Processo Palazzo di Londra

lunedì 20 febbraio 2023

Tra Cristo e Mosé: ecco come Stanislaw Grygiel presentava il dramma di Papa Francesco


La morte di Stanislaw Grygiel, il filosofo e amico di lunga data di San Giovanni Paolo II, non può non lasciare indifferenti. Con lui se ne va, in qualche modo, una era, un modo di fare Chiesa e un modo di fare filosofia che sembra ormai scomparso. C'era, in Grygiel, il fuoco di dover raccontare cosa fosse davvero la filosofia cristiana, e come questa si applicasse immancabilmente alla vita. 

Grygiel era dal 2004 direttore della Cattedra Karol Wojtyla presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, e quella cattedra era con gli anni diventata un punto di riferimento. Io, che ho cominciato la professione più tardi, ho avuto poche occasioni di ascoltare Grygiel. Ma ci fu un momento particolare che una sua riflessione mi colpì, tanto che ci volli fare un commento per il mio blog. Era il 2016, ci si trovava nel dibattito post-Amoris Laetitia. Mi colpì, in particolare, il ragionamento ardito, innovativo, eppure costruito sulla tradizione e sulla Bibbia. E lo collegai a tante situazioni di quei giorni, anche il dibattito sul "Papato allargato", le critiche a Benedetto XVI, l'avvento di una nuova linea diplomatica della Santa Sede. Tante cose, forse troppe, per un solo commento, ma era così che mi erano venute. 

Come omaggio al professor Grygiel, ripubblico in italiano oggi quell'articolo del 30 maggio 2016. Si intitolava: "Il Dramma di Papa Francesco è il Dramma della Chiesa di Oggi". Il testo in italiano di seguito. Lo trovate in originale qui.

_______________________________________

Quale è il dramma di Papa Francesco? Quello di dover scegliere tra Cristo e Mosè. Ovvero, di dover scegliere tra la verità misericordiosa o la casistica per i duri di cuore. Ovvero, di dover scegliere tra la religione e la sociologia. Perché in fondo l’errore di Mosé è anche l’errore di Carl Marx. Lo ha spiegato Stanislaw Gryegel, in un denso e lungo articolo scritto per il quotidiano italiano Il Foglio.

 

Grygiel non è una persona qualunque: filosofo, amico di Giovanni Paolo II, Grygiel insegna oggi al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli Studi sulla Famiglia e sul Matrimonio. Quello che ha presentato lo scorso 26 maggio è un testo sofferto, che mostra la contrapposizione che si vive oggi nella Chiesa. Non si tratta di un problema che colpisce solamente la Chiesa di Papa Francesco. Fa parte, piuttosto, della dialettica che si crea, da sempre, tra lo “spirito del mondo” e la verità ragionevole della fede. Tuttavia, questa dialettica, calata nel Pontificato di Papa Francesco, rischia di portare a quello che Grygiel definisce un “caos teologico”.

 

Ed è un ragionamento tutto da seguire, quello del filosofo polacco, perché fornisce un punto di vista diverso e allargato del dibattito che è seguito alla pubblicazione dell’Amoris Laetitia. Una esortazione apostolica – spiega Grygiel – che “ci costringe ad una profonda riflessione sulla fede, sulla speranza e sull’amore, cioè sul dono della libertà ricevuto da Dio”, poiché “essa stessa non porta un chiaro messaggio riguardo al dono di Dio” rappresentato da “verità, bene, libertà e misericordia”.

 

Grygiel va alle radici del pensiero di Papa Francesco. Nota che questi è stato formato secondo il principio del “discernimento degli spiriti nella situazione concreta” e anche secondo la regola che “bisogna entrare nella casa dell’altro uomo attraverso la sua porta e uscirne attraverso la propria”.

 

È questa la “prassi pastorale del Papa” nei confronti degli uomini dal cuore indurito, che negano i Dieci Comandamenti basandosi “sul loro cogito che dubita se sia vero che Cristo ‘non aveva bisogno che qualcuno gli desse testimonianza su un altro’, perché ‘sapeva quello che c’è in ogni uomo’.”

 

Ecco, è questo cogito che fa insinuare “nella Chiesa il dubbio ariano se Cristo sia davvero Dio e se i sacramenti siano ciò che la fede della Chiesa dice di vedere in essi, ovvero non siano che segni vuoti scritto sotto la spinta emotiva delle situazioni concrete”.

 

È il problema alla base della protestantizzazione della Chiesa: il pensiero protestante proclamato da Lutero, la cui nozione di libero esame si trova anche nelle fratellanze massoniche e da lì è arrivata a toccare le élite mondiali, costituisce oggi il vero nemico della Chiesa. E’ questo tipo di secolarizzazione, e non tanto le oligarchie al potere contro cui Papa Francesco giustamente punta il dito, formato come è nella nozione di pueblo contrapposto alle élite.

