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lunedì 25 novembre 2019

Tra silenzio ed evangelizzazione. Come i media raccontano la Chiesa


Il viaggio di Papa Francesco in Giappone, le storie dei martiri giapponesi e l’epopea della Chiesa del silenzio nipponica, che rimase viva senza preti e senza sacramenti per due secoli, portano anche ad una riflessione su come la Chiesa viene raccontata sui media. Perché la storia della Chiesa del silenzio è stata raccontata nel film Silence, di Martin Scorsese, che raccontava la storia di un gesuita apostata nel tempo delle persecuzioni. E quel film, uscito nel 2016, raccontava molto di come la Chiesa venga percepita o caratterizzata. Come faceva un altro film che usciva sempre nel 2016: The Revenant.


 Due film ampiamente dibattuti, che sicuramente mettono in luce alcuni aspetti importanti della fede, specialmente Silence. Ma, allo stesso tempo, raccontano di una Chiesa o messa ai margini, parte di una storia di cui non è il centro; oppure di una Chiesa che non ha la forza del martirio, che resta debole di fronte alle persecuzioni.

Sono temi non banali, che servono come filo rosso per comprendere il modo in cui il mondo vuole vedere la Chiesa. Di Silence, aveva dato un ritratto vivido il vescovo Robert Barron, ausiliare di Los Angeles, molto conosciuto per le sue sortite sui media. In un articolo su Wordonfire, questi aveva notato come alla fine sia proprio una Chiesa che non riesce a combattere fino alla fine quella che viene dipinta.

La storia di Silence è nota: due giovani gesuiti sono inviati in Giappone, dove la persecuzione anti-cristiana ha raggiunto vette di sangue incredibile, per trovare padre Ferreira, il loro mentore sospettato di aver fatto apostasia. E in effetti scoprono che questi ha davvero fatto apostasia, e che vive con una moglie che gli è stata data dallo Stato. Lo scoprono quando, catturati, vengono sottoposti a ogni tipo di pressione perché calpestino l’immagine di Gesù, compresa la crocifissione di alcuni fedeli cristiani giapponesi di fronte ai loro occhi.

E la scena si concentra su padre Rodrigues, che – una volta scoperto che il suo mentore ha compiuto l’apostasia – di fronte a cristiani torturati in maniera orrenda, al culmine dell’angoscia, sente quella che crede di essere la voce di Gesù che lo invita a calpestare la sua immagine. Lo farà, commetterà apostasia, e diventerà anche lui un officiale di Stato, con tanto di moglie assegnatagli dal governo.

Ed è qui il punto, per il vescovo Barron. Il quale si chiedeva: come sarebbero invece dipinti i protagonisti del film se, invece di essere gesuiti, fossero invece soldati aiutati dai civili e catturati oltre le linee nemiche, che alla fine rinunciassero alla lealtà verso il loro Paese e vivessero una vita confortevole tra le linee di quelli che una volta erano nemici? In questo caso, si parlerebbe di traditori.

“La mia preoccupazione – sottolineava il vescovo Barron – è che tutto questo sottolineare la complessità e multivalenza delle situazioni fa gioco all’élite culturale di oggi, non troppo differente dall’élite culturale giapponese dipinta nel film”. Insomma, “l’establishment secolare preferisce sempre cristiani che vacillano, che sono insicuri, divisi, e allo stesso tempo disposti a rendere la loro fede privata”.

Il film termina mostrando padre Ferreira che mostra un crocifisso nascosto, a testimoniare che lui ha sempre vissuto da cristiano. Ma è davvero questo che sono i cristiani? Davvero il martirio dei cristiani, saldi della fede, è una cosa troppo complessa, troppo poco umana, per poter essere affrontata dalle persone?

Il punto del vescovo Barron porta con sé molte delle questioni che si sono aperte con il Pontificato di Papa Francesco, così incline a guardare dentro la debolezza umana e a enfatizzare il ruolo della misericordia, che pure Benedetto XVI riteneva fondamentale. In generale, sulla base della debolezza umana e della difficoltà ad affrontare alcune situazioni di vita, si tende ad annacquare l’insegnamento cristiano. Come se i cristiani non fossero in grado di accogliere con pienezza l’insegnamento del Vangelo.

