La Corte Suprema degli Stati Uniti ha deliberato, con 6 voti contro 3, che non esiste un diritto costituzionale all’aborto. Viene così ribaltata la famosa legge Roe vs Wade, che stabiliva invece che gli Stati della federazione dovessero garantire il diritto all’aborto almeno fino a quindici settimane di gestazione.
Non ci si dovrà fare ingannare dalla narrativa su Stati progrediti e Stati conservatori o antiquati, che ci sarà. Non ci si dovrà nemmeno fare ingannare dal dibattito sull’eventuale turismo abortista, che sarà diffuso e che viene usato oggi anche per giustificare la maternità surrogata (c’è il turismo per la maternità surrogata, meglio legalizzarla ovunque, si dice).
Si deve, piuttosto, guardare al cuore del problema. Sono due secondo me i punti principali.
Il primo: il bambino ha diritto alla vita? Per quanto mi riguarda, sì, in ogni momento, da quando è concepito, il bambino ha diritto alla vita. Non c’è un momento in cui si diventa bambini con il diritto alla vita, lo si è dalle prime cellule, perché se si pongono limiti, allora quei limiti sono potenzialmente infiniti. E infatti si è arrivato a teorizzare un aberrante “aborto post nascita”, che in realtà è l’omicidio di bambini già nati (qui uno degli studi sul tema, in caso non ci crediate: https://jme.bmj.com/content/39/5/261).
Il secondo ha a che fare con la legge. Esiste un diritto all’aborto? E come fa a non contrapporsi al diritto alla vita o al diritto di essere curato?
La Corte Suprema si è fatta una domanda ulteriore: esiste un diritto costituzionale all’aborto? E la risposta è stata “no”, perché la Costituzione degli Stati non definisce questo diritto.
Era l’approccio del giudice della Corte Suprema Antonin Scalia, morto nel 2009 nel pieno dell’amministrazione Obama. Un approccio portato avanti da un altro giudice della Corte Suprema, una donna nominata sotto l’amministrazione Trump, Amy Coney Barret, che di Scalia fu assistente, che per le sue idee fu ferocemente attaccata e che diede buona prova di sé nel dibattito parlamentare che doveva ratificarne la nomina (https://www.npr.org/2020/10/15/923637375/takeaways-from-amy-coney-barretts-judiciary-confirmation-hearings).
L’approccio è interessante anche per l’Europa. Di fronte ad una Europa che spinge per il diritto all’aborto attraverso procedimenti di soft law, facendo passare per vincolanti risoluzioni che non lo sono e così facendo una sorta di pressione sugli Stati, la sentenza della Corte Suprema fa sapere che su questioni morali non si può decidere a prescindere scavalcando le sensibilità dei popoli, ma piuttosto che le decisioni vanno fatte con il popolo, per il popolo, senza imposizioni dall’alto, secondo ciascuna sensibilità nazionale.
Per favorire la riflessione, pubblico di seguito tre miei articoli passati.
1. Una analisi dell’approccio del giudice Antonin Scalia scritta nel momento della sua morte, pubblicata su Matchman News, portale che ho fondato e diretto per circa un anno (originale qui);
2. La storia di come l’aborto fu dichiarato legale negli USA, scritto su korazym.org (originale qui);
3. La stessa storia sull’aborto, ripresa su ACI Stampa alla morte di una delle protagoniste della sentenza, Jane Roe, che si era sempre battuta per sovvrertire la sentenza (originale qui)
Buona lettura
La morte del giudice Scalia. Che cosa significa per l’Europa?
(Matchman News, 15 febbraio 2016) - La morte lo scorso 13 febbraio del giudice della Corte Suprema Antonin Scalia non apre solamente un dibattito su chi sarà il prossimo giudice della Corte Suprema nominato dal presidente USA Barack Obama. Rappresenta anche l’occasione per mettere finalmente da parte la dicotomia destra-sinistra, cattolici-progressisti che da tempo viene utilizzata per descrivere giudici come Scalia
Nominato alla Corte Suprema dal presidente Ronald Reagan nel 1986, cattolico praticante e padre di 9 figli, Scalia è stato infatti etichettato come “cattolico” ogni qual volta le sue posizioni in seno alla Corte Suprema andavano contro quelle del mainstream. Sulla recente decisione della Corte Suprema che ha di fatto legalizzato il matrimonio omosessuale in tutti gli Stati americani, Scalia aveva presentato una nota di fortissimo dissenso.
