagli interrogatori di Becciu, Tirabassi, Crasso, Mincione nell’ordine.


I fondi della Segreteria di Stato sono gestiti da Credit Suisse, e l’uomo di Credit Suisse che se ne occupa è Enrico Crasso. È un dato importante. La Segreteria di Stato affida fondi in gestione,  non li gestisce direttamente. Approva o disapprova gli affari, ovviamente. Vuole profitti. In generale, però, quando ci si affida ad un gestore, tutto è nelle mani di un gestore.

Crasso viene incaricato di studiare l’affare, ma non ha molte competenze sulle questioni di commodities. La sua agenzia Credit Suisse gli suggerisce di riferirsi alla filiale di Londra. Credit Suisse Londra introduce Raffaele Mincione, perché questi aveva avuto altre competenze pregresse sulle questioni di investimenti in società estrattive.


È il 2013. Mentre si studia la fattibilità del progetto, per cui si chiedono 200 milioni di euro, Mincione costituisce l’Athena Fund, dove vengono versati i fondi. Questo perché, una volta che si prenderà la decisione, i fondi potranno essere immediatamente a disposizione. Lo confermano sia Tirabassi che Mincione.


Il progetto di investimento in Angola, però, piano piano perde trazione. Inizialmente, Mosquito abbasse le esigenze di investimento a 100 milioni di euro, liberando così l’altra metà del fondo per altri investimenti. È il momento in cui si pensa di investire nel famoso immobile di Sloane Avenue.

 

Mincione ha spiegato che parlare del “palazzo di Londra” è improprio. Si trattava di un “progetto”, che prevedeva un investimento sull’immobile. Gli ex magazzini Harrods sarebbero stati convertiti in abitazioni, l’immobile sarebbe stato elevato di un piano e poi l’immobile sarebbe stato venduto con grande profitto, considerando che gli affitti in quella zona di Londra sono altissimi.


Era un progetto ampio, ha spiegato Mincione, perché la legge in Inghilterra prevede che, quando si cambia la destinazione di uso di un palazzo destinato ad uffici, si debba anche costruire un altro immobile per uffici, in modo da mantenere inalterata la pressione fiscale. Per gli uffici, infatti, si paga molto di più di tasse che per gli appartamenti.


Era anche un progetto che arrivava in condizioni favorevoli, perché tutti gli affittuari dell’immobile di Sloane Avenue terminavano i loro contratti di affitto, ha spiegato sempre Mincione.

È facendo tutte queste valutazioni che si concretizza l’idea di un investimento sul palazzo, con la parte del fondo che non viene utilizzata per l’operazione Falcon Oil.


L’operazione Falcon Oil, alla fine, naufraga del tutto. Lo stesso Mincione fa sapere che non ci sono le necessarie garanzie, mentre Tirabassi – lo ha spiegato nel suo interrogatorio – mette in luce che ci sono anche perplessità morali sull’investire nel petrolio in un momento in cui Papa Francesco sta pubblicando la Laudato Si. Da notare che monsignor Alberto Perlasca, al tempo capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato vaticana, è descritto come “molto determinato” ad andare avanti nell’affare.


Il Cardinale Becciu, invece, non compare più nelle interlocuzioni.  “Avevo fiducia nei miei collaboratori, dovevo averla, non potevo occuparmi di tutto”, ha detto il Cardinale nel suo interrogatorio.

Restano dunque 200 milioni di euro da investire. Mincione si dice disponibile a restituirli alla Segreteria di Stato. Lo dice verbalmente a Crasso, che lo include in un rapporto inviato alla Segreteria di Stato e mostrato in tribunale dalla difesa di Mincione.


La Segreteria di Stato, però, decide di dare fiducia a Mincione. Questi cambia la destinazione del fondo Athena e lo impiega per rilevare le quote dell’immobile di Sloane Avenue, dando il via all’operazione. È un contratto di gestione cosiddetto lock up, che dura cinque anni estendibile di altri due in caso di una particolare disruption. Non si esce dal contratto, se non pagando penali. È ancora il 2013.

Credit Suisse approva l’investimento, mentre – dice Mincione nell’interrogatorio – “la Segreteria di Stato si rileva un investitore particolarmente inquieto”. Per Segreteria di Stato, si intende soprattutto monsignor Alberto Perlasca, che è quello che, a detta di tutti, prende tutte le decisioni.


Mincione ha detto di non aver mai avviato i lavori per Sloane Avenue, ma di aver avviato quelli dell’altro edificio ad uso ufficio che si sarebbe dovuto costruire come compensazione del cambio di destinazione d’uso. Di fatto, non c’è modo di far partire l’investimento, e poi arriva la Brexit, che è una chiara disruption. Dunque, si dovrebbero garantire i due anni aggiuntivi. Ma la Segreteria di Stato, insoddisfatta del rendimento, decide di cambiare gestione.


Mincione ha raccontato che già nel febbraio 2018 comincia a capire che la Segreteria di Stato è insoddisfatta del rendimento, sente pressioni per cedere le quote dell’immobile, e si mette in moto per soddisfare il cliente. Il prezzo di acquisto possibile è di 350 milioni di euro, considerando il progetto, non lo stato del palazzo.

 

E gli acquirenti ci sono. Arriva anche una offerta di 350 milioni di euro della Invest, una società di Luciano Capaldo. Capaldo è, al tempo, socio di Gianluigi Torzi, che Mincione ha conosciuto a fine 2017. “Aveva l’ufficio dall’altra parte della strada, a volte lo vedevo nelle pause, prendendo una boccata d’aria. Torzi ha presentato migliaia di progetti, qualcuno lo ho letto, pochissimi forse ne ho approvati”, dice Mincione.