E qui ci viene in aiuto l’altro film sotto il segno del quale è iniziato il 2016: the Revenant. Un film che allude solo fugacemente all’eroica epopea dei gesuiti che tra il Seicento e l’Ottocento evangelizzarono il Nord Ovest americano.

L’epoca cui fa riferimento il film è l’inizio Ottocento, quando cominciarono le grandi spedizioni di trapper nel Nord Ovest americano, dopo che la Louisiana fu venduta dai francesi agli Stati Uniti nel 1803. È l’epoca dei grandi esploratori, e dei grandi scontri con le tribù indiane. Ma è anche – ed è un aspetto che il film sembra tralasciare – l’epoca dei grandi missionari.

Il film non ne parla, ma un accenno si può trovare quando Hugh Glass, il protagonista – impersonato da Leonardo Di Caprio – vede in sogno il figlio che gli è stato ucciso dal compagno traditore mentre si erge muto tra le rovine di una chiesa cattolica.

E cosa ci fa una chiesa cattolica lì? Rappresenta proprio l’aspetto dimenticato, ovvero il ruolo che una serie di missionari eroici, soprattutto cattolici e in particolare gesuiti, ebbero proprio nelle terre di Revenant. Mossi solo dalla volontà di salvare le anime, fecero rapidamente presa nella cultura dei nativi americani, tanto che alcuni storici sostengono che solo la velocità e la brutalità dell’espansionismo statunitense che impedì il nascere di esperienze come le reducciones dell’America del Sud.

Eccoli, gli eroi: Jean de Brébeuf (1593-1649), Isacc Jogues (1607-1646) furono uccisi in diversi posti di quello che oggi è lo Stato di New York, dopo aver evangelizzato, battezzato ed educato i nativi americani.

Le prove che dovettero sopportare furono incredibili: padre Jogues fu catturato dai Mohawk, stette un anno a patire le torture in prigione, fu rimandato in patria con le dita di una mano amputate, tornò negli Stati Uniti, fu catturato dagli irochesi, e fu allora ustionato con acqua bollente e carboni ardenti, poi gli furono spezzate ad una ad una le articolazioni e quindi tagliati uno dopo l’altro naso, lingua, orecchie e gli furono cavati gli occhi.

Ammirati dal sacrificio, gli irochesi ne mangiarono cuore e sangue, e poi – arrivati nelle Montagne Rocciose, tramandarono l’ammirato ricordo di Brebeuf e compagni. Un seme che fiorì. Perché quando 150 anni dopo i gesuiti si stabilirono a Saint Louis, furono proprio gli Irochesi a chiedere che uno di loro abitasse tra loro. Rispose all’appello il gesuita Pierre-Jean de Smet (1801-1873), belga, che viaggiò e visse in situazioni proibitive, vincendo il cuore degli indiani al punto che il governo federale ne fece il diplomatico di punta nelle relazioni con i pellerossa.

La traccia lasciata da De Smet fu fortissima. Nel 1862, a Mankota, 33 Sioux su 38 che erano stati condannati a morte chiesero l’accompagnamento spirituale del gesuita francese Augustin Ravoux (1815-1906), un cattolico che fu preferito a un santone della loro tribù o ai due pastori protestanti presenti. In quattro giorni, i 33 Sioux impararono a recitare il Credo, il Padre Nostro, l’Ave Maria, l’atto di dolore, e affrontarono la morte serenamente. Fu un esempio: l’anno successivo, 300 famiglie Sioux chiesero di essere visitate da Ravoux e 200 indiani si fecero battezzare

Ma di tutta questa storia, così cruciale, non c’è traccia in The Revenant. 

Così The Revenant e Silence raccontano in fondo come il mondo vuole la Chiesa cattolica: in silenzio, debole,  oppure – quando è forte – marginalizzata, costretta a stare nelle pieghe della storia piuttosto che ad esserne protagonista.

La domanda che viene da fare è se davvero una Chiesa così, una Chiesa che non è in grado di superare le difficoltà della vita, ma piuttosto cede, possa essere una Chiesa di profezia.

La risposta la dà, in fondo, la storia della Chiesa del Giappone, con tutto quello che è successo dopo il periodo del “silenzio”.