Ma si sbaglia a vedere quella nota di dissenso come banalmente legata al suo essere cattolico. Si dovrebbe smettere, in fondo, di definire le convinzioni personali sulle basi del credo religioso. Nel caso di Scalia, c’era – infatti – una forte consapevolezza giuridica, una filosofia che ha sviluppato coerentemente in tutti gli anni che ha trascorso come giudice della Corte Suprema.
Una dottrina che si può rilevare anche nelle parole con cui Scalia ha espresso il suo dissenso sulla decisione della Corte Suprema sul matrimonio omosessuale, arrivata con una risicata maggioranza di 5 a 4.
Scriveva Scalia: “La pratica di una revisione costituzionale di un comitato non eletto di nove persone, sempre accompagnato (come è stato oggi) da uno stravagante elegio della libertà, deruba il popolo della più importante libertà che hanno asserito della Dichiarazione di Indipendenza e conquistato nella rivoluzione del 1776: la libertà di governarsi”.
Perché Scalia era un conservatore nel vero senso del termine, cioè difendeva la lettera delle leggi. I nove giudici della Corte Suprema rappresentano un vero e proprio potere, alla pari con quello esecutivo del presidente e quello legislativo del Congresso. Quando sei giudice federale, o siedi nelle corti federali di primo grado, sei costretto ad applicare i precedenti della Corte Suprema, come prevede la “common law”. Ma quando sei giudice della Corte Suprema, puoi semplicemente creare la giurisprudenza.
E qui si allineano almeno due dottrine di pensiero. Storicamente è prevalsa quella che si è sviluppata negli Anni Cinquanta e Sessanta, sotto la presidenza del giudice Earl Warren. Vale a dire che la Costituzione è un testo vivente da interpretare, che i principi scritti nella Carta devono essere adeguati alla realtà odierna.
Ma Scalia era portatore di una diversa filosofia. Ovvero che la Costituzione è un documento legale, e dunque quello che dice è legge. Si può applicare il problema al tema, tanto discusso, dell’aborto, che fu introdotto negli Stati Uniti attraverso una sentenza della Corte Suprema, la Roe vs. Wade, che stabilisce che l’aborto è un diritto garantito dalla Costituzione.
Ma di aborto nella Carta non c’è traccia, e allora per Scalia la corte non avrebbe nemmeno dovuto occuparsene. Avrebbe dovuto invece lasciare gli Stati liberi di legiferare. Forse non sarebbe cambiato nulla, ma il dibattito non si sarebbe limitato ad una decisione presa da un gruppo di giudici.
Era lo stesso principio che Scalia applicava al caso Obergefell vs. Hodges, che ha poi portato al diritto costituzionalmente riconosciuto per tutti di contrarre un matrimonio tra persone dello stesso sesso negli Stati Uniti.
Ma la dottrina Scalia ha ripercussioni forti anche in Europa, dove sempre più i nuovi diritti vengono imposti a suon di mozioni e risoluzioni in sede europea, che funzionano come una moral suasion per le leggi degli Stati. Con il rapporto Estrela si era riuscito a ristabilire un principio di sussidiarietà sui temi morali. Ma il principio è stato messo in discussione da successive relazioni, come la relazione Panzeri e Tarabella lo scorso anno.
Mancherà, il giudice Scalia, perché mancherà un faro giuridico forte a difendere la lettera delle leggi, che nascono storicamente per difendere i più deboli. Non mancherà un giudice cattolico, ma un giudice che ha fatto della giurisprudenza la sua vita. Che questa vita fosse quella di un cattolico praticante e osservante, è importante per un solo motivo: testimonia che l’essere cattolici non è sintomo di bigottismo o arretratezza culturale; essere cattolico, per il giudice Scalia, era portare nella sua vita il principio che il diritto andava difeso ad ogni costo. Anche al costo di essere impopolare.
