Se c’era un diplomatico della Santa Sede che conosceva il linguaggio della diplomazia, quello era l’arcivescovo Alain Lebaupin. Nunzio in Europa dal 2012 al 2020, ma prima ancora una vita nella diplomazia del Papa, che lo aveva portato in tutto il mondo e che gli aveva fatto conoscere l’importanza delle relazioni bilaterali e multilaterali. Tutte vissute con la leggerezza tipica di chi sa il fatto suo, e con la profonda capacità di comprendere quando una situazione era da gestire in maniera grave e seria.
L’arcivescovo Lebeaupin è morto all’improvviso lo scorso 24 giugno, a 76 anni. Era a Roma, viveva da solo in un appartamento che aveva sempre mantenuto come suo pied-a-terre romano, lui che era uno spirito libero e che frequentava tutti i circoli che doveva frequentare, ma mantenendo la sua liberalità. Era andato in pensione da poco, lasciando con il grande successo di una “visita virtuale” del Cardinale Pietro Parolin all’Unione Europea, e cominciando a godersi una pensione attiva, da consultore della Segreteria di Stato.
Ho conosciuto l’arcivescovo
Lebeaupin nel 2015, in uno dei miei viaggi a Bruxelles per seguire le
attività dell’Unione Europea, e soprattutto comprendere cosa facevano i gruppi
cattolici e cristiani, e cosa poteva fare la diplomazia della Santa Sede. Mi ricevette nella sede dell’ambasciata, per
uno di quei caffè che si pensa siano veloci, e invece durano ore. Era un
gran conversatore, e portava in ogni conversazione la sua esperienza. Aveva
sempre un punto di vista alternativo. Pragmatico,
a volte anche molto pragmatico, ma sempre un punto di vista differente.
Lo aveva allenato nella lunga carriera diplomatica,
cominciata nel 1979. Era stato alla Missione
della Santa Sede presso le Nazioni Unite di New York, poi in Repubblica
Dominicana, quindi in Mozambico. Aveva affinato l’arte di leggere tra le
righe dei discorsi, ma anche quella del dialogo. Era, la sua, una scuola
diplomatica fatta di grande profondità intellettuale. E probabilmente non è un
caso che i grandi diplomatici della Santa Sede di quegli anni fossero francesi:
il Cardinale Roger Etchegaray, che
fu il grande inviato di Giovanni Paolo II; il Cardinale Jean Louis Tauran, che negli anni Novanta fu il
protagonista della politica estera della Santa Sede che si affacciava di là
della Cortina di Ferro e sul difficile scenario balcanico; il Cardinale Paul Poupard, che, dopo
essere stato giovane collaboratore della Segreteria di Stato ai tempi di Giovanni
XXIII, fu inviato da Giovanni Paolo II a buttare giù con le ragioni della
cultura l’ideologia comunista e l’ateismo militante.
Era una scuola di enorme valore, a cui monsignor Lebaupin attingeva profondamente, dando anche il tocco
personale di una certa “gioia di vivere” e quella leggerezza di cui parlavo,
che non si traduceva mai in superficialità.
Conosceva il linguaggio della diplomazia, l’arcivescovo Lebeaupin, proprio perché
sapeva sempre dire una parola in meno, e mai diceva una parola di più di quella
che doveva dire. “Non ho mai dato
interviste, perché il mio lavoro deve essere dietro le quinte. Io non voglio
apparire”, mi diceva – anche se poi acconsentì a darmi una intervista a
fine carriera diplomatica. E poi, già nella sua casa romana: “Sa, io sono stato chiamato a fare
conferenze sulla diplomazia pontificia in alcune istituzioni, ma non glielo
dicevo, perché non tutto va detto, ma molto va spiegato”.
Durante il lockdown, cominciò una serie di colloqui con i
funzionari europei, e mi chiamò per raccontarmelo, perché pensava fosse il momento che si conoscesse il lavoro della Santa
Sede nelle istituzioni europee. E anche perché si preparava quella visita a
Bruxelles del Cardinale Pietro Parolin,
segretario di Stato vaticano, per i cinquanta anni delle relazioni diplomatiche
tra Santa Sede e Unione Europea. Quando poi pubblicai
l’articolo, corredato da una sua foto, mi disse: “Le avevo chiesto di non
comparire, mi trovo invece con una mia foto”. E io dissi che la foto la avevo
presa dal profilo twitter di un
commissario UE, e non mi sembrava di avere attentato alla sua riservatezza
se tutto era già ufficiale. Lui fece comprendere che non aveva gradito nemmeno
la pubblicità che gli aveva fatto quel funzionario.
Era una diplomazia sottovoce, quella dell’arcivescovo Lebeaupin. La diplomazia del passo
indietro, che non significa essere indietro, significa semplicemente non
ostentare. Era il vecchio linguaggio diplomatico vaticano, prudente e tagliente
al tempo stesso, capace con savoir faire di ribadire i diritti e
allo stesso tempo di non crearsi nemici, ma buoni rapporti personali.
La visita del Cardinale
Parolin poi non si fece più. Rinviata due volte per via della pandemia,
l’arcivescovo Lebeaupin
la trasformò in una visita virtuale, con incontri online rispettando
rigorosamente l’agenda prefissata. Gli piaceva molto l’idea del “viaggio
virtuale”, che avevo usato nel mio titolo. “La ho ripresa, Gagliarducci, uso
l’espressione con i miei interlocutori”, raccontava sempre.
La sua morte
improvvisa lascia un vuoto strano, difficile da comprendere. Aveva una vita
piena, sebbene da pensionato, e molta voglia di fare, di contribuire. Si fece
stampare il discorso di inizio anno di Papa
Francesco ai diplomatici per poterlo studiare. Ascoltava ogni progetto, e dava
consigli su come svilupparli.
Con lui, si è perso uno dei diplomatici vaticani della
vecchia scuola. Ha lasciato eredi (alcuni nunzi sono cresciuti alla sua scuola),
ha formato persone, ma manca quel tipo di personalità, che veniva prima di tutto dall’essere profondamente sacerdote, quindi
uomo, e poi diplomatico.
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