Oggi Benedetto XVI avrebbe compiuto 96 anni, e come esercizio di memoria sono andato a rileggermi qualcosa di suo. In particolare, ho cercato riflessioni che Benedetto XVI ha fatto durante i sinodi, per un lavoro che sto facendo e per una curiosità personale. Mi chiedevo: come venivano compresi i sinodi prima di questa spinta della sinodalità? E cosa è cambiato da allora?
E, tra i primi risultati della mia ricerca, mi sono ritrovato una riflessione che Benedetto XVI aveva tenuto durante il Sinodo 2012 sulla Parola di Dio. Benedetto XVI partecipava ai Sinodi generalmente in silenzio, salvo prendere la parola per fare alcune riflessioni su dei punti che gli stavano a cuore. Ma, ed è questa la cosa interessante, Benedetto XVI non entrava nel dibattito del Sinodo. Cercava, piuttosto, di dare un senso a quello che aveva sentito, di raggruppare tutto in una linea comune.
Era rimasto, in questo, un professore universitario che, di fronte a una serie di idee buone ma disorganiche, indicava la strada per un punto di vista comune, una pista di riflessione, un modo di rendere dei pensieri sparsi qualcosa di più simile ad un libro che ad un gruppo di aforismi. Era, anche questa, comunicazione.
Ma era una comunicazione a lungo termine, raffinata, che andava oltre il contingente. La riflessione che mi sono trovato davanti, però, mi chiedeva di fare un passo in più nella comprensione di Benedetto XVI. Perché mi ha fatto comprendere come quel passo in più Benedetto XVI lo facesse sempre in nome della fede. Non di una fede astratta, ma dell’incontro personale con Gesù Cristo e con il suo Vangelo.
Insomma, niente poteva essere compreso se non attraverso lo sguardo di Cristo. Tutto lo studio, la curiosità, l’amore di Benedetto XVI per quello che diceva e insegnava venivano da un amore profondo, totale nei confronti di Dio, che ha fatto sì che le sue ultime parole fossero proprio “Gesù, ti amo”. Non c’era solo gusto intellettuale, in quello che scriveva Benedetto XVI. C’era, piuttosto, una curiosità che viene dall’amore.
La meditazione di Benedetto XVI parte proprio dalla parola “evangelium”, che “ha una lunga storia”, appare in Omero, poi appare nel Secondo Isaia, collegata alle parole dikaiosyne, eirene, soteria - giustizia, pace, salvezza, e quind viene ripresa da Gesù nel Vangelo.
La parola indica gioia per una vittoria, ma nell’Impero Romano evangelium indica una parola che viene dall’Imperatore, spiega Benedetto XVI, che “come tale - porta bene: è rinnovamento del mondo, è salvezza. Messaggio imperiale e come tale un messaggio di potenza e di potere; è un messaggio di salvezza, di rinnovamento e di salute”. E il Nuovo Testamento accetta questa lettura, perché “San Luca confronta esplicitamente l’Imperatore Augusto con il Bambino nato a Betlemme: «evangelium» - dice - sì, è una parola dell’Imperatore, del vero Imperatore del mondo. Il vero Imperatore del mondo si è fatto sentire, parla con noi”.
Notava Benedetto XVI che “questo fatto, come tale, è redenzione, perché la grande sofferenza dell’uomo - in quel tempo, come oggi - è proprio questa: dietro il silenzio dell’universo, dietro le nuvole della storia c’è un Dio o non c’è? E, se c’è questo Dio, ci conosce, ha a che fare con noi? Questo Dio è buono, e la realtà del bene ha potere nel mondo o no?”
È una domanda ancora attuale, quando ci si chiede se Dio sia solo una ipotesi, e che invece mostra che Dio “ha rotto il suo silenzio, ha parlato”, e proprio questo fatto “come tale è salvezza: Dio ci conosce, Dio ci ama, è entrato nella storia. Gesù è la sua Parola, il Dio con noi, il Dio che ci mostra che ci ama, che soffre con noi fino alla morte e risorge. Questo è il Vangelo stesso. Dio ha parlato, non è più il grande sconosciuto, ma ha mostrato se stesso e questa è la salvezza”.
La domanda oggi è, argomentava Benedetto XVI, come l’uomo possa sapere che Dio ha parlato, Questo è un interrogativo cui si trova risposta pregando, come dice l’Inno dell’Ora Terza, “affinché venga lo Spirito Santo, sia in noi e con noi”.