Quaranta anni di bugie.Così l’aborto è legale negli USA
(korazym.org, 22 gennaio 2013)
I loro pseudonimi sono Jane Doe e Mary Roe, e sono le donne che hanno ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1973 (i casi Roe vs Wade E Doe vs Bolton), portando – con una storica sentenza – alla legalizzazione dell’aborto negli USA. Ma entrambe queste donne hanno una storia nascosta, di cui si trova poco accenno sui media, e che invece è stata ricostruita nei dettagli dal sito LifeSiteNews che qui riprendiamo. Perché nessuna delle due donne coinvolte in questa storia ha poi effettivamente abortito. Anzi, sono entrambe attiviste pro-life. Ed entrambe hanno provato a far riesaminare le sentenze che le hanno rese celebri. Invano.
Una storia che vale la pena di ricostruire oggi, quando negli USA si celebrano i 40 anni della legalizzazione dell’aborto e nel frattempo in Italia un ciclo di conferenze ha riportato all’attualità il tema dell’aborto post-nascita.
L’anniversario della Roe vs Wade ha rinfocolato il dibattito sull’aborto negli Stati Uniti. I vescovi americani, in occasione dell’anniversario della sentenza, hanno promosso una novena di preghiera e penitenza negli Stati Uniti – cominciata il 19 gennaio – mente i movimenti pro-life sono mobilitati per la Marcia per la vita che si terrà, a Washington, il 25 gennaio, dove sono attese decine di migliaia di persone.
Editoriali pro e contro la legalizzazione sull’aborto, dibattiti sui giornali, sondaggi e bilanci di questi quaranta anni di aborto legale targato USA. Così, nel mezzo di questo fiume di notizie, rischiava di passare inosservata la nota divulgata da Sandra Cano attraverso una agenzia stampa cristiana chiedendo che le sentenze dei processi Roe vs Wade e Doe vs Bolton siano sovvertite.
Non sarebbe una notizia, se non fosse che Sandra Cano è Mary Doe. Ovvero, nient’altro che l’accusatrice del processo Doe vs Bolton, la meno conosciuta del due casi della Corte suprema che hanno aperto al diritto all’aborto negli USA.
Sandra Cano cominciò il suo iter processuale nel 1970: aveva 22 anni, e aspettava il suo quarto figlio, dopo aver perso la custodia di due dei suoi bambini e aver adottato il terzo. In Georgia – dove Sandra Cano viveva – l’aborto poteva essere praticato solo in circostanze estreme. Gli avvocati però ritennero che a Sandra Cano dovesse essere concesso il diritto di abortire.
La Suprema Corte – in una decisione resa pubblica lo stesso giorno in cui fu pubblicata anche la Roe vs Wade – diede ragione agli avvocati. Così, mentre la meglio conosciuta legge Roe vs Wade buttò giù tutte le restrizioni statali sulla prevenzione dell’aborto, la Doe vs Bolton estese il diritto di abortire a tutti i nove mesi di gravidanza.
Ma da sempre, Cano ha sostenuto che l’intero fondamento della Doe vs Bolton era una bugia, che lei non aveva mai davvero voluto né richiesto un aborto e che era stata portata con l’imbroglio a firmare un affidavit sull’aborto al processo che aveva intentato solamente per definire il divorzio da suo marito e cercare di ottenere nuovamente la custodia degli altri bambini. La Cano racconta che lei in realtà ha lasciato la Georgia nel momento in cui sua madre e il suo avvocato hanno provato a forzarla ad avere un aborto.
Nel 2003, Sandro Cano ha lanciato un procedimento legale per cercare di sovvertire il caso che porta il suo nome. “Non ero niente più che un simbolo nella Doe vs Bolton, in cui la mia esperienza e le circostanze in cui le cose sono avvenute sono state presentate in maniera falsa”, ha scritto al tempo.
