Processo Palazzo di Londra

martedì 13 agosto 2024

Il giornalismo alla prova della profezia

Siamo abituati a riferirci alle cinque W come alle cinque domande fondamentali da porci ogni qualvolta che scriviamo un pezzo, e le prendiamo come un modello dell’asciutto, preciso, giornalismo anglosassone – quello dei fatti separati delle opinioni, della chiarezza linguistica e interpretativa, e della risposta alle domande.

Lo dico per i profani: le “Cinque W” sono le cinque domande cui ogni giornalista dovrebbe rispondere quando scrive un pezzo: Who, What, When, Where, Why (Chi, Cosa, Quando, Dove, Perché). Alcuni aggiungono una sesta domanda, che non è una W, ma una H (How, come), ma qui stiamo un po’ filosofeggiando.

 

Filosofeggiare: è proprio questo il punto, La filosofia. Presi dalle mille distrazioni del presente, non ci accorgiamo che in realtà queste sono le domande principali della filosofia. Anzi, di quel ramo della filosofia che in realtà aggiunge alla filosofia una quinta dimensione, che è quella della religione e della fede, e cioè la teologia.

 

Sono presidente pro tempore di un Circolo dedicato a San Tommaso d’Aquino, e quest’anno il Premio Internazionale Tommaso d’Aquino è stato conferito a don Mauro Mantovani, prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana. Proprio la sua lectio magistralis, tenuta il 9 marzo 2024 ad Aquino sul tema “Tommaso d’Aquino doctor magisterii causa simpliciter”, mi ha fatto aprire gli occhi.

 

Di Tommaso, diceva Mantovani, “mi ha sempre colpito la chiarezza, nella q. 7 della I-II, nell’indicare il metodo per l’analisi di un fatto, avendo come riferimento senz’altro già Aristotele e 11 Cicerone: ‘quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando’ (chi [i soggetti coinvolti], che cosa [è avvenuto], dove, con quale concorso di contesto, condizione e occasione, perché [le cause], in che modo, quando). Come maestro, inoltre, raccomanda “stilus brevis, grata facundia, celsa, firma, clara sententia” (stile breve, eloquenza – capacità di esprimersi – grata – riconoscente –, e frase alta, ferma – sicura – e chiara)”.

 

Guardare alle fonti ci dice una cosa fondamentale: tutto quello che noi riferiamo al presente, o ad un passato recente, o ad una filosofia di vita che abbiamo fatto nostra e che crediamo essere di qualcun altro, ha radici particolarmente profonde. Così, tutto il lavoro giornalistico, per come nasce, è un lavoro che affonda le radici nella retorica classica e trova il suo essere nella filosofia e nelle grandi questioni della vita e nella teologia che non è solo un derivato della filosofia, ma una ricerca di senso orientata verso la divinità.

 

Questo è ancora più vero per chi si occupa di giornalismo religioso, e in particolare per chi – come me – prova a fare il vaticanista. Perché più si comincia a ragionare in prospettiva, più ci si rende conto che niente viene inventato dal nulla, e che tutto ha una radice molto profonda. Non ci sono scoop, nella Chiesa, perché tutto è già stato rivelato, e perché quello che si fa è cercare di ricreare e rivivere quel mondo in cui la Parola si è fatta carne.

 

Se si comprende questo, cominciano ad avere più senso i riti, le liturgie, le tradizioni storiche, che hanno il compito di raccontare un’anima, di tenerci ancorati a quel momento in cui la Rivelazione ha avuto luogo. Certo, sempre leggendo i segni dei tempi, rimanendo “nel mondo, ma non del mondo”, per dirla con le parole di Gesù.

 

In questi ultimi anni, ho sviluppato un certo interesse proprio per i riti antichi, per quelli che stanno scomparendo, per il significato del protocollo papale (sono coautore di due libricini sul tema), comparandolo anche al tema delle Tradizioni Inventate di Eric Hobsbawm, un libro che ogni giornalista dovrebbe leggere per comprendere come spesso la realtà si mescola con le storie, e come le storie realmente non facciano la Storia.

 

Ma perché sto ragionando su questo? Perché il mio amico Christopher Altieri, sul sito “What We Need Now”, si è lasciato andare ad un ragionamento piuttosto profondo su come la filosofia e il giornalismo siano strettamente interconnessi, e come questa interconnessione diventi anche più viva nel momento in cui il reporter cominci ad occuparsi di informazione religiosa. Siamo filosofi che scrivono in stile giornalistico o giornalisti che cercano di guardare con gli occhi del filosofo – è la domanda di fondo del saggio di Altieri.

