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sabato 16 aprile 2022

Le parole “randagie” di Benedetto XVI, in attesa di qualcuno che sappia rivelarle

Forse non è un caso che il 95esimo compleanno di Benedetto XVI arrivi in prossimità della Pasqua. Perché è alla Pasqua che ha dedicato tutta la sua vita, allo studio di quel mistero sulla Resurrezione che è poi la base di tutta la teologia cattolica. E infatti, è il Gesù di Nazareth il “libro eredità” di Benedetto XVI, tre volumi scritti quando era Papa mantenendo però il nome da professore, aperti alle critiche e ai commenti, per una eredità teologica ancora tutta da scoprire.

Nel terzo volume di Gesù di Nazareth, dedicato ai Vangeli dell’infanzia, Benedetto XVI sottolinea, infatti, che ci sono parole nell’Antico Testamento che appaiono ancora “randagie”, che si possono correlare a questa o quella figura, ma il vero proprietario del testo si fa attendere. Solo quando il vero proprietario del testo appare nella Bibbia, allora tutto diventa logico. E se la Bibbia è ispirata da Dio, è Dio il vero proprietario del testo. Dunque, tutto resta sospeso finché Gesù Cristo non appare nella storia, 

e così anche la Scrittura può essere letta e compresa in modo nuovo.


Benedetto XVI, in tutta la sua vita da professore, non ha fatto altro che studiare e vivere cercando di dare a queste parole “randagie” un padrone, cercando di dare loro un contesto e un significato particolare e reale. La Scrittura è vita, per Benedetto XVI, e per questo anche la storia di Gesù non può essere scollegata dalla Scrittura, non si può interpretare come qualcosa di solamente simbolico, come si fa con il metodo storico-critico.


Il contrappasso, però, è dietro l’angolo. Nel caso di Benedetto XVI è questo: anche le sue parole restano come randagie se non si mettono nella prospettiva di Dio. Ed è questo che non è stato capito, di Benedetto XVI.

Si è cercato di leggere il pensiero di Benedetto XVI secondo le categorie della vita e della storia, e non si è compreso mai – forse non si è voluto comprendere – che tutto ciò che faceva Joseph Ratzinger era quello di percorrere un itinerarium mentis in Deum, il percorso della mente verso Dio teorizzato dal suo amato San Bonaventura.


Ci sono dei concetti chiave, nei discorsi e nei testi di Benedetto XVI, che aiutano a capire. Come quello di “demondanizzazione”, la necessità di separare e unire, di guardare alla Chiesa come qualcosa in cui cresce grano con la zizzania, fin quando però le cose non devono essere separate di nuovo e poi unite e purificate nella nuova prospettiva di Cristo.


Viene da qui l’idea di trovare una sintesi, di non condannare mai, ma cercare sempre di prendere il buono di qualunque cosa. Da Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, il Cardinale Ratzinger non puntava solo a condannare, ma piuttosto a cercare la parte buona, quella da cui costruire. Come fa con la teologia della Liberazione, cui dedica due istruzioni, una pars desrtuens e l’altra pars construens, dove non c’è solo la condanna delle tesi che chiaramente si distaccano dalla teologia cristiana prendendo categorie politiche, ma anche la ricostruzione a partire da quello che di buono si trovare in quella teologia.


È questo sforzo di sintesi che porta Benedetto XVI, da Papa, a liberalizzare l’uso antico della Messa, considerando il messale di Pio X come una forma straordinaria che si affianca, ma non sostituisce, il Messale di Paolo VI. Perché la Chiesa vuole unità e comunione, e non separazione in buoni e cattivi.

Ed è da questa prospettiva che nasce l’idea di fondare la rivista Communio, staccandosi dalla rivista Concilium che diffondeva il verbo del Concilio Vaticano II secondo i crismi della rottura, e non della continuità. L’approccio è quello della sintesi e della valorizzazione, non certo quello della contrapposizione e dell’esclusione.