Il suo tentativo di una nuova audizione del suo caso è fallito. E allora, tenace, ha cominciato a lavorare per ribaltare il giudizio in altro modo. Nel suo ultimo comunicato – divulgato la scorsa settimana – Cano ha reiterato la sua credenza di essere stata “fraudolentemente usata dal sistema della Corte per portare l’aborto in America”, descrivendo il suo caso come “un patto con la morte”.
Nel frattempo, durante l’ultima campagna elettorale un’altra donna è salita alla ribalta per le sue posizioni pro-life. Si chiama Norma McCorvey, e ha accusato il presidente Obama di “uccidere bambini” con il suo supporto all’aborto. Chi è Norma McCorvey? È Jane Roe. Proprio la Jane Roe del celebre processo Roe vs Wade.
Dopo che la sentenza Roe vs Wade fu pronunciata, McCorvey è stata per anni una abortista attivista. Ma nel 1990 si è “convertita” alla causa pro-life, dopo che ebbe modo di conoscere molti leader del gruppo pro-life Operation Rescue, la cui sede era stata trasferita accanto alla clinica abortista in cui lavorava.
“Sono stata persuasa da avvocati femministi a mentire – ha dichiarato – a dire che ero stata stuprata, e che avevo bisogno di un aborto. Ma era tutta una bugia. E da allora oltre 50 milioni di bambini sono stati uccisi. Mi porterò questo peso nella tomba.
Anche McCorvey, nel 2003, ha chiesto di riaprire il suo caso, ma la sua petizione è stata respinta. E anche lei, come Sandra Cano, ha continuato la sua battaglia nel dibattito pubblico. La cosa più sensazionale è che nessuna delle due donne i cui processi hanno aperto le porte della legalità all’aborto negli Usa ha mai compiuto un aborto.
In fondo, si sa molto poco della vita delle due donne che hanno dato vita, quaranta anni fa, a due della cause più famose del mondo. E questo – sostiene LifeSiteNews – è “dovuto senza ombra di dubbio in parte al silenzio degli attivisti pro-aborto, e in parte a un mainstream dei media generalmente abortista e largamente liberale. La defezione delle due donne dal fronte abortista è un imbarazzo che va nascosto sotto il tappeto, specialmente a causa di come le donne descrivono il modo ingannevole con il quale gli attivisti pro-aborto le hanno portate alla causa”.
Entrambe le donne erano infatti giovani, senza educazione, povere: esattamente quello che serviva perché fossero sfruttate per un caso a livello nazionale. E infatti entrambe sostengono che i loro casi sono stati basati su bugie: nel caso di Norma, sulla bugia che fosse stata stuprata, e nel caso di Sandra, che aveva sempre voluto l’aborto come prima scelta. È così – attraverso due bugie – che l’aborto è entrato nel sistema legale degli Stati Uniti. Si calcola che 55 milioni di bambini non hanno visto la luce da allora. È tempo di ripensare tutto, come chiedono Jane Roe e Mary Doe?
È morta Jane Roe. Il suo caso fece legalizzare l’aborto. Ma poi si convertì
(ACI Stampa, 20 febbraio 2017) - La conoscono tutti come Jane Roe, un nome che in realtà serviva a nascondere la sua identità. Ma Norma McCorvey, morta a 69 anni lo scorso 18 febbraio, non era solamente un nome fittizio in una delle due sentenze che aprirono la strada all’aborto negli Stati Uniti. Era una donna che poi si era convertita, era stata battezzata nel 1995 e aveva dedicato tutti gli ultimi 27 anni della sua vita a cercare di sovvertire la sentenza che ha aperto alla possibilità di aborto negli Stati Uniti. Come giustamente è stato scritto, è lei la prima vittima dell’aborto.