Verso la seconda metà del 2018, Torzi diventa l’uomo della Segreteria di Stato per rilevare le quote dell’edificio di Sloane Avenue. Spiega che saprà convincere Mincione a cedere le quote, propone una nuova gestione in cui le quote vanno ancorate ad una sua società, la GUTT.

Il 20 novembre 2018, negli uffici di Mincione a Londra, siedono da una parte Mincione, e dall’altra Torzi, Tirabassi, l’avvocato Manuele Intendente e il broker Enrico Crasso. Crasso ha lamentato di essere stato coinvolto nella questione, ma di non essere mai voluto andare, e che anzi “andare a quell’incontro è stato il più grande errore della mia vita”. Tirabassi ha detto che era in costante contatto telefonico con monsignor Perlasca, e che lo stesso Perlasca gli ha detto che sarebbe stato Torzi a rappresentare gli interessi della Santa Sede. Tutti hanno confermato che la Santa Sede non avesse un legale che la rappresentasse in quell’incontro.


C’era, è vero, l’avvocato Intendente. Ma – ha detto Mincione – “pensavo fosse il capo della Gendarmeria. Si è seduto in fondo, senza parlare mai, con uno sguardo un po’ torvo che mi confermava l’idea che fosse un poliziotto”.


Mincione è delusissimo del fatto che gli viene tolto il controllo del palazzo, cui era affezionato anche perché “lo vedevo ogni giorno sulla strada del lavoro. Era un trophy asset per me, uno di quegli immobili che vuoi davvero sviluppare”. Ritiene che si sarebbe dovuto arrivare alla fine del contratto. Deluso, lascia ai suoi legali il compito di sviluppare l’accordo di uscita dalle quote. “Potevo chiedere qualsiasi prezzo, potevo rifiutare, ma ho lasciato andare”, ha detto.


Entra qui in scena Torzi, dunque. Torzi destina alla Segreteria di Stato la quasi totalità delle azioni e ne mantiene mille. Ma sono le uniche mille con diritto di voto.

Né Tirabassi, né Crasso sanno che quelle azioni sono quelle effettivamente con diritto di voto


Quando monsignor Perlasca se ne rende conto, vuole denunciare, e lo ha detto chiaramente anche in delle interviste rese prima di diventare un cosiddetto “super testimone” al processo. Una denuncia, però, potrebbe essere controproducente. Ci sono dei contratti, e i contratti vanno rispettati.

A metà del 2019, l’arcivescovo Pena Parra viene nominato sostituto e si trova nelle mani una situazione particolarmente intricata. Decide di prendere in mano la situazione, e la soluzione più logica è di acquisire direttamente l’immobile, tagliando i contratti con gli intermediari e così permettendo alla Segreteria di Stato di investire direttamente.


Nel frattempo, Capaldo è diventato un consulente per la Segreteria di Stato. La sua difesa sostiene che ha tagliato tutti i contatti con Torzi. Mincione dice che, dopo l’offerta per l’acquisizione dell’edificio portata con la sua società, Capaldo è arrivato con un’altra offerta di 350 milioni, rappresentando un certo sheikh Salah. Anzi, il fatto che la Santa Sede gli tolga la gestione dell’immobile lo fa sospettare – dice – che questi abbiano deciso di rivendere poi a Salah per intascare la plusvalenza. Non sarà così.


Quello che Pena Parra eredita è comunque un mondo di reciproci sospetti. Monsignor Carlino ha detto durante il processo che è stato messo sotto controllo Giuseppe Milanese, il presidente della cooperativa sanitaria OSA che il Papa coinvolge nella mediazione per convincere Torzi ad uscire dall’affare. Crasso ha detto che gli fu chiesto di trovare, nel fondo della Segreteria di Stato, anche 6 milioni di euro da destinare alle cosiddette cartolarizzazioni delle quote sanitarie di Milanese.


E Pena Parra, lo ha detto Carlino, mette sotto osservazione anche il direttore generale dello IOR Gianfranco Mammì. La Segreteria di Stato ha chiesto allo IOR un prestito per poter rilevare il mutuo che è acceso sul palazzo e rinegoziarlo. Lo IOR ha detto sì, con nota ufficiale. Poi, improvvisamente, ha ritirato la disponibilità. Mammì ha fatto una segnalazione al revisore generale, che ha poi fatto partire l’indagine.


Da qui, le perquisizioni in Segreteria di Stato e nell’Autorità di Informazione Finanziaria, il processo sommario deciso dal Papa, e questo processo che ora si sta celebrando in Vaticano. Mincione ha sempre sottolineato che il suo rapporto era con Credit Suisse, e non direttamente con la Santa Sede. “Non capisco perché io sono qui e non Credit Suisse”, ha detto.


L’andamento degli interrogatori sta creando più domande che risposte, anche sulle risultanze delle indagini del promotore di Giustizia. Si deve ricordare che nel processo vaticano gli imputati sono interrogati, non danno testimonianza. Non giurano di dire la verità. È ammesso che possano mentire per difendersi. Dunque, la ricostruzione viene da dichiarazioni di parte.

Colpisce, però, che tutte le dichiarazioni, con varie sfumature, si tengano. E così, si comincia a ricostruire un puzzle che ha i contorni ancora sfumati, ma che diventa sempre più chiaro.

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