Benedetto XVI smaschera le ipocrisie del mondo raccontando, con tutta la sua vita, che c’è una sola verità, quella del Vangelo, che parte da un dato storico riconosciuto, che è la venuta di Gesù Cristo nel mondo, e che solo a partire da quel dato concreto si può davvero andare avanti. Non c’è progressismo che tenga, se questo ha la volontà di dividere il mondo in categorie, se questo non ha la voglia di separare e poi unire con lo sguardo rivolto a Cristo.


Nelle sue biografie si scrive spesso che Benedetto XVI era prima progressista e poi è diventato conservatore. Ma anche questa è una categorizzazione sbagliata, perché Benedetto XVI è sempre rimasto se stesso. Non è all’opposizione semplicemente perché non concepisce una opposizione. Pensa alla fede, alla tradizione, alle persone. Non c’è, in fondo, teologia più popolare di quella di Benedetto XVI, con gli occhi protesi al cielo e i piedi ben puntati a terra, alla vita di ogni giorno che si sviluppa verso la Resurrezione.

Non a caso, il capitolo della Resurrezione del secondo volume del Gesù di Nazareth è quello che ha tolto più tempo a Benedetto XVI. Ci ha lavorato, cercando di comprendere la straordinaria novità di questo fatto, perché – scrive Benedetto XVI - nessuno aveva pensato ad un Messia crocifisso, e “il fatto era lì – scrive Ratzinger – e in base a tale  fatto occorreva leggere la scrittura in modo nuovo”.

Scrivevo anni fa che si può rileggere non solo il Magistero papale di Benedetto XVI, ma la straordinaria avventura del teologo Joseph Ratzinger, come una ricerca della chiave per comprendere il mistero della Resurrezione e per calarla nei tempi, nelle persone, nella Chiesa di oggi. Sin dai tempi della sua tesi di dottorato su San Bonaventura (diventata un libro: San Bonaventura. La teologia della storia).

Era il tempo di Gioacchino da Fiore, del movimento dei francescani conventuali, all’interpretazione della storia come trinitaria che andava oltre la rivelazione dell’Antico Testamento e all’interpretazione della figura di Francesco, umile e intimamente unito alla Chiesa, come iniziatore dei temi nuovi, con il rischio che il messaggio di Francesco fosse frainteso.

Bonaventura risponde a questo movimento. Sa che la figura di Francesco, così diversa dal monachesimo precedente, necessitasse di una interpretazione nuova;  si rende conto che c’è a necessità pratica di avere un fondamento teologico perché le nuove  strutture fossero inserite nella realtà della Chiesa gerarchica, e della Chiesa reale; sa che non si deve perdere la novità della figura di Francesco, seppur con realismo.

Bonaventura concilia le posizioni, ricorda che Gesù Cristo è l’ultima parola di Dio – in lui Cristo ha detto tutto, donando e dicendo se stesso – ma come allo stesso tempo la Chiesa non sia immobile, ha continue novità. Perché Cristo non è la fine della storia, ma il centro della storia.

Comincia da questa consapevolezza, da questo metodo che concilia il nuovo con Cristo, il rinnovamento con l’aderenza alla Chiesa, i padri della Chiesa con la modernità, comincia da qui lo sviluppo del pensiero di Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI.

Oggi che il Papa emerito compie 95 anni, ci rendiamo conto che le sue parole sono ancora randagie, ancora non comprese fino in fondo. Ma è perché il mondo, a volte persino la Chiesa, ha smesso di pensare secondo la prospettiva di Dio. E perché il mondo pensa di avere una verità in tasca. Non Benedetto XVI, che invece ha sempre sostenuto che la verità non si possiede, né si può possedere, ma che è la verità che viene a noi.

Ad multos annos, Benedetto XVI, con lo sguardo sempre rivolto al cielo, inerpicato lì attraverso un pensiero teologico raffinato, con i piedi piantati a terra alla ricerca del significato di Cristo nella vita di ciascuno.

In fondo, Benedetto XVI non è solo un dottore della Chiesa. È proprio una cattedrale.

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