 

E, sebbene il saggio non punti a fornire risposte, ma ad aprire dibattiti, sembra anche evidente che Altieri guardi più alla filosofia che al giornalismo. Che è un po’ quello che fanno tutti i giornalisti quando arrivano a un punto della loro vita fatta di cronaca, cronaca, cronaca. Che facciamo? Continuiamo a fare cronaca o cerchiamo di dare un senso alle cose che scriviamo? Diamo solo le notizie o proviamo a mettere le notizie in contesto?

 

Altieri concede anche che la domanda profonda del giornalista che si definisce cattolico è proprio quella di poter fare il giornalista ed essere critico nonostante si sappia esattamente come la pensi, e quale sia il suo fine. E spiega, in effetti, che il giornalista è chiamato prima di tutto ad essere profeta. Non nel senso di essere in grado di prevedere il futuro, ma nell’essere in grado di leggere il presente.

 

Sono molti spunti, forse troppi, e provo a mettere sinteticamente qui alcune riflessioni che penso possano aiutare a sviluppare un dibattito.

 

1.     Credo che siamo al punto che il giornalismo non sia più solo fare cronaca, ma anche fare analisi. Raccontare un fatto in maniera corretta è la base del lavoro, serve come palestra di vita, ma non può essere tutto lì. Ogni cosa deve avere un contesto, e il contesto si guadagna solo con lo studio e con l’esperienza, e con la capacità di leggere i segni dei tempi.

2.     Leggere i segni dei tempi non è ovviamente cosa facile. Serve molta umiltà epistemologica, serve di accettare anche altri punti di vista senza però perdere di vista le proprie idee. Altieri dice “non neutrale, ma non partigiano”. Io aggiungerei anche “equilibrato”, perché è un aggettivo che mi piace molto e che credo riassuma il problema di oggi. In un mondo sempre più polarizzato, in cui le discussioni sono spesso solo il risultato di una ricerca di notorietà, avere un tono bilanciato, senza sopravvalutare né sottovalutare ciò che si vede è la grande sfida. Solo con un punto di vista bilanciato c’è un modo razionale di leggere i segni dei tempi. Che non significa che tutto il passato debba essere buttato via.

3.     Qui entra in gioco una caratteristica secondo me fondamentale, ma poco riconosciuta: quella di saper guardare avanti senza però eliminare ciò che c’era dietro. Anche gli psicologi dicono che si vive meglio con “un bagaglio leggero”, lasciando andare quando si deve. Può forse funzionare per il cervello umano – ma io dubito – ma non funziona per la vita, dove il passato ritorna e ti resta comunque nell’anima, e la vera capacità è saper vivere il presente e progettare il futuro senza mai perdere di vista il passato, anzi valorizzandolo.

4.     Questa caratteristica funziona, ed è necessaria, soprattutto per il giornalismo che si definisce cattolico. Noi giornalisti abbiamo le nostre fonti e le nostre amicizie, tendiamo a dare più credito ad alcuni invece che ad altri. E ci sta. Ma il punto è che poi si deve trovare un equilibrio di giudizio. Se, per fare un esempio, amo il pensiero di don Tonino Bello, non significa che non possa apprezzare nemmeno la visione del Cardinale Ruini. C’è questa idea, quando si parla di Chiesa, di mettere ogni cosa in contrapposizione. In realtà, il cattolicesimo insegna a rivalutare e rivalorizzare le cose, a non dare giudizi preventivi e a far brillare tutto ciò che è buono, perché “una lampada non va tenuta sotto il moggio”.

5.     Questa attitudine può rendere il giornalista cattolico un profeta? No, perché a tutto questo si aggiunge la professionalità, la capacità di fare passi indietro, di comprendere anche altri punti di vista, di accettare di scrivere anche degli altri punti di vista, pur ammettendo di non essere d’accordo. La Verità che si chiede al giornalista deve essere prima di tutto la verità del giornalista con se stesso. Ovvero, la sua calma accettazione di avere simpatie, antipatie e punti di vista, e di lavorare da lì. Si deve sottrarre non alla cronaca, non all’analisi, ma al nostro ego, perché è l’ego che fa un giornalista, ma è anche l’ego che rovina un giornalista.