Il bando contro i cristiani fu rimosso solo nel 1873, dopo 250 anni di clandestinità. I cristiani giapponesi non dimenticheranno mai questo periodo.

Ed è qui che la storia di “Silence” si lega ad un’altra storia. La maggior parte dei discendenti dei Cristiani nativi giapponesi si erano stabiliti a Nagasaki, e furono decimati dalla bomba atomica sganciata sulla città il 9 agosto 1945: di 12 mila cattolici, 8500 morirono. Per miracolo, si salvo il monastero Mugenzai no Sono (il Giardino dell’Immacolata) costruito da padre Massimiliano Kolbe prima di ritornare in Polonia e morire nel campo di concentramento di Auschwitz.

Ma la bomba fece più danno del previsto: doveva detonare a Nagasaki, detonò invece nella zona di Urakami, perché mancava il carburante necessario al velivolo per fare la rotta prestabilita. Colpa di un calcolo sensibilmente sbagliato. E fu così che la cattedrale di Urakami, la più grande Chiesa cattolica d’Asia del tempo, si trovò a soli 500 metri dal cosiddetto “Ground Zero”.

Tutti i sopravvissuti, intervistati dopo la distruzione della città, ricordavano dell’esilio dei loro nonni in altre regioni del Giappone a causa del loro ritorno ufficiale al cattolicesimo dopo 250 anni di cristianità nascosta.

Sarebbero molte le storie da raccontare. Come quella dell’orfano Ozaki Tomei, che prese questo nome da novizia nel monastero di padre Kolbe. Una scelta insolita, per i giapponesi, che in genere scelgono nomi di santi occidentali. Ma Ozaki Tomei aveva un significato: era una bambina martire del 1597, che veniva proprio da Nagasaki. Scrittore prolifico sul suo blog fino ad età avanzatissima, la capacità di Ozaki di non perdersi d’animo è forse proprio frutto di quelle vite dei missionari giapponesi che erano rimaste in clandestinità, e che Scorsese definisce “Silenzio”.

Un silenzio che fu inizialmente considerato controverso, perché dava l’idea di una fede non vissuta. Un silenzio che proveniva anche dall’apostasia, sebbene padre Chrisovao Ferreira, la figura storica cui si è basato poi il romanzo Silence da cui è stato tratto il film, sembra si convertì di nuovo alla fine della vita, morendo da martire dopo che la sua apostasia nel 1663 aveva scioccato il mondo.

I cattolici del Giappone ci sono ancora, con figure eroiche come quelle di Takayama Ukon, il cosiddetto samurai di Cristo. I cattolici sono sopravvissuti al silenzio, e forse non è un caso che alla fine della Seconda Guerra Mondiale proprio la città più cattolica del Giappone sia stata bombardata. Quasi un segno a testimoniare le persecuzioni cui ancora oggi i cristiani sono soggetti.

La Chiesa del silenzio, la Chiesa messa ai margini, la Chiesa dalla fede privatizzata è l’obiettivo che vogliono tutti i nemici della fede cattolica.

Eppure, a leggere la storia vera, si comprende come i cristiani abbiano invece portato la luce. A partire dall’ultimo libro di Angela Pellicciari, “Una storia unica”, che va a rileggere l’opera dei conquistadores spagnoli come un’opera di straordinaria evangelizzazione, che infatti portò alle reducciones dei gesuiti. 

La sfida, per i cattolici, e per i cattolici nei media, è quella di andare oltre il complesso di inferiorità culturale cristiano che fa sembrare la storia secolare sempre più scintillante. Diventare consapevoli che il cristianesimo ha forgiato l’identità d’Europa, ha creato i diritti umani con Francisco de Vitoria, si è da sempre opposto alla schiavitù in nome della dignità umana. È una fede che è nel mondo, ma non del mondo. Una fede che forse ora rischia di vivere nella catacombe, confinata in piccole comunità come aveva profetizzato Joseph Ratzinger nel 1978. Una fede che però ha ancora la forza di brillare, nonostante il modo in cui l’opinione pubblica e lo showbiz continua a dipingerla.

Articolo precedentemente pubblicato in Mondayvatican il 2 gennaio 2017 e adattato e aggiornato

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