 

Grygiel però fa un passo successivo. Ricorda come Mosé abbia ricevuto da Dio il decalogo e lo abbia distrutto quando, tornato, ha visto il suo popolo prostrarsi all’idolatria del vitello d’oro. Quando il Signore riconsegna a Mosè le tavole della legge, Mosè loda il “Dio misericordioso e pietroso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione”. Eppure – nota Grygiel – anche Mosé “cedette alle pressioni della gente malata di sclerosi del cuore”, permettendo loro “di ripudiare le mogli quando non trovino grazia ai loro occhi”.

 

Un comportamento che richiama – aggiunge il filosofo – “la tesi marxista che la quantità si tramuta nella qualità quando raggiunge la massa critica, cioè che il male commesso spesso cessa di essere male e diventa un bene”.

 

L’antropologia di Mosè si pone su questa massa critica e “Marx doveva conoscere la logica di situazione di Mosé e ne trasse quelle conclusioni che fanno sì che la sociologia e le statistiche assumano il ruolo che spetta al decalogo".

 

Ed eccolo il dramma della Chiesa: i sacerdoti “dovrebbero aiutarci a vivere la presenza del Dio vivente, storicamente incarnata e presente in mezzo a noi per sempre nell’Eucarestia”, ma si trovano stretti tra le pressioni degli uomini di “un duro cuore” e dalla visione di Cristo, poiché “in Lui, Dio crea l’uomo”.

 

L’accusa di Grygiel è dura: “Alcuni dei nostri pastori e arcipastori, cercando di non commettere apertamente l’errore di Mosé e nello stesso tempo di non esporsi anche alle critiche da parte dei ‘cuori’ sclerotici’, ci assicurano che l’indissolubilità del matrimonio è fuori discussione”. Eppure, pretendono che “il pensiero pratico sui matrimoni falliti si appoggi sulla parola ‘ma’, che permetta loro di costruire commenti casistici con i quali giustificare l’adulterio.”

 

La casistica è quella del “sì, ma’, che “non prende in considerazione tanto la coscienza dell’uomo, quanto la sua inclinazione al male”. Per questo – spiega Grygiel – “se si dovesse andare avanti così, c’è da aspettarsi che a breve seguirà il caos”.

 

Non si tratta di un dramma nuovo, per la Chiesa. È stato vissuto anche in occasione del Conclave 2005, che portò all’elezione di Benedetto XVI. Lo ha raccontato l’arcivescovo Georg Gaenswein, segretario particolare di Benedetto XVI, presentando un libro sul pontificato lo scorso 20 maggio.

 

Nel corso della sua presentazione, l’arcivescovo Gaenswein ha notato che “Joseph Ratzinger, dopo una delle elezioni più brevi della storia della Chiesa, uscì eletto dopo solo quattro scrutini a seguito di una drammatica lotta tra il cosiddetto ‘Partito del Sale della Terra’, intorno ai cardinali Lopez Trujillo, Ruini, Herranz, Rouco Varela e Medina, e il cosiddetto ‘Gruppo di San Gallo’ intorno ai cardinali Danneels, Martini, Silvestrini e Murphy O’Connor; gruppo che di recente lo stesso cardinal Danneels ha definito in modo divertito come una specie di ‘mafia club’.”

 

Le parole del segretario particolare di Benedetto XVI certificano l’esistenza di una lotta interna alla Chiesa, e forse è proprio in questa lotta interna che si devono guardare i tanti attacchi al pontificato di Benedetto XVI. Allo stesso modo, è sicuramente un risultato di questa lotta l’operazione simpatia intorno al Pontificato di Papa Francesco, individuato da molti come colui in grado di portare avanti l’ “agenda della misericordia” che il Cardinal Angelo Sodano, decano del Collegio Cardinalizio, declinò nella Missa Pro Eligendo Romani Pontifice che apriva il Conclave 2013.

 

Che si tratti di una guerra aperta lo testimoniano alcuni dettagli dell’intervento di Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, chiamato a fare da contraltare alle parole di Georg Gaesnwein alla stessa presentazione. Riccardi ha voluto ricordare che in fondo il gruppo di San Gallo non aveva quell’importanza e quell’impatto, che addirittura alcuni di quei membri non entravano in conclave, e nel suo intervento ha persino parlato di un conclave fatto da cardinali che non sapevano come eleggere un Papa.

 

Perché notazioni di tal genere, in un intervento che pure non risparmiava elogi a Benedetto XVI? Forse perché Sant’Egidio è riuscito, con le sue iniziative sociali, con il suo lavoro con i rifugiati, con le iniziative dei corridoi umanitari apprezzati da Papa Francesco (e infatti li ha usati nel ritorno da Lesbo) ad essere ormai un attore chiave nello scacchiere vaticano. Se non altro per un lavoro di avanguardia diplomatica, che hanno sempre cercato di fare e che gli è sempre stato precluso.