6.     La profezia, spesso, sta nel riconoscere che stiamo facendo troppo rumore per nulla. Ovvero, che il nostro grande scoop non è uno scoop. Che cose simili sono successe prima. Che idee simili c’erano da prima. Duro da digerire, ma perfetto per comprendere le situazioni, per poterle vedere in maniera distaccata. Non neutrale, non partigiana, ma distaccata. Noi giornalisti siamo spesso dentro le cose, come è normale e giusto che sia. Ma per scrivere, abbiamo bisogno di fare un passo indietro.

7.     Questo è anche il processo della scrittura. Un pezzo va fatto riposare, va guardato con occhi diversi perché si evitino refusi e ripetizioni, va letto anche al contrario per comprendere se e come funziona. Torniamo qui al grande tema della retorica di Cicerone. Scrivere un pezzo, come scrivere un romanzo, è un esercizio retorico. E ci sta, perché la tecnica è fondamentale. Ma non essenziale.

8.     Per scrivere un pezzo, ci si devono fare prima di tutto le domande, e fare le domande giuste. E chi altri, se non la filosofia, insegna a fare domande? In fondo, i giornali nascono e ospitano grandi dibattiti tra filosofi, Hannah Arendt fu reporter del processo di Eichmann, l’Illuminismo si diffuse attraverso i giornali e persino Lenin maturò la sua leadership con i suoi intensi articoli giornalistici scritti in esilio. I mezzi di comunicazione comunicano molto al di là delle notizie, e per questo chi scrive deve sapersi sempre porre le domande. Il vero dubbio non è se si sappia o meno scrivere un pezzo: quello si impara. Il vero dubbio è se si sia in grado di farsi le domande giuste.

9.     Il profeta oggi è dunque colui che sa farsi le domande giuste e sa darsi le risposte. Risposte che non devono essere necessariamente giuste, ma devono essere perlomeno argomentate. Il giornalista, oggi, diventa sempre più un analista perché è necessaria capacità, visione, e velocità nel mettere queste cose insieme per fare un pezzo profondo e degno di essere letto. E, a dire la verità, ci riusciamo ben poche volte, perché il più delle volte scriviamo e siamo molto autoreferenziali. Altre volte siamo semplicemente pigri.

10.  Dobbiamo essere consapevoli di essere nani sulle spalle di giganti. E solo allora, solo quando matureremo l’idea che fare il giornalista non cambierà davvero il mondo, ma aiuterà a raccontarlo un giorno, allora potremo dire di essere riusciti nel nostro scopo.

 

Il giornalismo cattolico, si obietterà, è altra cosa. Forse. Ma io non credo. Io credo che, dato che il giornalista cattolico parte dalla Grande Domanda su chi e perché c’è il mondo ed esiste la miseria umana, il giornalista cattolico è quello che più di tutti ha responsabilità di farsi domande filosofiche, e di renderle giornalistiche. Il giornalista cattolico deve essere ancora più professionista, perché deve andare oltre il pregiudizio religioso e lo deve fare senza lamentarsi del pregiudizio, ma andando avanti con le sue forze.

 

Si parla spesso di riforma nella Chiesa. Si parla anche di una rivoluzione nei lavori intellettuali favorita dalle nuove applicazioni di intelligenza artificiale. Ma io credo che siano dibattiti abbastanza sterili. La Chiesa ha una storia, che va compresa e rivissuta, e un pensiero che non può essere comparata ad un organismo para politico: la parola riforma non si adatta alla Chiesa. E l’intelligenza artificiale mette insieme dati, ma la genialità, la brillantezza, la capacità di mettere insieme i punti e trovare un senso a tutto può essere solo umana.

 

Alla fine, il giornalista è un po’ come Pirandello, che cercava di trovare un senso in tutto ciò che succedeva nel mondo. E, in effetti, Pirandello era uno scrittore, ma scriveva come un filosofo.

 

E noi, allora, che tipo di giornalisti vogliamo essere? Dove vogliamo andare? Quale è il futuro del giornalismo, e il futuro del giornalismo cattolico?

 

Io credo che le domande siano corrette, ma mal poste. In fondo, si tratta di capire se siamo in grado o meno di continuare ad imparare nonostante il nostro talento, o anche grazie a quello. Perché, come spiegava Julio Velasco in una conferenza – e mi si perdoni la citazione sportiva – il talento non è colui al quale vengono le cose facili. È quello che sa mantenere intatta la capacità di apprendimento, e cresce e si allena pur avendo il grande dono di saper fare le cose più velocemente e più facilmente degli altri.

 

Il giornalista saprà essere profeta solo se saprà coltivare il talento. Il giornalista cattolico saprà essere profeta solo se saprà dare un senso a questo talento.

 

 

 

 

 

 

 

 

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