Era il 1969 quando Norma, incinta per la terza volta, stava lavorando con un avvocato per dare il bambino in adozione. Ma entrarono all’improvviso nella sua vita Sarah Weddington e Linda Coffey, due giovani avvocati che difendevano il diritto all’aborto. In qualche modo, si approfittarono di lei.
Era praticamente senza tetto, povera, conviveva con un’altra donna, aveva problemi di tossicodipendenza. I due avvocati la portarono a pranzo e la convinsero a firmare quei documenti che avrebbero consentito loro di portare la causa pro-aborto in tribunale. Documenti in cui si sosteneva tra l’altro che lei era vittima di stupro.
Non volle mettere il suo nome sulla causa, e allora divenne Jane Roe. Non pensava minimamente all’impatto che avrebbe avuto la sentenza, approvata a grande maggioranza dei giudici.
La sentenza della Roe vs Wade aprì le porte dell’aborto negli USA. E lei fu attivista abortista, arrivò a lavorare in Planned Parenthood, fino a quando arrivò la conversione. Improvvisa e incredibile, raccontata nel suo libro “Won by love” (Vinta dall’amore) del 1988.
Nella biografia racconta che notò un poster con uno sviluppo fetale mentre era seduta in un ufficio, e lì, guardando lo sviluppo, guardando “quel piccolo embrione di 10 settimane” non poté dire “non dire: questo è un bambino. È come se un paraocchi mi fosse caduto dagli occhi”. Era il 1988. Ed era l’inizio di un percorso. Si convertì alla causa pro-life nel 1990, dopo aver conosciuto molti leader del gruppo pro-life Operation Rescue, la cui sede era stata trasferita accanto alla clinica abortista in cui lavorava. Nel 1995, arrivò il battesimo.
In questi ultimi anni, ha cercato di sovvertire la sentenza che la riguarda in tutti i modi. La sua petizione è stata sempre respinta. Aveva dichiarato: “Sono stata persuasa da avvocati femministi a mentire – ha dichiarato – a dire che ero stata stuprata, e che avevo bisogno di un aborto. Ma era tutta una bugia. E da allora oltre 50 milioni di bambini sono stati uccisi. Mi porterò questo peso nella tomba”.
Non è la sola donna la cui storia fu usata per consentire l’aborto. In Paesi come gli Stati Uniti, dove vige la common law, le sentenze fanno giurisprudenza. E così, fu necessaria un’altra sentenza per consentire l’aborto in ogni momento della gestazione senza paletti. Questa sentenza fu quella del processo Doe vs Bolton.
La signora Doe è Sandra Cano, è la sua storia è molto simile a quella di Norma McCorvey.
L’iter processuale di Sandra Cano cominciò nel 1970: aveva 22 anni, e aspettava il suo quarto figlio, dopo aver perso la custodia di due dei suoi bambini e aver adottato il terzo. Viveva in Georgia, e lì l’aborto poteva essere praticato solo in condizioni estreme, ma gli avvocati ritennero che a Sandra Cano dovesse essere concesso il diritto di abortire. La Corte Suprema fu d’accordo, e con quella sentenza estese il diritto di abortire a tutti i nove mesi di gravidanza.
Peccato che da sempre Sandra Cano ha messo sotto accusa il fondamento stesso dell’iter processuale. Perché – ha detto – lei non aveva mai davvero voluto né richiesto un aborto e che era stata portata con l’imbroglio a firmare un affidavit sull’aborto al processo che aveva intentato solamente per definire il divorzio da suo marito e cercare di ottenere nuovamente la custodia degli altri bambini. E nel 2003, a 30 anni della sentenza, ha lanciato un procedimento legale per sovvertire la famosa sentenza che la riguarda. Nemmeno lei ha avuto successo. Anche lei, oggi, è una attivista pro-life.
Così, la morte di Norma McCorvey ci priva di una testimone diretta di come l’industria dell’aborto abbia propagato le sue bugie. Ma anche di una donna che visse una profonda conversione. Jane Roe era solo un nome, un timbro su una sentenza. Ma Norma McCorvey era sangue e carne. E come sangue e carne conobbe la fede.
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