 

Non per niente, Sant’Egidio è chiamata “l’ONU di Trastevere”, ci ha tenuto a mostrarsi un facilitatore nella riapertura del dialogo con l’Islam sunnita di al Azhar – tanto che il Grand Imam al Tayed era a Parigi ad un tavolo con Sant’Egidio il giorno dopo l’incontro con il Papa – ed è molto attiva nello scenario siriano, dove ha lanciato la campagna per lanciare la città di Aleppo.

 

Ma non mancano i critici di questa attività diplomatica. Alcuni hanno fatto notare che da sempre Sant’Egidio si è scelto i teatri geopolitici con cura: sì al Burundi, al Sudan, anche in Algeria, ma no a Timor Est e Chiapas, dove – notava Sandro Magister in un articolo di qualche anno fa – “c’è poco spazio per farsi vedere” .

 

Una geopolitica pragmatica della presenza, che sembra proprio ben associarsi alla nozione di massa critica di Mosè e Marx. Infatti, Sant’Egidio parlava anche con i terroristi in Algeria. Lo ha raccontato Franco de Courten, ambasciatore ad Algeri dal 1996 al 1998, che nel suo diario di quegli anni – pubblicato in un libro – raccontato come il ministero degli Esteri  fosse molto sensibile all´azione di lobbying svolta da Sant´Egidio per guadagnarne l´appoggio. Le pressioni della comunità si esercitavano anche sui dirigenti delle aziende petrolifere italiane. E le une e le altre pressioni ottennero il richiamo anticipato a Roma dell´ambasciatore, principale oppositore dell´azione della comunità. Tra le accuse principali, quelle di essere stati vicini ai terroristi. E uno di quelli che lo dicevano era il vescovo Pierre Claverie, di Orano, che poi fu ucciso per mano di quei terroristi.

 

È uno dei rischi che capitano quando si mette in pratica la teoria di una massa critica che può trasformarsi in bene, invece di lavorare in una diplomazia basata sulla verità.

 

Anche in questo, si vive il dramma della Chiesa di oggi, sospesa tra l’idea di verità e quella possibilità di una casistica che pure Papa Francesco dice sempre di non voler attuare. Al momento, quello che si nota è che i paladini della prassi pastorale hanno più visibilità di quanti difendono la dottrina. Che la diplomazia fluida basata sui risultati concreti è più presente della diplomazia della verità. Che il gesto diventa il messaggio, come Papa Francesco ha detto nel suo incontro con il Grand Imam di al Azhar.

 

Basta questo per risolvere il dramma della Chiesa, che è il dramma dell’attuale pontificato? Probabilmente no.

 

E allora dobbiamo tornare a quella presentazione dell’arcivescovo Gaenswein per comprendere i segni dei tempi. Perché il segretario di Benedetto XVI tratteggia la scelta della rinuncia come una grande innovazione del Papato. Una innovazione che rende l’istituto del Papato collegiale, pur rimanendo il Papa uno ed unico.

 

Ha detto l’arcivescovo Gaenswein: “Dall’elezione di Francesco non vi sono dunque due Papi, ma de facto un ministero allargato – con un membro attivo e un membro contemplativo. Per questo Benedetto XVI non ha rinunciato al suo nome, né alla talare bianca. Per questo l’appellativo corretto con il quale rivolgerglisi ancora oggi è ‘Santità’; e per questo, inoltre, egli non si è ritirato in un monastero isolato, ma all’interno del Vaticano – come se avesse fatto solo un passo di lato per fare spazio al suo successore e a una nuova tappa nella storia del Papato”.

 

Quanto sia necessario un ministero petrino “allargato”, “integrato” grazie alla figura del Papa emerito “con una dimensione collegiale e sinodale”, è sotto gli occhi di tutti. Di fronte alle sfide del tempo, il Papa ha bisogno di forza per non cedere ai duri di cuore, come ha fatto Mosè. E Benedetto XVI fu in questo un profeta. Anche il suo motto – nota Gaenswein – è “Cooperatori della verità”, al plurale e non al singolare (si tratta di un versetto della terza lettera di Giovanni).

 

E così, il dramma della Chiesa di Papa Francesco si trova tutto in questo primato della coscienza che in pratica aiuta i professionisti della casistica, più che le persone di fede. Una casistica fredda come una analisi sociologica, e in effetti non c’è mai un cenno di gioia negli scritti dei teologi cosiddetti “progressisti”. Come Papa Francesco risolverà questo dilemma, è tutto da vedere. Di certo, il fatto che possa contare su un “consigliere nascosto”, contemplativo e a lui vicino,  come Benedetto XVI non toglie autorità al suo Pontificato. Di fatto, gli dà un sostegno.


Nessun commento:

Posta un commento