Chiosava Benedetto XVI: “Con altre parole: noi non possiamo fare la Chiesa, possiamo solo far conoscere quanto ha fatto Lui. La Chiesa non comincia con il «fare» nostro, ma con il «fare» e il «parlare» di Dio”.
E infatti, gli apostoli “non hanno detto, dopo alcune assemblee: adesso vogliamo creare una Chiesa, e con la forma di una costituente avrebbero elaborato una costituzione”, ma piuttosto hanno pregato e in preghiera “hanno aspettato, perché sapevano che solo Dio stesso può creare la sua Chiesa, che Dio è il primo agente: se Dio non agisce, le nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti; solo Dio può testimoniare che è Lui che parla e ha parlato”.
La Pentecoste mostra che “solo perché Dio prima ha agito che gli apostoli possono agire con lui”, perché “il perfetto di Dio non è solo un passato, perché è un passato vero che porta sempre in sé il presente e il futuro. Dio ha parlato vuol dire: «parla». E come in quel tempo solo con l’iniziativa di Dio poteva nascere la Chiesa, poteva essere conosciuto il Vangelo, il fatto che Dio ha parlato e parla, così anche oggi solo Dio può cominciare, noi possiamo solo cooperare, ma l’inizio deve venire da Dio”.
Tutto, insomma, parte dalla preghiera, perché “quando facciamo noi la nuova evangelizzazione è sempre cooperazione con Dio, sta nell’insieme con Dio, è fondata sulla preghiera e sulla sua presenza reale”.
Sempre l’inno dell’Ora Terza sottolinea che Dio ci coinvolge in confessio e Caritas. Se la confessione si impersonifica, perché “la fede ha un contenuto”, e questa deve entrare in noi e diffondersi tramite noi. Una confessione che “deve stare nel profondo del cuore, ma deve essere anche pubblica; deve essere annunciata la fede portata nel cuore: non è mai solo una realtà nel cuore, ma tende ad essere comunicata, ad essere confessata realmente davanti agli occhi del mondo”. E poi, deve entrare nella mente, ma penetrare anche i sensi della nostra vita.
La Caritas è il secondo pilastro, ovvero l’amore, che “è ardore, è fiamma, accende gli altri”. Spiegava Benedetto XVI: ”San Luca ci racconta che nella Pentecoste, in questa fondazione della Chiesa da Dio, lo Spirito Santo era fuoco che ha trasformato il mondo, ma fuoco in forma di lingua, cioè fuoco che è tuttavia anche ragionevole, che è spirito, che è anche comprensione; fuoco che è unito al pensiero, alla «mens»”.
Questo fuoco intelligente, questa «sobria ebrietas», è “caratteristico per il cristianesimo”. Perché “il fuoco è all’inizio della cultura umana; il fuoco è luce, è calore, è forza di trasformazione. La cultura umana comincia nel momento in cui l’uomo ha il potere di creare fuoco: con il fuoco può distruggere, ma con il fuoco può trasformare, rinnovare. Il fuoco di Dio è fuoco trasformante, fuoco di passione - certamente - che distrugge anche tanto in noi, che porta a Dio, ma fuoco soprattutto che trasforma, rinnova e crea una novità dell’uomo, che diventa luce in Dio”.
E concludeva: “Così, alla fine, possiamo solo pregare il Signore che la «confessio» sia in noi fondata profondamente e che diventi fuoco che accende gli altri; così il fuoco della sua presenza, la novità del suo essere con noi, diventa realmente visibile e forza del presente e del futuro”.
Sono parole che rappresentano una eredità pesante, un monito per la Chiesa. Non si deve pensare alle strutture, non basta parlare di nuova evangelizzazione, non bastano nemmeno le costruzioni teoriche. Si deve saper vivere e sentire quello che si dice. Essere credibili nella fede significa essere profondi in quello che si crede. Gli slogan, in fondo, fanno presa sull’opinione pubblica, ma non restano per sempre. Così come le organizzazioni delle cose che non partono da una conoscenza profonda della storia, del senso, della riflessione sul soprannaturale che c’era prima. Niente nasce dal nulla, perché tutto è rinato e compreso in Cristo, ci insegna il Papa emerito.
Un pensiero, quello di Benedetto XVI, oggi attuale più che mai. Da riflettere e meditare ancora.
Grazie, Benedetto XVI!
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