Ok, giochiamo. C’è un mondo inesplorato al processo vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Una Macondo incompresa, un vaso di pandora da aprire a proprio rischio e pericolo, un armadio di Narnia che ha il potere di portare in altre dimensioni. E no, le citazioni para-letterarie non sono un accidente iperbolico di questo testo. Quello che stiamo per andare ad esplorare sono le citazioni letterarie che arrivano sparse qua e là tra le arringhe difensive, permettendo ad un “bivacco sordo e grigio” (semicit.) di colorarsi di vari toni e sfumature, con un romanzo degno di Agatha Christie, con colpi di scena continui che hanno avuto il pregio almeno di ravvivare la narrativa, profondamente cambiata nel corso di due anni con ogni interrogatorio ed ogni sfumatura nuova che veniva aggiunta alla storia.
Dalla requisitoria del promotore di giustizia alle arringhe difensive, passando per le dichiarazioni delle parti civili, il processo non ha solo avuto il pregio e allo stesso tempo il limite di gettare luce su una terra di mezzo vaticana che a volte mostra, più che scandalo, una varia umanità. C’è stato, piuttosto, un florilegio di citazioni letterarie, bibliche, persino calcistiche che gli avvocati hanno usato per descrivere situazioni e fatti e a volte per giocare sulla paradossalità di alcuni eventi, con una reductio ad absurdum che ha reso difficile il lavoro, quello davvero giornalistico, del rasoio di Ockham.
In ordine sparso, e senza voler citare personalmente chi ha detto cosa (non perché segreto, ma perché sto facendo una cosa giocosa, e non ho intenzione di mettere i riflettori su nessuno) abbiamo scoperto che “si è squarciato il velo di Maya”, che in Vaticano operava una “singolare compagnia dell’anello”, che ci sono “situazioni da teatro dell’assurdo che nemmeno Ionesco”, e che, come diceva Shakespeare, “possiamo chiudere con il passato, ma non è il passato che chiude con noi”.
Abbiamo visto monsignori alle prese con una notte “che non è la notte dell’Innominato” perché più che da rimorsi è costellata da ripensamenti, e che quella notte ha portato a “una fase due” dello stesso monsignore. Una “Metamorfosi” kafkiana, che avviene nel sonno come a Gregor Samsa, il protagonista del romanzo, e della quale nemmeno il monsignore sembrerebbe rendersi conto. Anzi, questo stesso monsignore è stato descritto come protagonista di “svariate serie tv”, e abbiamo “diverse puntate” in cui viene descritto ora come trafficante, ora come uomo di legge, ora come miracolato. Non manca un personaggio "salgariano", e non credo si intenda Sandokan.
D’altronde, le testimonianze stridono al punto che arriva anche una citazione – un po’ scontata per la verità – su Pinocchio. Quindi, dato che si è in Vaticano, si arriva anche a scomodare scenari biblici, accusando di “aver fatto entrare i mercanti nel tempio”. Mancherebbe, a questo punto, Gesù con la frusta, ma è forse quello il compito che oggi ci si aspetta dal Papa.
Non mancano nemmeno le citazioni calcistiche. Ad esempio, una interruzione inopportuna quando gli argomenti si fanno stringenti diventa “un fallo tattico”, sebbene poi il presidente del tribunale non faccia come l’arbitro e non ammonisca, e ci si aspetterebbe qualcuno che si tolga la maglietta (o la toga) in segno di protesta.
Ed in questa teatralità, non possiamo che renderci conto che in fondo aveva ragione De Filippo a fare iniziare ogni sua opera teatrale con un palcoscenico quasi al buio, a simboleggiare la vita della commedia umana che nasce proprio dal buio. In fondo, c’è della cupezza nel dramma di un processo che si racconta con le citazioni letterarie, ma che poi porta con sé la grande domanda se queste citazioni, questa ironia a volte sintomo del disagio di essere sotto accusa o accusatori, questa vita che supera le storie che si possono raccontare debbano essere lette con il tono della tragedia o della farsa.
Perché in fondo navighiamo tra tragedie e farsa, siamo tutti personaggi in cerca d’autore (Pirandello anche è tornato tra le citazioni del processo) e lo testimonia il fatto che una delle chat oggetto di scrutinio al processo si chiami “I magnifici tre”, un chiaro riferimento ai “Magnifici quattro”, mentre c'è chi si rifà all'epopea classica e parla di un "affanno pari a quello di Milziade a Maratona".
Che poi, saranno tanto magnifiche e progressive (semicit. Leopardi) le sorti della Santa Sede dopo questo processo? E i Moschettieri del Re (anche Dumas è tornato tra i riferimenti) chi sono e cosa stanno difendendo?
Qualcuno, tra il serio e il faceto, in una pausa caffè mi definisce “il Truman Capote” del processo, e io obietto che se dobbiamo guardare al new journalism sarebbe meglio parlare di Tom Wolfe, l’unico uomo al mondo insieme al Papa che vestiva sempre di bianco. Intanto, penso che, se davvero è una trama alla Agatha Christie, è come se ci si trovi in una stanza con Poirot che raduna insieme tutti alla ricerca dell’assassino, con il rischio che alla fine il morto si riveli vivo, uscendo all’improvviso da un armadio per dire che no, non c’era nessun omicidio, e che dunque gli accusati possono tornare a casa e con essi le loro vite ormai compromesse.
Poi, rimettendo insieme gli appunti, rifletto che forse c’è una citazione che è sfuggita in questi mesi, e che pure sarebbe la più pregnante, se non altro per il titolo del romanzo da cui viene, e per l’aggettivo che ha creato. Perché la situazione è, sì, kafkiana, ma nel senso del Kafka de Il Processo. Processo il cui imputato “non aveva più scelta, se accettare o rifiutare il processo, vi era dentro e doveva difendersi”.
Quante riflessioni assurde, in fondo, per un gioco letterario. Ma è questo il bello della letteratura. Che dà chiavi di lettura per una realtà. E la rende meno banale. Perché, alla fine, c’è molta banalità nel mondo, e il gioco letterario è il nostro modo di non accettarlo.
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